Tra beerfirm, il contrario del beerfirm, e il marketing

Alcuni giorni fa mi è capitato di leggere, sulla bacheca Facebook di un birraio di mia conoscenza, questo stato: "Vedo serate di promozione della birra artigianale, dove sul palco troviamo beerfirm ("birrai" senza impianto, che fanno produrre ad altri) e il contrario dei beerfirm (che non so come definire) che invece hanno l'impianto ma chiamano un birraio esterno a fare la cotta...promuovono le "proprie" birre sfruttando il culo che si sono fatti i birrai veri negli ultimi 10-15 anni...ma il cliente preferisce sempre chi sa raccontare piuttosto che chi sa fare...".La cosa ha naturalmente stimolato diversi commenti, più o meno infuocati. Dato che è un tema che si sta ponendo in maniera sempre più pesante, e che lavoro lavoro con tutte e tre le tipologie di realtà - birrifici propriamente detti, beerfirm, imprenditori che hanno fatto l'investimento affidando poi a qualcun altro il compito di fare la birra - azzardo anch'io alcune considerazioni.La questione si è recentemente fatta scottante, come ben si intuisce dal post, in particolare per quanto riguarda l'ultima categoria; alla quale viene imputato non tanto il fatto di aver intrapreso un'iniziativa evidentemente legittima sotto il profilo imprenditoriale - e anzi meritoria se riesce magari a dare lavoro ad un bravo birraio disoccupato, metterlo nelle condizioni di lavorare al meglio, e fare birra buona - quanto di non comunicare correttamente il fatto di essere appunto una realtà diversa, cavalcando la stima che si sono guadagnati in questi anni tutti quei birrai-imprenditori che hanno spianato la strada allo sviluppo del settore.A mio avviso, la considerazione sulla comunicazione è corretta, ma forse impostata nella maniera sbagliata da entrambe le parti. Da parte dei birrifici artigianali "primitivi" (passatemi l'espressione), che con questa considerazione fanno più o meno consapevolmente coincidere la meritoria opera già fatta negli anni scorsi con una vera o presunta "superiorità morale" che il pubblico dovrebbe cogliere; e da parte dei "birrifici imprenditori", che evidentemente (almeno alcuni, perché non tutti operano così) sono convinti di dover per forza nascondere il fatto di essere diversi dai birrifici di cui sopra - che sarebbero, appunto, "moralmente superiori". Ok, ho forzato i toni, ma era per rendere l'idea. Invece sono dell'opinione che entrambi, per farsi apprezzare, debbano dire le cose come stanno. I primi raccontare la storia del birraio e della sua impresa, di come questa si concretizzi nelle birre, e di come si inserisca in quella più ampia del movimento birrario artigianale italiano; i secondi quella dell'incontro, si spera virtuoso, tra le capacità economiche e manageriali di un imprenditore - sicuramente utile spunto nella gestione aziendale anche per molti birrai - e un birraio o un consulente. Che magari non avrà potuto esprimere liberamente tutto il suo estro creativo, ma magari è stato bravissimo a cogliere al meglio e con passione le richieste del mercato a cui l'imprenditore si rivolgeva. Insomma, credo che tutti e due abbiano da guadagnarci nell'impostare la comunicazione, molto banalmente, sulla trasparenza. Tanto è vero che, in altri Paesi, gli imprenditori che assumono un birraio (anche per le piccole realtà) sono figura più comune che da noi e non scontano "tare morali" di questo tipo.In secondo luogo, posto che nessun birraio della prima ora fa più il discorso secondo cui la birra buona si vende da sola, se la gente "preferisce chi sa raccontare", allora chi non lo sa fare - a qualunque delle tipologie di cui sopra appartenga - deve porsi qualche domanda. E se, statisticamente, ad essere più bravi a raccontare sono quelli della terza tipologia, allora la soluzione per i primi è imparare a raccontare meglio una storia che, almeno per il pubblico a cui loro mirano, è sicuramente più avvincente di quella dell'imprenditore che assume un birraio. Non dico che sia facile a farsi, ma coltivare acrimonie e sfogarsi sui social non aiuta a far conoscere al pubblico questi retroscena. Mi ha anche dato da pensare il fatto che alcuni, nei commenti, abbiano lamentato il fatto che la birra artigianale sia diventata "un prodotto". A mio parere, dobbiamo definire che cosa intendiamo per "prodotto". Se intendiamo qualcosa che viene fatto per poi essere venduto, allora ovviamente sì, la birra artigianale fatta da un birraio è un prodotto, perché se la fa per non venderla allora si chiama homebrewer e lo fa per hobby e non per lavoro. A meno che, appunto, non vogliamo dare un'accezione diversa al termine, ammettendo che all'interno del concetto stesso di prodotto c'è anche la motivazione che porta a farlo: chi, ad esempio, si sognerebbe di mettere sullo stesso piano un frigorifero e un'opera d'arte venduta in una qualche casa d'aste? Eppure entrambe sono fatte per essere vendute, e dare la giusta (si spera) remunerazione a chi ci ha lavorato. A fare la differenza è, appunto, la motivazione e il processo che porta a questi "prodotti". Se vogliamo fare questa distinzione allora sì, birra artigianale fatta dai birrai "classici", birra fatta da queste altre realtà, e birra fatta dall'industria sono "prodotti" diversi nella misura in cui nascono in maniera differente, cosa che va appunto comunicata correttamente. Ma forse chi lamentava questa "prodottificazione" lamentava in realtà che la birra artigianale sia diventata una sorta di moda, in cui la qualità del (appunto) prodotto finisce per passare in secondo piano rispetto alle dinamiche di marketing e di tendenza - al di là di quale categoria di birrificio l'abbia prodotta. E questo è un problema di non facile risoluzione perché implica il fatto di incentrare la propria comunicazione e le proprie vendite sul rendere il consumatore consapevole, e non sul semplice accattivarsi i suoi gusti.Detto ciò: capisco benissimo la critica che ha fatto partire questo post, e sì, vedere chi non è trasparente sul dove e /o da chi si fa fare la birra o le ricette mi dà personalmente molto fastidio - e cerco di fare quello che posso per comunicare correttamente le varie realtà. Ma una delle cose che mi porto dietro dalla mia precedente esperienza giornalistica è che qualsiasi storia, se lo si vuole e lo si sa fare, può essere raccontata mettendo in luce nel migliore dei modi anche quegli aspetti che potrebbero altrimenti risultare critici. Facciamolo.

