Tra terme e Sbilf

La seconda tappa del mio giro in Carnia è stato ad Arta Terme al birrificio Dimont, attivo da poco più di un anno. Anche in questo caso, all'origine non c'è un homebrewer: sono stati infatti sette soci, tutti provenienti da altre esperienze nel settore dell'industria alimentare, che hanno dato vita ad un nuovo progetto imprenditoriale.Mi si permetta una digressione. Sarebbe ipocrita negare che, nel mondo della birra artigianale, casi simili non sono sempre visti di buon occhio: per quanto sia opinione comune che i tempi dell'abile homebrewer squattrinato che avvia un birrificio animato dal solo sacro fuoco della passione siano ormai passati (o che si tratti quantomeno di rare eccezioni), è altrettanto vero che le esperienze di imprenditori che hanno fatto un investimento in questo senso non sapendone nulla di birra non sempre si sono rivelate felici (dagli screzi con i mastri birrai, a risultati discutibili sotto il profilo qualitativo per andare incontro a gusti veri o presunti del largo pubblico o per tagliare i costi, fino ai danni d'immagine dovuti ad affermazioni che rivelavano la loro scarsa conoscenza della birra). Insomma, ovvio che se uno apre un'azienda vuole e deve fare utili, ma se questo proposito non è accompagnato da un reale interesse per il prodotto e per il contesto in cui è inserito prima o poi i nodi vengono al pettine.Se il fatto di mettersi in gioco in prima persona vale come prova del reale interesse di cui sopra, va riconosciuto che in questo caso c'è stato: quattro dei sette soci sono infatti direttamente attivi in azienda, di cui uno - proveniente sempre dal lievito, verrebbe da osservare, dato che ha lavorato a lungo in una nota azienda di prodotti da forno - che si occupa appunto di fare la birra affiancato da un consulente e da un altro socio. Anche la profonda conoscenza del settore beverage, derivante dalla precedente esperienza nel settore vinicolo di Piero Totis - che si occupa del marketing - è un altro fattore che gioca a favore di Dimont. Insomma, non siamo di fronte al caso di qualcuno che ha semplicemente messo i soldi e poi preteso un ritorno dell'investimento.La filosofia di Dimont è quella di fare birre che, pur senza rinunciare alla caratterizzazione, risultino facilmente bevibili e vadano incontro ai gusti di una larga platea. Elemento di base per il legame con il territorio è l'acqua del monte Cabia, che sgorga poco lontano; e che ha ispirato anche il nome stesso ("di mont", in friulano, significa "di montagna"). Scelta degna di nota sotto il profilo tecnico è quella di passare tutte le birre in maturatore per avere un risultato più "pulito", indipendentemente dallo stile; e di imbottigliare in isobarico.Secondo punto di legame con il territorio è quello di abbinare ad ogni birra in etichetta uno "sbilf" (alcuni esemplari nella foto accanto), i folletti bonariamente dispettosi della montagna friulana, che - secondo la leggenda - si divertono a fare scherzi agli uomini: così alla lager chiara è stato abbinato lo sbilf Gjan (quello più amichevole, secondo la storia); alla Pils lo sbilf Licj (che si diverte a scucire i vestiti); alla Weizen lo sbilf Pavar (amante della natura); alla ale ambrata lo sbilf Bagan (goloso di panna e cjarsons, tipico piatto locale); e alla ipa lo sbilf Braulin (che si diverte a fare nodi).Venendo quindi nel dettaglio alle birre, devo ammettere che mi sono trovata a definirle "ruffiane": non nel senso dispregiativo del termine, ma nel senso che - come da filosofia di cui sopra - "vogliono piacere"; e andare incontro ad una clientela più vasta possibile in virtù o della semplicità che le rende adatte a tutti, o di un elemento che stupisca (e che "non possa non piacere"). In birrificio ho assaggiato per prima la Weizen: fondamentalmente in stile, ma sobria sulle note più "spigolose" del genere (come possono essere gli aromi fruttato-speziati o l'acidulo del frumento) e più leggera di corpo rispetto alla media. Poi sono passata alla Ipa, che viceversa tende a stupire data la luppolatura resinosa ed agrumata ben evidente, sostenuta dal corpo tostato. In un secondo momento ho provato la Gjan, in ossequio al principio per cui è sulle lager chiare che "si capisce" un birrificio: aroma floreale molto discreto, quasi troppo per i miei gusti, ma coerente con il corpo snellissimo in cui in cereale scivola agevolmente e un amaro finale appena percepibile. Insomma, torniamo alla filosofia della "birra per tutti", senza fronzoli né caratterizzazioni particolari, a cui va riconosciuta la pulizia d'insieme centrale in uno stile come questo.Dimont dispone di un impianto da 12,5 hl e tre fermentatori da 30 hl. La potenzialità è di 3000 hl annui; ma per ora, ha riferito Piero Totis, il birrificio punta ad una crescita lenta e progressiva, curando da un lato la costanza nel risultato delle ricette già elaborate e dall'altro l'allargamento della distribuzione soprattutto nel canale Ho.Re.Ca. In linea con il principio della territorialità, infine, il birrificio sta anche valutando l'ipotesi di utilizzare in futuro materie prime friulane. Ma non solo: "Mi piacerebbe creare una rete qui in Carnia - ha spiegato Piero - per creare un'immagine complessiva del prodotto e del territorio in sinergia: penso a progetti come le terme della birra, o i formaggi - altro prodotto tipico - alla birra".Un grazie a tutto lo staff di Dimont per la calorosa accoglienza.