Tra beerfirm, il contrario del beerfirm, e il marketing

Alcuni giorni fa mi è capitato di leggere, sulla bacheca Facebook di un birraio di mia conoscenza, questo stato: "Vedo serate di promozione della birra artigianale, dove sul palco troviamo beerfirm ("birrai" senza impianto, che fanno produrre ad altri) e il contrario dei beerfirm (che non so come definire) che invece hanno l'impianto ma chiamano un birraio esterno a fare la cotta...promuovono le "proprie" birre sfruttando il culo che si sono fatti i birrai veri negli ultimi 10-15 anni...ma il cliente preferisce sempre chi sa raccontare piuttosto che chi sa fare...".La cosa ha naturalmente stimolato diversi commenti, più o meno infuocati. Dato che è un tema che si sta ponendo in maniera sempre più pesante, e che lavoro lavoro con tutte e tre le tipologie di realtà - birrifici propriamente detti, beerfirm, imprenditori che hanno fatto l'investimento affidando poi a qualcun altro il compito di fare la birra - azzardo anch'io alcune considerazioni.La questione si è recentemente fatta scottante, come ben si intuisce dal post, in particolare per quanto riguarda l'ultima categoria; alla quale viene imputato non tanto il fatto di aver intrapreso un'iniziativa evidentemente legittima sotto il profilo imprenditoriale - e anzi meritoria se riesce magari a dare lavoro ad un bravo birraio disoccupato, metterlo nelle condizioni di lavorare al meglio, e fare birra buona - quanto di non comunicare correttamente il fatto di essere appunto una realtà diversa, cavalcando la stima che si sono guadagnati in questi anni tutti quei birrai-imprenditori che hanno spianato la strada allo sviluppo del settore.A mio avviso, la considerazione sulla comunicazione è corretta, ma forse impostata nella maniera sbagliata da entrambe le parti. Da parte dei birrifici artigianali "primitivi" (passatemi l'espressione), che con questa considerazione fanno più o meno consapevolmente coincidere la meritoria opera già fatta negli anni scorsi con una vera o presunta "superiorità morale" che il pubblico dovrebbe cogliere; e da parte dei "birrifici imprenditori", che evidentemente (almeno alcuni, perché non tutti operano così) sono convinti di dover per forza nascondere il fatto di essere diversi dai birrifici di cui sopra - che sarebbero, appunto, "moralmente superiori". Ok, ho forzato i toni, ma era per rendere l'idea. Invece sono dell'opinione che entrambi, per farsi apprezzare, debbano dire le cose come stanno. I primi raccontare la storia del birraio e della sua impresa, di come questa si concretizzi nelle birre, e di come si inserisca in quella più ampia del movimento birrario artigianale italiano; i secondi quella dell'incontro, si spera virtuoso, tra le capacità economiche e manageriali di un imprenditore - sicuramente utile spunto nella gestione aziendale anche per molti birrai - e un birraio o un consulente. Che magari non avrà potuto esprimere liberamente tutto il suo estro creativo, ma magari è stato bravissimo a cogliere al meglio e con passione le richieste del mercato a cui l'imprenditore si rivolgeva. Insomma, credo che tutti e due abbiano da guadagnarci nell'impostare la comunicazione, molto banalmente, sulla trasparenza. Tanto è vero che, in altri Paesi, gli imprenditori che assumono un birraio (anche per le piccole realtà) sono figura più comune che da noi.In secondo luogo, posto che nessun birraio della prima ora fa più il discorso secondo cui la birra buona si vende da sola, se la gente "preferisce chi sa raccontare", allora chi non lo sa fare - a qualunque delle tipologie di cui sopra appartenga - deve porsi qualche domanda. E se, statisticamente, ad essere più bravi a raccontare sono quelli della terza tipologia, allora la soluzione per i primi è imparare a raccontare meglio una storia che, almeno per il pubblico a cui loro mirano, è sicuramente più avvincente di quella dell'imprenditore che assume un birraio. Non dico che sia facile a farsi, ma coltivare acrimonie e sfogarsi sui social non aiuta a far conoscere al pubblico questi retroscena. Mi ha anche dato da pensare il fatto che alcuni, nei commenti, abbiano lamentato il fatto che la birra artigianale sia diventata "un prodotto". A mio parere, dobbiamo definire che cosa intendiamo per "prodotto". Se intendiamo qualcosa che viene fatto per poi essere venduto, allora ovviamente sì, la birra artigianale fatta da un birraio è un prodotto, perché se la fa per non venderla allora si chiama homebrewer e lo fa per hobby e non per lavoro. A meno che, appunto, non vogliamo dare un'accezione diversa al termine, ammettendo che all'interno del concetto stesso di prodotto c'è anche la motivazione che porta a farlo: chi, ad esempio, si sognerebbe di mettere sullo stesso piano un frigorifero e un'opera d'arte venduta in una qualche casa d'aste? Eppure entrambe sono fatte per essere vendute, e dare la giusta (si spera) remunerazione a chi ci ha lavorato. A fare la differenza è, appunto, la motivazione e il processo che porta a questi "prodotti". Se vogliamo fare questa distinzione allora sì, birra artigianale fatta dai birrai "classici", birra fatta da queste altre realtà, e birra fatta dall'industria sono "prodotti" diversi nella misura in cui nascono in maniera differente, cosa che va appunto comunicata correttamente. Ma forse chi lamentava questa "prodottificazione" lamentava in realtà che la birra artigianale sia diventata una sorta di moda, in cui la qualità del (appunto) prodotto finisce per passare in secondo piano rispetto alle dinamiche di marketing e di tendenza - al di là di quale categoria di birrificio l'abbia prodotta. E questo è un problema di non facile risoluzione perché implica il fatto di incentrare la propria comunicazione e le proprie vendite sul rendere il consumatore consapevole, e non sul semplice accattivarsi i suoi gusti.Detto ciò: capisco benissimo la critica che ha fatto partire questo post, e sì, vedere chi non è trasparente sul dove e /o da chi si fa fare la birra o le ricette mi dà estremamente fastidio - e cerco di fare quello che posso per comunicare correttamente le varie realtà. Ma una delle cose che mi porto dietro dalla mia precedente esperienza giornalistica è che qualsiasi storia, se lo si vuole e lo si sa fare, può essere raccontata mettendo in luce nel migliore dei modi anche quegli aspetti che potrebbero altrimenti risultare critici. Facciamolo.

Una serata Slow

Lo scorso 19 settembre ho avuto il piacere di partecipare, al birrificio Basei di Latisana, alla degustazione organizzata con gli undici birrifici del Friuli Venezia Giulia inseriti nell'ultima edizione della Guida alle Birre d'Italia Slow Food.La prima cosa apprezzabile in una serata di questo tipo è stato senz'altro il fatto di avere lì, tutti insieme, i birrai che hanno ricevuto questo riconoscimento: quindi un'occasione come poche altre di discussione, confronto e conoscenza.In secondo luogo, come ho avuto modo di affermare anche nel mio intervento all'inizio della degustazione, conoscere le birre e i birrifici selezionati da Slow Food per la guida significa andare a prendere in considerazione parametri che vanno oltre la sola - pur centrale - qualità delle birre: come testimoniano riconoscimenti come la Chiocciola o il titolo di "Birra Slow", significa tenere in considerazione anche la metodologia di lavoro dell'azienda, il rispetto per le tematiche ambientali, il suo rapporto con il territorio e con le materie prime che offre. Insomma, vuol dire conoscere anche un po' il birrificio, il suo territorio e la sua storia.I birrifici presenti, per la cronaca, erano - oltre a Basei stesso, e in ordine rigorosamente casuale - Meni, Garlatti Costa, The Lure, Dimont, Campestre, Agro, Galassia, Foglie d'Erba, Bondai e Borderline. Personalmente ho partecipato a due delle quattro degustazioni in programma, con la Koelsch di Basei, la Bagan (amber ale) di Dimont, la Maan (belgian stout) di Galassia, la Blanche di Agro, la Lupus (belgian blonde ale) di Garlatti Costa, e la Bird (smoked porter) di The Lure.Conoscevo già buona parte delle birre presenti, ma è stato in ogni caso interessante riprovarle - anche alla luce di alcune modifiche alle ricette. Iniziando dalla Koelsch di Basei, che appunto già conoscevo, l'appunto che mi sento di fare è che si conferma sempre più una sui generis, tanto che personalmente avrei difficoltà ad inquadrarla nello stile; in particolare per quanto riguarda la luppolatura più "esuberante" rispetto alle Koelsch classiche, e l'utilizzo di frumento - ben percepibile sia al naso che al palato. Venendo alla Bagan, anch'essa già nota, mi è viceversa sembrata meno "fuori stile" dell'assaggio precedente, avendo dimostrato una migliore continuità nella bevuta tra il caramellato-tostato del corpo snello e il taglio amaro-resinoso finale - abbastanza rispondente quindi alle amber ale, in tal caso americane vista la luppolatura. Nulla da aggiungere sulla Maan, già più volte descritta.In quanto alla Blanche di Agro, che mi era invece nuova, devo ammettere che mi ha lasciata piuttosto spiazzata il connubio che si crea all'aroma tra il frumento maltato - potremmo quindi definirla un ibrido tra blanche e weizen, sotto questo profilo -, lievito e coriandolo usato generosamente: diciamo che deve piacere, e che - diversamente dalla filosofia "generale" del birrificio - strizza l'occhio più a chi cerca sperimentazioni che a chi cerca una blanche classica. Poco da aggiungere anche sulla Lupus di cui ho già parlato più volte, e che si conferma una di quelle in cui meglio si riconosce il tocco di Severino Garlatti Costa nel gioco tra i profumi del lievito belga e la luppolatura continentale, che torna a chiudere il finale; così come sulla Bird, questa volta in versione leggermente affumicata, tanto che questi profumi vanno ad amalgamarsi con il classico tostato-torrefatto delle porter (dandogli comunque un tocco di peculiarità).Un grazie a tutti i birrai, e in particolare al padrone di casa Giuseppe Ciutto.