Tra terme e Sbilf

La seconda tappa del mio giro in Carnia è stato ad Arta Terme al birrificio Dimont, attivo da poco più di un anno. Anche in questo caso, all'origine non c'è un homebrewer: sono stati infatti sette soci, tutti provenienti da altre esperienze nel settore dell'industria alimentare, che hanno dato vita ad un nuovo progetto imprenditoriale.Mi si permetta una digressione. Sarebbe ipocrita negare che, nel mondo della birra artigianale, casi simili non sono sempre visti di buon occhio: per quanto sia opinione comune che i tempi dell'abile homebrewer squattrinato che avvia un birrificio animato dal solo sacro fuoco della passione siano ormai passati (o che si tratti quantomeno di rare eccezioni), è altrettanto vero che le esperienze di imprenditori che hanno fatto un investimento in questo senso non sapendone nulla di birra non sempre si sono rivelate felici (dagli screzi con i mastri birrai, a risultati discutibili sotto il profilo qualitativo per andare incontro a gusti veri o presunti del largo pubblico o per tagliare i costi, fino ai danni d'immagine dovuti ad affermazioni che rivelavano la loro scarsa conoscenza della birra). Insomma, ovvio che se uno apre un'azienda vuole e deve fare utili, ma se questo proposito non è accompagnato da un reale interesse per il prodotto e per il contesto in cui è inserito prima o poi i nodi vengono al pettine.Se il fatto di mettersi in gioco in prima persona vale come prova del reale interesse di cui sopra, va riconosciuto che in questo caso c'è stato: quattro dei sette soci sono infatti direttamente attivi in azienda, di cui uno - proveniente sempre dal lievito, verrebbe da osservare, dato che ha lavorato a lungo in una nota azienda di prodotti da forno - che si occupa appunto di fare la birra affiancato da un consulente e da un altro socio. Anche la profonda conoscenza del settore beverage, derivante dalla precedente esperienza nel settore vinicolo di Piero Totis - che si occupa del marketing - è un altro fattore che gioca a favore di Dimont. Insomma, non siamo di fronte al caso di qualcuno che ha semplicemente messo i soldi e poi preteso un ritorno dell'investimento.La filosofia di Dimont è quella di fare birre che, pur senza rinunciare alla caratterizzazione, risultino facilmente bevibili e vadano incontro ai gusti di una larga platea. Elemento di base per il legame con il territorio è l'acqua del monte Cabia, che sgorga poco lontano; e che ha ispirato anche il nome stesso ("di mont", in friulano, significa "di montagna"). Scelta degna di nota sotto il profilo tecnico è quella di passare tutte le birre in maturatore per avere un risultato più "pulito", indipendentemente dallo stile; e di imbottigliare in isobarico.Secondo punto di legame con il territorio è quello di abbinare ad ogni birra in etichetta uno "sbilf" (alcuni esemplari nella foto accanto), i folletti bonariamente dispettosi della montagna friulana, che - secondo la leggenda - si divertono a fare scherzi agli uomini: così alla lager chiara è stato abbinato lo sbilf Gjan (quello più amichevole, secondo la storia); alla Pils lo sbilf Licj (che si diverte a scucire i vestiti); alla Weizen lo sbilf Pavar (amante della natura); alla ale ambrata lo sbilf Bagan (goloso di panna e cjarsons, tipico piatto locale); e alla ipa lo sbilf Braulin (che si diverte a fare nodi).Venendo quindi nel dettaglio alle birre, devo ammettere che mi sono trovata a definirle "ruffiane": non nel senso dispregiativo del termine, ma nel senso che - come da filosofia di cui sopra - "vogliono piacere"; e andare incontro ad una clientela più vasta possibile in virtù o della semplicità che le rende adatte a tutti, o di un elemento che stupisca (e che "non possa non piacere"). In birrificio ho assaggiato per prima la Weizen: fondamentalmente in stile, ma sobria sulle note più "spigolose" del genere (come possono essere gli aromi fruttato-speziati o l'acidulo del frumento) e più leggera di corpo rispetto alla media. Poi sono passata alla Ipa, che viceversa tende a stupire data la luppolatura resinosa ed agrumata ben evidente, sostenuta dal corpo tostato. In un secondo momento ho provato la Gjan, in ossequio al principio per cui è sulle lager chiare che "si capisce" un birrificio: aroma floreale molto discreto, quasi troppo per i miei gusti, ma coerente con il corpo snellissimo in cui in cereale scivola agevolmente e un amaro finale appena percepibile. Insomma, torniamo alla filosofia della "birra per tutti", senza fronzoli né caratterizzazioni particolari, a cui va riconosciuta la pulizia d'insieme centrale in uno stile come questo.Dimont dispone di un impianto da 12,5 hl e tre fermentatori da 30 hl. La potenzialità è di 3000 hl annui; ma per ora, ha riferito Piero Totis, il birrificio punta ad una crescita lenta e progressiva, curando da un lato la costanza nel risultato delle ricette già elaborate e dall'altro l'allargamento della distribuzione soprattutto nel canale Ho.Re.Ca. In linea con il principio della territorialità, infine, il birrificio sta anche valutando l'ipotesi di utilizzare in futuro materie prime friulane. Ma non solo: "Mi piacerebbe creare una rete qui in Carnia - ha spiegato Piero - per creare un'immagine complessiva del prodotto e del territorio in sinergia: penso a progetti come le terme della birra, o i formaggi - altro prodotto tipico - alla birra".Un grazie a tutto lo staff di Dimont per la calorosa accoglienza.