Una serata Slow

Lo scorso 19 settembre ho avuto il piacere di partecipare, al birrificio Basei di Latisana, alla degustazione organizzata con gli undici birrifici del Friuli Venezia Giulia inseriti nell'ultima edizione della Guida alle Birre d'Italia Slow Food.La prima cosa apprezzabile in una serata di questo tipo è stato senz'altro il fatto di avere lì, tutti insieme, i birrai che hanno ricevuto questo riconoscimento: quindi un'occasione come poche altre di discussione, confronto e conoscenza.In secondo luogo, come ho avuto modo di affermare anche nel mio intervento all'inizio della degustazione, conoscere le birre e i birrifici selezionati da Slow Food per la guida significa andare a prendere in considerazione parametri che vanno oltre la sola - pur centrale - qualità delle birre: come testimoniano riconoscimenti come la Chiocciola o il titolo di "Birra Slow", significa tenere in considerazione anche la metodologia di lavoro dell'azienda, il rispetto per le tematiche ambientali, il suo rapporto con il territorio e con le materie prime che offre. Insomma, vuol dire conoscere anche un po' il birrificio, il suo territorio e la sua storia.I birrifici presenti, per la cronaca, erano - oltre a Basei stesso, e in ordine rigorosamente casuale - Meni, Garlatti Costa, The Lure, Dimont, Campestre, Agro, Galassia, Foglie d'Erba, Bondai e Borderline. Personalmente ho partecipato a due delle quattro degustazioni in programma, con la Koelsch di Basei, la Bagan (amber ale) di Dimont, la Maan (belgian stout) di Galassia, la Blanche di Agro, la Lupus (belgian blonde ale) di Garlatti Costa, e la Bird (smoked porter) di The Lure.Conoscevo già buona parte delle birre presenti, ma è stato in ogni caso interessante riprovarle - anche alla luce di alcune modifiche alle ricette. Iniziando dalla Koelsch di Basei, che appunto già conoscevo, l'appunto che mi sento di fare è che si conferma sempre più una sui generis, tanto che personalmente avrei difficoltà ad inquadrarla nello stile; in particolare per quanto riguarda la luppolatura più "esuberante" rispetto alle Koelsch classiche, e l'utilizzo di frumento - ben percepibile sia al naso che al palato. Venendo alla Bagan, anch'essa già nota, mi è viceversa sembrata meno "fuori stile" dell'assaggio precedente, avendo dimostrato una migliore continuità nella bevuta tra il caramellato-tostato del corpo snello e il taglio amaro-resinoso finale - abbastanza rispondente quindi alle amber ale, in tal caso americane vista la luppolatura. Nulla da aggiungere sulla Maan, già più volte descritta.In quanto alla Blanche di Agro, che mi era invece nuova, devo ammettere che mi ha lasciata piuttosto spiazzata il connubio che si crea all'aroma tra il frumento maltato - potremmo quindi definirla un ibrido tra blanche e weizen, sotto questo profilo -, lievito e coriandolo usato generosamente: diciamo che deve piacere, e che - diversamente dalla filosofia "generale" del birrificio - strizza l'occhio più a chi cerca sperimentazioni che a chi cerca una blanche classica. Poco da aggiungere anche sulla Lupus di cui ho già parlato più volte, e che si conferma una di quelle in cui meglio si riconosce il tocco di Severino Garlatti Costa nel gioco tra i profumi del lievito belga e la luppolatura continentale, che torna a chiudere il finale; così come sulla Bird, questa volta in versione leggermente affumicata, tanto che questi profumi vanno ad amalgamarsi con il classico tostato-torrefatto delle porter (dandogli comunque un tocco di peculiarità).Un grazie a tutti i birrai, e in particolare al padrone di casa Giuseppe Ciutto.

Acido Acida, edizione autunnale

Domenica 6 settembre sono stata al festival Acido Acida, eccezionalmente spostato a settembre dall'usuale data di aprile a causa dell'emergenza Covid. Al netto del fatto che, come chi mi segue sa, faccio da addetta stampa al festival e quindi potrei essere accusata di conflitto di interesse sotto questo profilo, una considerazione credo si imponga: per quanto il lockdown e le conseguenze difficoltà poste al movimento (sia di uomini che di merci) da e per l'Inghilterra abbia avuto inevitabili ripercussioni, con un calo tangibile delle birre e dei birrai presenti, non è stato soltanto uno slogan o una vaga promessa quella secondo cui la qualità non ne avrebbe risentito. Prova ne è il fatto che, la domenica, ho dovuto depennare una buona metà delle birre che avrei voluto assaggiare perché, molto banalmente, erano già finite (in particolare la sezione delle birre affinate in botte, sostanzialmente saccheggiata). Ok, la quantità disponibile era minore rispetto agli altri anni, ma lo era anche l'afflusso di pubblico a causa delle limitazioni poste dalle normative anti Covid, per cui non basta il calo della disponibilità a spiegare la cosa: chi c'era, evidentemente, ha apprezzato.Altra considerazione va fatta sul pubblico: la necessità di prenotazione per entrare ha sostanzialmente tagliato l'avventore "occasionale", spostando l'utenza - come confermatomi anche dall'organizzatore, Davide Franchini - sul pubblico "appassionato". Il che, a detta di più o meno tutti gli operatori a cui ho parlato, non è stato un male, e non necessariamente ha fatto rimpiangere le maggiori potenzialità di incasso dovute a un pubblico più ampio.Venendo alle birre: gran predominanza di sour e fruit sour, a scapito dei "classiconi" inglesi (comunque presenti, anche se meno in forze rispetto allo scorso anno, quando avevano viceversa fatto la parte del leone). Se sia meglio o peggio è questione di gusti, ma è anche vero che si trattava per la maggior parte di sour pensate per risultare attrattive anche al pubblico generico: vuoi per la frutta tropicale, vuoi per il cacao, vuoi per affinature in botti con vini "di richiamo", le sour davvero solo per i patiti non erano molte. Il che ha ovviamente un senso per un festival non rivolto solo ad una nicchia ristretta.In realtà ho iniziato con una birra che sarebbe andata piuttosto tra le ultime, ossia la Vingraf 2016 di Antica Contea (uno dei birrifici italiani ospiti): ultimo fusto quasi alla fine, prendere o lasciare (e quindi prendere). Trattasi di una Iga con mosto di Sauvignon dell'azienda agricola Casa delle Rose di Ruttars, maturata in tonneau di rovere. In un primo momento a fare da padrona è la fruttatura, una girandola di aromi che arriva a toccare persino qualche nota di frutta tropicale; poi, al salire della temperatura, emerge anche la componente del legno, che rimane comunque ben bilanciata nel gioco con la fruttatura, prima di un finale secco e di un acidulo fresco. Si conferma, nelle varie annate (avevo già provato la 2014 e la 2015), una birra ben riuscita.Venendo alle fruit sour, sono partita con quelle del canadese Collective Arts Brewing; che a mio avviso si distingue, almeno per quelle che ho provato, per una netta tendenza a far prevalere la frutta. Cito ad esempio la Pina Colada, con lattosio, cocco e ananas; e la Blueberry with Cocoa Nibs, con mirtilli e cacao. Senz'altro gradevoli da bere e dall'acidità ben smorzata dalla frutta, forse eresia per coloro che usano inveire contro le birre che assomigliano un po' troppo a succhi di frutta. Più equilibrata la "Si sente che è diversa", Apa con mango aggiunto in fermentazione del goriziano The Lure (altro ospite italiano), in cui la frutta si armonizza in maniera equilibrata con la luppolatura e con l'acidità stessa, che ha un suo ruolo nel mantenere il gioco d'insieme.Meno scontata sotto questo profilo la Fake Bake di Overworks, che sulla carta sembrava - a dispetto del nome - uuna vera e propria torta frangipane, a cui afferma di essere ispirata: una pastry stout con marmellata di ciliege e mandorle, maturata in botti di rye whisky. Incredibile a dirsi, ma è e rimane una birra, in cui la base di stout gioca a rincorrersi con la frutta e la mandorla. Finale pulito grazie all'acidità elegante, senza persistenze stucchevoli, e più secca di quel che ci si potrebbe aspettare.Chiudo dedicando qualche riga al dialogo che ho avuto il piacere di condurre con Hellsandro, artista goriziano che disegna le etichette delle lattine di The Lure. Un dialogo che ha messo in evidenza, se mai ce ne fosse stato bisogno, come la questione del design delle lattine e della lattina "come opera d'arte" stia diventando anche in Italia una faccenda serissima; e come si stia esplorando, sia da parte dei birrai che degli artisti, il legame tra arte e birra. Nel caso di specie, poi, è curioso notare come non ci sia solo una questione di identificazione tra disegno e birra, ma la volontà di raccontare una vera e propria storia, una sorta di fumetto, legato in qualche modo alla birra in questione. Una via già esplorata da altri, ma che qui ha raggiunto forme di compiutezza che non mi era capitato di vedere prima.Concludo con un ringraziamento a tutti i birrai, e all'organizzatore Davide Franchini.

Acido Acida, edizione autunnale

Domenica 6 settembre sono stata al festival Acido Acida, eccezionalmente spostato a settembre dall'usuale data di aprile a causa dell'emergenza Covid. Al netto del fatto che, come chi mi segue sa, faccio da addetta stampa al festival e quindi potrei essere accusata di conflitto di interesse sotto questo profilo, una considerazione credo si imponga: per quanto il lockdown e le conseguenze difficoltà poste al movimento (sia di uomini che di merci) da e per l'Inghilterra abbia avuto inevitabili ripercussioni, con un calo tangibile delle birre e dei birrai presenti, non è stato soltanto uno slogan o una vaga promessa quella secondo cui la qualità non ne avrebbe risentito. Prova ne è il fatto che, la domenica, ho dovuto depennare una buona metà delle birre che avrei voluto assaggiare perché, molto banalmente, erano già finite (in particolare la sezione delle birre affinate in botte, sostanzialmente saccheggiata). Ok, la quantità disponibile era minore rispetto agli altri anni, ma lo era anche l'afflusso di pubblico a causa delle limitazioni poste dalle normative anti Covid, per cui non basta il calo della disponibilità a spiegare la cosa: chi c'era, evidentemente, ha apprezzato.Altra considerazione va fatta sul pubblico: la necessità di prenotazione per entrare ha sostanzialmente tagliato l'avventore "occasionale", spostando l'utenza - come confermatomi anche dall'organizzatore, Davide Franchini - sul pubblico "appassionato". Il che, a detta di più o meno tutti gli operatori a cui ho parlato, non è stato un male, e non necessariamente ha fatto rimpiangere le maggiori potenzialità di incasso dovute a un pubblico più ampio.Venendo alle birre: gran predominanza di sour e fruit sour, a scapito dei "classiconi" inglesi (comunque presenti, anche se meno in forze rispetto allo scorso anno, quando avevano viceversa fatto la parte del leone). Se sia meglio o peggio è questione di gusti, ma è anche vero che si trattava per la maggior parte di sour pensate per risultare attrattive anche al pubblico generico: vuoi per la frutta tropicale, vuoi per il cacao, vuoi per affinature in botti con vini "di richiamo", le sour davvero solo per i patiti non erano molte. Il che ha ovviamente un senso per un festival non rivolto solo ad una nicchia ristretta.In realtà ho iniziato con una birra che sarebbe andata piuttosto tra le ultime, ossia la Vingraf 2016 di Antica Contea (uno dei birrifici italiani ospiti): ultimo fusto quasi alla fine, prendere o lasciare (e quindi prendere). Trattasi di una Iga con mosto di Sauvignon dell'azienda agricola Casa delle Rose di Ruttars, maturata in tonneau di rovere. In un primo momento a fare da padrona è la fruttatura, una girandola di aromi che arriva a toccare persino qualche nota di frutta tropicale; poi, al salire della temperatura, emerge anche la componente del legno, che rimane comunque ben bilanciata nel gioco con la fruttatura, prima di un finale secco e di un acidulo fresco. Si conferma, nelle varie annate (avevo già provato la 2014 e la 2015), una birra ben riuscita.Venendo alle fruit sour, sono partita con quelle del canadese Collective Arts Brewing; che a mio avviso si distingue, almeno per quelle che ho provato, per una netta tendenza a far prevalere la frutta. Cito ad esempio la Pina Colada, con lattosio, cocco e ananas; e la Blueberry with Cocoa Nibs, con mirtilli e cacao. Senz'altro gradevoli da bere e dall'acidità ben smorzata dalla frutta, forse eresia per coloro che usano inveire contro le birre che assomigliano un po' troppo a succhi di frutta. Più equilibrata la "Si sente che è diversa", Apa con mango aggiunto in fermentazione del goriziano The Lure (altro ospite italiano), in cui la frutta si armonizza in maniera equilibrata con la luppolatura e con l'acidità stessa, che ha un suo ruolo nel mantenere il gioco d'insieme.Meno scontata sotto questo profilo la Fake Bake di Overworks, che sulla carta sembrava - a dispetto del nome - uuna vera e propria torta frangipane, a cui afferma di essere ispirata: una pastry stout con marmellata di ciliege e mandorle, maturata in botti di rye whisky. Incredibile a dirsi, ma è e rimane una birra, in cui la base di stout gioca a rincorrersi con la frutta e la mandorla. Finale pulito grazie all'acidità elegante, senza persistenze stucchevoli, e più secca di quel che ci si potrebbe aspettare.Chiudo dedicando qualche riga al dialogo che ho avuto il piacere di condurre con Hellsandro, artista goriziano che disegna le etichette delle lattine di The Lure. Un dialogo che ha messo in evidenza, se mai ce ne fosse stato bisogno, come la questione del design delle lattine e della lattina "come opera d'arte" stia diventando anche in Italia una faccenda serissima; e come si stia esplorando, sia da parte dei birrai che degli artisti, il legame tra arte e birra. Nel caso di specie, poi, è curioso notare come non ci sia solo una questione di identificazione tra disegno e birra, ma la volontà di raccontare una vera e propria storia, una sorta di fumetto, legato in qualche modo alla birra in questione. Una via già esplorata da altri, ma che qui ha raggiunto forme di compiutezza che non mi era capitato di vedere prima.Concludo con un ringraziamento a tutti i birrai, e all'organizzatore Davide Franchini.