La birra del calciatore

Approfittando di alcuni giorni di ferie, nonché dell'ispirazione che mi ha dato il Carnia Craft Beer Bike Tour - chi non sapesse di che cosa si tratta può leggerlo qui - un paio di settimane fa mi sono recata appunto in quel della Carnia per visitare un paio di birrifici dove, nonostante la distanza relativamente breve, non ero mai stata.La prima tappa è stata a Enemonzo al birrificio Casamatta, gestito dal giovane (poco più che trentenne, per l'esattezza) Andrea Menegon. Andrea arriva da un percorso diverso rispetto alla maggior parte degli altri birrai: aveva intrapreso infatti la carriera di calciatore professionista, e a far birra non ci pensava proprio. Almeno fino a che, complici una serie di circostanze che non sto qui a riferire, non si è trovato a rispondere di sì ad un noto brewpub di Udine che cercava manovalanza per la produzione di birra: lì, volendo usare le parole sue, "mi si è aperto un mondo", e si è "messo alla scuola" del mastro birraio. Dopo un passaggio in una grossa azienda del settore e un corso di formazione all'Istituto Cerletti di Conegliano, ha così deciso di appendere al chiodo le scarpe da calcio; e tornare a Enemonzo, suo paese d'origine, dove si era concretizzata la possibilità di utilizzare la vecchia casa di famiglia per avviare il suo birrificio. Nel 2017 è partita così la produzione su un impianto di 5hl, e il nostro ha da poco festeggiato la duecentesima cotta.Arrivando da Casamatta, la sensazione che si ha è in effetti quella di entrare in una delle tante case di montagna, con tanto di terrazzini in legno e gerani ai balconi: salvo poi trovarvi dentro una piccola tap room, la sala cotta, sei serbatoi da 5hl (ne è in arrivo uno nuovo da 20, oltre a due maturatori), e il magazzino in un vicino stavolo. Insomma, fa atmosfera, non c'è che dire.Sono quattro le ricette fisse e quattro le stagionali (ispirate ai prodotti che il territorio offre nel corso dell'anno), tutte in ossequio al principio di Andrea secondo cui "la birra per me è semplicità" - pur senza rinunciare ad un tocco di personalizzazione, mi permetto di aggiungere. La prima che ho assaggiato è stata la Slip, Pils ceca la cui ricetta è dono del mastro birraio che l'ha formato (non a caso noto proprio per le birre di ispirazione ceca): e in effetti fa onore alla definizione, con la classica fragranza piena di pane appena sfornato in bocca, e l'eleganza della luppolatura con Saaz, Perle e Premiant; risultando al contempo meno "grezza" di certe Pils ceche (anche i classici dimetilsolfuro e diacetile, citati in pressoché tutti i manuali come difetti viceversa accettabili in quantità contenute nelle birre ceche, qui sono sostanzialmente non percepibili).Siamo poi passati alla Siesta, la stagionale