Birra, vino e sproloqui sull’universo femminile (e non solo)

Sta circolando in questi giorni sui social un articolo apparso su Il Foglio a firma di Camillo Langone e Corrado Beldì, dal titolo "Malvasia di Bosa o Verdiso trevigiano per le nuove generazioni malate di birra". Non mi soffermo sui contenuti, anche perché in realtà di contenuti propriamente detti non ce ne sono: si tratta infatti di una serie di luoghi comuni, presentati in forma provocatoria e irridente, su una pretesa nobiltà del vino e di chi lo beve rispetto alla birra; fino a sconfinare in aggettivi che possono risultare offensivi a chi produce birra con passione, nonché in frasi dal sapore sessista sulle donne che bevono birra - e dalle quali traspare un'evidente mancata conoscenza di questa parte dell'universo femminile.Al di là della magistrale risposta di Unionbirrai per mano di Andrea Soncini, che trovo molto ben scritta, azzardo anch'io alcune considerazioni.La prima riguarda, appunto, l'universo femminile. Ormai non si contano le ricerche e i sondaggi che dimostrano come le donne non solo apprezzino la birra - Assobirra stima in oltre il 60% le donne consumatrici di questa bevanda - ma lo facciano anche in maniera più misurata e consapevole degli uomini, preferendo formati più piccoli e andando a ricercare sapori, aromi, abbinamenti culinari, secondo una peculiare sensibilità. Non è un caso che in Italia sia nata cinque anni fa un'associazione, Le Donne della Birra, che riunisce sia appassionate che professioniste del settore - birraie, biersommelière, publican, beer chef, distributrici, formatrici, giornaliste. Insomma, tutte donne ben lontane dallo stereotipo della rozza donzella che si ubriaca ruttando evocata da Langone. Se non ci crede, libero di partecipare come uditore ad un incontro-degustazione dell'Associazione e giudicare da sé.In secondo luogo, risulta quantomeno curioso che i due, per dimostrare la (presunta) superiorità del vino, citino apertamente un'azienda - Gregoletto - che è proprietaria anche del marchio Birra Follina. Conoscendo personalmente il titolare e lo staff, mi sento di dire che, per quanto quello vinicolo rimanga il cuore dell'azienda, di sicuro nessuno lì dentro ha posizioni denigratorie nei confronti della birra; anzi, nell'ultimo anno a questa parte, con l'ingresso anche di nuovo personale, ho notato un'evoluzione positiva nell'attività del birrificio. Una citazione dunque che, per come la leggo io, più che dimostrare la superiorità di una bevanda sull'altra prova quell'italico legame tra birra e vino citato anche da Soncini.Ultimo punto: ho sempre affermato che, dal punto di vista mediatico, la peggior condanna è il silenzio. Il "nel bene o nel male, purché se ne parli" è un luogo comune tragicamente vero; e anche confutare un articolo di questo tipo è parte del successo dell'articolo stesso. Tuttavia, anche se in un primo momento avevo pensato di tacere, ho deciso di scrivere qualcosa in virtù del dibattito che si è creato, e al quale spero di aver dato un contributo costruttivo. Da giornalista, dispiace vedere che colleghi dalla lunga e rispettabile esperienza, che hanno tutte le competenze per scrivere articoli di livello (come già hanno dimostrato), utilizzino la loro penna per denigrare gratuitamente - o almeno così io, e tanti altri, abbiamo colto questo articolo - invece che per portare in maniera costruttiva la propria voce. Perché denigrare gratuitamente non è satira, né dotta provocazione - entrambi ambiti in cui Langone già si è cimentato con successo, e che all'interno del giornalismo hanno una loro precisa e riconosciuta funzione.

Birra, vino e sproloqui sull’universo femminile (e non solo)

Sta circolando in questi giorni sui social un articolo apparso su Il Foglio a firma di Camillo Langone e Corrado Beldì, dal titolo "Malvasia di Bosa o Verdiso trevigiano per le nuove generazioni malate di birra". Non mi soffermo sui contenuti, anche perché in realtà di contenuti propriamente detti non ce ne sono: si tratta infatti di una serie di luoghi comuni, presentati in forma provocatoria e irridente, su una pretesa nobiltà del vino e di chi lo beve rispetto alla birra; fino a sconfinare in aggettivi che possono risultare offensivi a chi produce birra con passione, nonché in frasi dal sapore sessista sulle donne che bevono birra - e dalle quali traspare un'evidente mancata conoscenza di questa parte dell'universo femminile.Al di là della magistrale risposta di Unionbirrai per mano di Andrea Soncini, che trovo molto ben scritta, azzardo anch'io alcune considerazioni.La prima riguarda, appunto, l'universo femminile. Ormai non si contano le ricerche e i sondaggi che dimostrano come le donne non solo apprezzino la birra - Assobirra stima in oltre il 60% le donne consumatrici di questa bevanda - ma lo facciano anche in maniera più misurata e consapevole degli uomini, preferendo formati più piccoli e andando a ricercare sapori, aromi, abbinamenti culinari, secondo una peculiare sensibilità. Non è un caso che in Italia sia nata cinque anni fa un'associazione, Le Donne della Birra, che riunisce sia appassionate che professioniste del settore - birraie, biersommelière, publican, beer chef, distributrici, formatrici, giornaliste. Insomma, tutte donne ben lontane dallo stereotipo della rozza donzella che si ubriaca ruttando evocata da Langone. Se non ci crede, libero di partecipare come uditore ad un incontro-degustazione dell'Associazione e giudicare da sé.In secondo luogo, risulta quantomeno curioso che i due, per dimostrare la (presunta) superiorità del vino, citino apertamente un'azienda - Gregoletto - che è proprietaria anche del marchio Birra Follina. Conoscendo personalmente il titolare e lo staff, mi sento di dire che, per quanto quello vinicolo rimanga il cuore dell'azienda, di sicuro nessuno lì dentro ha posizioni denigratorie nei confronti della birra; anzi, nell'ultimo anno a questa parte, con l'ingresso anche di nuovo personale, ho notato un'evoluzione positiva nell'attività del birrificio. Una citazione dunque che, per come la leggo io, più che dimostrare la superiorità di una bevanda sull'altra prova quell'italico legame tra birra e vino citato anche da Soncini.Ultimo punto: ho sempre affermato che, dal punto di vista mediatico, la peggior condanna è il silenzio. Il "nel bene o nel male, purché se ne parli" è un luogo comune tragicamente vero; e anche confutare un articolo di questo tipo è parte del successo dell'articolo stesso. Tuttavia, anche se in un primo momento avevo pensato di tacere, ho deciso di scrivere qualcosa in virtù del dibattito che si è creato, e al quale spero di aver dato un contributo costruttivo. Da giornalista, dispiace vedere che colleghi dalla lunga e rispettabile esperienza, che hanno tutte le competenze per scrivere articoli di livello (come già hanno dimostrato), utilizzino la loro penna per denigrare gratuitamente - o almeno così io, e tanti altri, abbiamo colto questo articolo - invece che per portare in maniera costruttiva la propria voce. Perché denigrare gratuitamente non è satira, né dotta provocazione - entrambi ambiti in cui Langone già si è cimentato con successo, e che all'interno del giornalismo hanno una loro precisa e riconosciuta funzione.

Nelle valli del Natisone

Alcuni giorni fa ho accolto l'invito di Mirco Masetti, birraio del birrificio Gjulia (nonché collega biersommelier Doemens) a visitare il nuovo (aperto il 10 luglio per la precisione) Agriristoro Stazione Gjulia a San Giovanni al Natisone (Udine). L'idea iniziale era quella di fare una semplice tap room per il birrificio lì accanto, ma la cosa alla fine ha preso una piega più articolata.Si tratta infatti di un edificio di due piani in cui è possibile degustare sia le birre che alcuni prodotti gastronomici (taglieri di salumi e formaggi, focacce e panini fatti dalla casa, tipicità locali come frico e gubana, e anche i vini dell'azienda agricola Alturis di cui il birrificio è parte); e che prevede, al pian terreno, una curiosità come "la fontana della birra" - un erogatore automatico (anche di acqua e succo di mela, come la foto testimonia) da cui è possibile servirsi h24 tramite tessera ricaricabile, eventualmente anche tramite boccale personalizzato da lavare e lasciare nella stanza d'ingresso apribile sempre con la tessera. Completano il quadro una serie di servizi per biciclette e biciclette elettriche (compreso il noleggio), dato che le valli del Natisone sono luogo di turismo su due ruote (è possibile anche utilizzare servizi igienici e docce, nonché un punto di lavaggio per cani). Insomma, potremmo definirlo l'upgrade di una tap room.Nella scelta e degustazione delle birre mi sono naturalmente fatta guidare da Mirco. Siamo partiti con la Ioi, una Golden Ale senza glutine, che Mirco mi ha spiegato voler essere quanto più vicina possibile all'idea di una birra giovane e ancora "grezza" (tanto è vero che l'idea è stata anche quella di battezzarla "cruda", non perché le altre siano viceversa pastorizzate, ma perché questa appunto vuol essere "verace"). Devo dire che in realtà, più che una Golden Ale, mi ha quasi più ricordato una Helles: l'aroma è infatti molto pulito, senza esteri, con elegante luppolatura floreale. Il corpo è estremamente scarico, pur senza risultare "vuoto" grazie alle note di crosta di pane comunque presenti, e una chiusura di un amaro leggero e poco persistente. Insomma, anche se la Helles di Gjulia è un'altra, a mia opinione può andare incontro ai gusti dello stesso pubblico (oltre che di chi ha problemi di celiachia, naturalmente).Siamo poi passati a quella che viene definita "Ambrata", invero una sui generis che, se mi avessero fatto fare una degustazione alla cieca, non avrei saputo definire. Si tratta infatti di una lager, come da tradizione tedesca, che prevede però - al di là del pils di base, fatto con l'orzo di Alturis - un mix di malti e di luppoli inglesi. Il risultato è qualcosa di appunto indefinibile, in cui la luppolatura erbacea fa da sfondo ad una rosa di sapori di cereale che va dalla crosta di pane ben cotta, al biscotto, al caramello, al pane tostato, prima di chiudere su un amaro anche qui non invasivo e poco persistente.Non mi soffermo sulla Weizen, aderente allo stile e senza particolari osservazioni da fare; e passo direttamente alla Ipa, sulla quale nutrivo qualche curiosità dato che Mirco mi aveva anticipato di non essere un patito delle luppolature strabilianti. In effetti l'aroma, pur esibendo con chiarezza profumi di macedonia di frutta tropicale (con tanto di spruzzata di lime sopra, giusto per non scordare gli agrumi), non risulta tale da stupire; sorprende piuttosto come questi aromi diventino poi sapori con decisamente maggior forza, soprattutto nella seconda parte della bevuta, in cui vanno sostanzialmente ad accompagnare la luppolatura in amaro. Un gioco interessante, per chi cerca qualcosa di diverso dalle "solite Ipa" pur volendo rimanere nei ranghi dello stile.Da ultimo il distillato, ricavato dal barley wine della casa, affinato in barrique di rovere 24 mesi: toni che ricordano decisamente il rum, e un tasso alcolico da suggerire di non indulgere troppo (40 gradi).Un grazie a Mirco e allo staff per la calorosa accoglienza, nonché a Stefan Grauvogl di Arte Bier, referente in Italia per i corsi Doemens e docente dei corsi stessi, presente quella sera.