estiva (come il nome stesso lascia supporre), aromatizzata con 800g a cotta di fiori di camomilla e una melassa di fiori di tarassaco (fiore che cresce in maggio-giugno da queste parti). Devo ammettere che l'aroma mi ha fatto inizialmente temere una tisana, dato che la camomilla (per la quale personalmente non stravedo) è parecchio evidente; in bocca però si conferma essere una birra e mantiene un buon equilibrio tra la componente snella di cereale e quella erbacea, per chiudere sulla dolcezza del tarassaco - che però lungi dall'essere zuccherinamente stucchevole, rimane fresca.Quindi la Florian, una sorta di "sui generis" di cui Andrea dice che "o la si ama o la si odia", ossia un'ambrata di ispirazione ceca a cui vengono aggiunti a fine bollitura bucce d'arancia e semi di cardamomo. Anche se sulla carta farebbe presupporre un risultato estremamente "vivace", in realtà l'aroma, pur ben evidente, risulta di una speziatura elegante, con le due componenti ben armonizzate; in bocca rimane scorrevole nonostante i toni di caramello, per chiudere di nuovo sullo speziato, lasciando il luppolo - Saphir in questo caso - in secondo piano.Cambiando del tutto genere, ho provato la ipa Tipa: il dryhopping con Chinook, pur ben percepibile, rimane nei ranghi della moderazione, mentre il corpo tostato, ma comunque snello, lascia poi il posto ad un taglio amaro e secco che si evidenzia ancor più nella discreta persistenza.A casa ho poi degustato l'ultima fissa è la Double Fradi - una Belgian Ale ambrata che, pur rimanendo nei ranghi dello stile, presenta in modo meno evidente dello standard i tipici aromi spezzati e fruttati del lievito, in favore piuttosto di un tocco di luppolo che risalta più in amaro, conferendo una secchezza relativamente elevata per il genere - e la stagionale primaverile, la Regalia. Interessate quest'ultima per l'utilizzo della salvia sclarea (un fiore di montagna) essiccata che, se all'aroma può far pensare semplicemente all'ennesima trovata in quanto a nuovi luppoli, risalta in tutta la sua forza erbacea e balsamica sul finale, a mo' di gruit, lasciando anche una notevole persistenza amara. Per quanto anche questa possa ricadere nella categoria "o la ami o la odi", l'aromatizzazione rimane comunque nei limiti di un equilibrio complessivo, e risulta quindi accessibile anche a chi non dovesse essere proprio un patito dell'amaro. Per la cronaca, le altre stagionali sono l'autunnale San Bortul, un'affumicata con carrube, e l'invernale Ciaspola, con fichi e fave di cacao.Nel complesso, tutte birre tecnicamente ben fatte che, pur dando l'idea di una semplicità complessiva e mantenendo l'equilibrio d'insieme, non rinunciano ad un pizzico di originalità.Rimanete sintonizzati per la prossima tappa...