Nelle valli del Natisone

Alcuni giorni fa ho accolto l'invito di Mirco Masetti, birraio del birrificio Gjulia (nonché collega biersommelier Doemens) a visitare il nuovo (aperto il 10 luglio per la precisione) Agriristoro Stazione Gjulia a San Pietro al Natisone (Udine). L'idea iniziale era quella di fare una semplice tap room per il birrificio lì accanto, ma la cosa alla fine ha preso una piega più articolata su impulso di Nicola Meneghin e Fabio Cargnello.Si tratta infatti di un edificio di due piani in cui è possibile degustare sia le birre che alcuni prodotti gastronomici (taglieri di salumi e formaggi, focacce e panini fatti dalla casa, tipicità locali come frico e gubana, e anche i vini dell'azienda agricola Alturis di cui il birrificio è parte); e che prevede, al pian terreno, una curiosità come "la fontana della birra" - un erogatore automatico (anche di acqua e succo di mela, come la foto testimonia) da cui è possibile servirsi h24 tramite tessera ricaricabile, eventualmente anche tramite boccale personalizzato da lavare e lasciare nella stanza d'ingresso apribile sempre con la tessera. Completano il quadro una serie di servizi per biciclette e biciclette elettriche (compreso il noleggio), dato che le valli del Natisone sono luogo di turismo su due ruote (è possibile anche utilizzare servizi igienici e docce, nonché un punto di lavaggio per cani). Insomma, potremmo definirlo l'upgrade di una tap room.Nella scelta e degustazione delle birre mi sono naturalmente fatta guidare da Mirco. Siamo partiti con la Ioi, una Golden Ale senza glutine, che Mirco mi ha spiegato voler essere quanto più vicina possibile all'idea di una birra giovane e ancora "grezza" (tanto è vero che l'idea è stata anche quella di battezzarla "cruda", non perché le altre siano viceversa pastorizzate, ma perché questa appunto vuol essere "verace"). Devo dire che in realtà, più che una Golden Ale, mi ha quasi più ricordato una Helles: l'aroma è infatti molto pulito, senza esteri, con elegante luppolatura floreale. Il corpo è estremamente scarico, pur senza risultare "vuoto" grazie alle note di crosta di pane comunque presenti, e una chiusura di un amaro leggero e poco persistente. Insomma, anche se la Helles di Gjulia è un'altra, a mia opinione può andare incontro ai gusti dello stesso pubblico (oltre che di chi ha problemi di celiachia, naturalmente).Siamo poi passati a quella che viene definita "Ambrata", invero una sui generis che, se mi avessero fatto fare una degustazione alla cieca, non avrei saputo definire. Si tratta infatti di una lager, come da tradizione tedesca, che prevede però - al di là del pils di base, fatto con l'orzo di Alturis - un mix di malti e di luppoli inglesi. Il risultato è qualcosa di appunto indefinibile, in cui la luppolatura erbacea fa da sfondo ad una rosa di sapori di cereale che va dalla crosta di pane ben cotta, al biscotto, al caramello, al pane tostato, prima di chiudere su un amaro anche qui non invasivo e poco persistente.Non mi soffermo sulla Weizen, aderente allo stile e senza particolari osservazioni da fare; e passo direttamente alla Ipa, sulla quale nutrivo qualche curiosità dato che Mirco mi aveva anticipato di non essere un patito delle luppolature strabilianti. In effetti l'aroma, pur esibendo con chiarezza profumi di macedonia di frutta tropicale (con tanto di spruzzata di lime sopra, giusto per non scordare gli agrumi), non risulta tale da stupire; sorprende piuttosto come questi aromi diventino poi sapori con decisamente maggior forza, soprattutto nella seconda parte della bevuta, in cui vanno sostanzialmente ad accompagnare la luppolatura in amaro. Un gioco interessante, per chi cerca qualcosa di diverso dalle "solite Ipa" pur volendo rimanere nei ranghi dello stile.Da ultimo il distillato, ricavato dal barley wine della casa, affinato in barrique di rovere 24 mesi: toni che ricordano decisamente il rum, e un tasso alcolico da suggerire di non indulgere troppo (40 gradi).Un grazie a Mirco e allo staff per la calorosa accoglienza, nonché a Stefan Grauvogl di Arte Bier, referente in Italia per i corsi Doemens e docente dei corsi stessi, presente quella sera.