La birra del calciatore

Approfittando di alcuni giorni di ferie, nonché dell'ispirazione che mi ha dato il Carnia Craft Beer Bike Tour - chi non sapesse di che cosa si tratta può leggerlo qui - un paio di settimane fa mi sono recata appunto in quel della Carnia per visitare un paio di birrifici dove, nonostante la distanza relativamente breve, non ero mai stata.La prima tappa è stata a Enemonzo al birrificio Casamatta, gestito dal giovane (poco più che trentenne, per l'esattezza) Andrea Menegon. Andrea arriva da un percorso diverso rispetto alla maggior parte degli altri birrai: aveva intrapreso infatti la carriera di calciatore professionista, e a far birra non ci pensava proprio. Almeno fino a che, complici una serie di circostanze che non sto qui a riferire, non si è trovato a rispondere di sì ad un noto brewpub di Udine che cercava manovalanza per la produzione di birra: lì, volendo usare le parole sue, "mi si è aperto un mondo", e si è "messo alla scuola" del mastro birraio. Dopo un passaggio in una grossa azienda del settore e un corso di formazione all'Istituto Cerletti di Conegliano, ha così deciso di appendere al chiodo le scarpe da calcio; e tornare a Enemonzo, suo paese d'origine, dove si era concretizzata la possibilità di utilizzare la vecchia casa di famiglia per avviare il suo birrificio. Nel 2017 è partita così la produzione su un impianto di 5hl, e il nostro ha da poco festeggiato la duecentesima cotta.Arrivando da Casamatta, la sensazione che si ha è in effetti quella di entrare in una delle tante case di montagna, con tanto di terrazzini in legno e gerani ai balconi: salvo poi trovarvi dentro una piccola tap room, la sala cotta, sei serbatoi da 5hl (ne è in arrivo uno nuovo da 20, oltre a due maturatori), e il magazzino in un vicino stavolo. Insomma, fa atmosfera, non c'è che dire.Sono quattro le ricette fisse e quattro le stagionali (ispirate ai prodotti che il territorio offre nel corso dell'anno), tutte in ossequio al principio di Andrea secondo cui "la birra per me è semplicità" - pur senza rinunciare ad un tocco di personalizzazione, mi permetto di aggiungere. La prima che ho assaggiato è stata la Slip, Pils ceca la cui ricetta è dono del mastro birraio che l'ha formato (non a caso noto proprio per le birre di ispirazione ceca): e in effetti fa onore alla definizione, con la classica fragranza piena di pane appena sfornato in bocca, e l'eleganza della luppolatura con Saaz, Perle e Premiant; risultando al contempo meno "grezza" di certe Pils ceche (anche i classici dimetilsolfuro e diacetile, citati in pressoché tutti i manuali come difetti viceversa accettabili in quantità contenute nelle birre ceche, qui sono sostanzialmente non percepibili).Siamo poi passati alla Siesta, la stagionale estiva (come il nome stesso lascia supporre), aromatizzata con 800g a cotta di fiori di camomilla e una melassa di fiori di tarassaco (fiore che cresce in maggio-giugno da queste parti). Devo ammettere che l'aroma mi ha fatto inizialmente temere una tisana, dato che la camomilla (per la quale personalmente non stravedo) è parecchio evidente; in bocca però si conferma essere una birra e mantiene un buon equilibrio tra la componente snella di cereale e quella erbacea, per chiudere sulla dolcezza del tarassaco - che però lungi dall'essere zuccherinamente stucchevole, rimane fresca.Quindi la Florian, una sorta di "sui generis" di cui Andrea dice che "o la si ama o la si odia", ossia un'ambrata di ispirazione ceca a cui vengono aggiunti a fine bollitura bucce d'arancia e semi di cardamomo. Anche se sulla carta farebbe presupporre un risultato estremamente "vivace", in realtà l'aroma, pur ben evidente, risulta di una speziatura elegante, con le due componenti ben armonizzate; in bocca rimane scorrevole nonostante i toni di caramello, per chiudere di nuovo sullo speziato, lasciando il luppolo - Saphir in questo caso - in secondo piano.Cambiando del tutto genere, ho provato la ipa Tipa: il dryhopping con Chinook, pur ben percepibile, rimane nei ranghi della moderazione, mentre il corpo tostato, ma comunque snello, lascia poi il posto ad un taglio amaro e secco che si evidenzia ancor più nella discreta persistenza.A casa ho poi degustato l'ultima fissa è la Double Fradi - una Belgian Ale ambrata che, pur rimanendo nei ranghi dello stile, presenta in modo meno evidente dello standard i tipici aromi spezzati e fruttati del lievito, in favore piuttosto di un tocco di luppolo che risalta più in amaro, conferendo una secchezza relativamente elevata per il genere - e la stagionale primaverile, la Regalia. Interessate quest'ultima per l'utilizzo della salvia sclarea (un fiore di montagna) essiccata che, se all'aroma può far pensare semplicemente all'ennesima trovata in quanto a nuovi luppoli, risalta in tutta la sua forza erbacea e balsamica sul finale, a mo' di gruit, lasciando anche una notevole persistenza amara. Per quanto anche questa possa ricadere nella categoria "o la ami o la odi", l'aromatizzazione rimane comunque nei limiti di un equilibrio complessivo, e risulta quindi accessibile anche a chi non dovesse essere proprio un patito dell'amaro. Per la cronaca, le altre stagionali sono l'autunnale San Bortul, un'affumicata con carrube, e l'invernale Ciaspola, con fichi e fave di cacao.Nel complesso, tutte birre tecnicamente ben fatte che, pur dando l'idea di una semplicità complessiva e mantenendo l'equilibrio d'insieme, non rinunciano ad un pizzico di originalità.Rimanete sintonizzati per la prossima tappa...

Pizza e birra post lockdown

La prima cena degustazione a cui ho avuto il piacere di partecipare - in rappresentanza de Le Donne della Birra con Federica Felice - dopo la fine del lockdown è stata quella guidata dal birraio artigiano e biersommelier Vincenzo Dal Pont con le birre di Cittavecchia, al ristorante pizzeria Serenella di Grado: cinque pizze su quattro diversi impasti, abbinate ad altrettante birre.Chi mi segue sa che, per quanto mi sia capitato più volte di tenere delle degustazioni su abbinamenti pizza e birra, non sono una particolare appassionata di questo accostamento: trovo che l'effetto "cereale su cereale" che si crea, infatti, non sia particolarmente gradevole - a meno, naturalmente, di non avere estrema cura nel lavorare sul connubio tra birra e farcitura. In questo caso tuttavia, trattandosi di pizze che non solo presentano differenza negli impasti, ma anche notevole originalità nelle farciture (mirate alla valorizzazione di prodotti locali, sia dell'Adriatico che dell'entroterra) le premesse per creare qualcosa di interessante c'erano tutte.La serata si è aperta con un aperitivo con assaggi di pizza Regina (bufala e basilico) in quattro diversi impasti, accostata alla Àila - la Golden Ale di Cittavecchia dedicata alla città di Trieste: interessante in questo caso soprattutto la chiusura agrumata, data dal tocco di scorza d'arancia, che va a "pulire" la bufala lasciando la bocca fresca.A seguire la Mare d'orato (pizza con zafferano, canestrelli e cozze su purea di zucchine) su impasto di farina 00 accostata alla Weizen White Shark: qui ho trovato indovinato il gioco tra la tipica acidità della Weizen e non solo i frutti di mare, ma anche lo zafferano stesso, andando a contrastarne la pastosità e dandovi un tocco leggermente speziato.Terzo abbinamento quello tra la Marinara Mix (base Marinata con pomodorini grigliati, pomodorini caramellati, pomodorini olio aglio e basilico) su impasto "Serenella" abbinata alla Helles Giant Cave: un accostamento a cui sulla carta non avrei dato un centesimo, ma che si è rivelato invece riuscitissimo in virtù del particolare taglio amaro erbaceo finale - non invasivo ma particolarmente netto, che esibiva una complementarietà perfetta al dolce del pomodoro e nel contempo puliva senza sconti l'aglio.Siamo poi passati alla pizza Rosé (bianca con polvere di barbabietola) su impasto di grani antichi abbinata alla Vienna Lucky Shoes. Buona la scelta della Vienna, che dopo aver accompagnato sia il formaggio che la barbabietola con il caramellato del malto li "taglia" con l'amaro deciso; forse però la "pecca" in questo caso - se tale si può definire - è di aver scelto una Vienna volutamente delicata, qual è quella di Cittavecchia, mentre un po' più sia di corpo che di amaricatura non avrebbero guastato.Ultima, una pizza bianca alle verdura grigliate su impasto nucleo pizza rustica, abbinata alla English Ipa Andre: interessante il modo in cui il corpo tostato sorregge la complessità della pizza, forse un po' eccessivo l'amaro acre finale tipico dello stile, che arriva a sovrastare l'insieme - per quanto nel complesso la cosa non risultasse sgradevole.Nell'insieme, una degustazione interessanbte e riuscita, che mi ha fatto scoprire sapori e accostamenti nuovi. Un ringraziamento a Vincenzo, al Serenella nella persona di Antonella Muto, e a Federica Felice con tutto Cittavecchia.

Pizza e birra post lockdown

La prima cena degustazione a cui ho avuto il piacere di partecipare - in rappresentanza de Le Donne della Birra con Federica Felice - dopo la fine del lockdown è stata quella guidata dal birraio artigiano e biersommelier Vincenzo Dal Pont con le birre di Cittavecchia, al ristorante pizzeria Serenella di Grado: cinque pizze su quattro diversi impasti, abbinate ad altrettante birre.Chi mi segue sa che, per quanto mi sia capitato più volte di tenere delle degustazioni su abbinamenti pizza e birra, non sono una particolare appassionata di questo accostamento: trovo che l'effetto "cereale su cereale" che si crea, infatti, non sia particolarmente gradevole - a meno, naturalmente, di non avere estrema cura nel lavorare sul connubio tra birra e farcitura. In questo caso tuttavia, trattandosi di pizze che non solo presentano differenza negli impasti, ma anche notevole originalità nelle farciture (mirate alla valorizzazione di prodotti locali, sia dell'Adriatico che dell'entroterra) le premesse per creare qualcosa di interessante c'erano tutte.La serata si è aperta con un aperitivo con assaggi di pizza Regina (bufala e basilico) in quattro diversi impasti, accostata alla Àila - la Golden Ale di Cittavecchia dedicata alla città di Trieste: interessante in questo caso soprattutto la chiusura agrumata, data dal tocco di scorza d'arancia, che va a "pulire" la bufala lasciando la bocca fresca.A seguire la Mare d'orato (pizza con zafferano, canestrelli e cozze su purea di zucchine) su impasto di farina 00 accostata alla Weizen White Shark: qui ho trovato indovinato il gioco tra la tipica acidità della Weizen e non solo i frutti di mare, ma anche lo zafferano stesso, andando a contrastarne la pastosità e dandovi un tocco leggermente speziato.Terzo abbinamento quello tra la Marinara Mix (base Marinata con pomodorini grigliati, pomodorini caramellati, pomodorini olio aglio e basilico) su impasto "Serenella" abbinata alla Helles Giant Cave: un accostamento a cui sulla carta non avrei dato un centesimo, ma che si è rivelato invece riuscitissimo in virtù del particolare taglio amaro erbaceo finale - non invasivo ma particolarmente netto, che esibiva una complementarietà perfetta al dolce del pomodoro e nel contempo puliva senza sconti l'aglio.Siamo poi passati alla pizza Rosé (bianca con polvere di barbabietola) su impasto di grani antichi abbinata alla Vienna Lucky Shoes. Buona la scelta della Vienna, che dopo aver accompagnato sia il formaggio che la barbabietola con il caramellato del malto li "taglia" con l'amaro deciso; forse però la "pecca" in questo caso - se tale si può definire - è di aver scelto una Vienna volutamente delicata, qual è quella di Cittavecchia, mentre un po' più sia di corpo che di amaricatura non avrebbero guastato.Ultima, una pizza bianca alle verdura grigliate su impasto nucleo pizza rustica, abbinata alla English Ipa Andre: interessante il modo in cui il corpo tostato sorregge la complessità della pizza, forse un po' eccessivo l'amaro acre finale tipico dello stile, che arriva a sovrastare l'insieme - per quanto nel complesso la cosa non risultasse sgradevole.Nell'insieme, una degustazione interessanbte e riuscita, che mi ha fatto scoprire sapori e accostamenti nuovi. Un ringraziamento a Vincenzo, al Serenella nella persona di Antonella Muto, e a Federica Felice con tutto Cittavecchia.

Cinque (anzi sei) birrifici per cinque birre

La sera del 18 giugno, con l'occasione dell'apertura del giardino estivo (purtroppo rovinata dal maltempo) la birreria Brasserie di Tricesimo ha messo alla spina cinque nuove birre di altrettanti birrifici artigianali della regione (più uno in realtà, come vedremo poi) - alcune in realtà già presentate nei giorni precedenti, altre delle anteprime propriamente dette.La prima che ho degustato è la Let's kill the noia, una American Lager di Garlatti Costa. Una birra che rispetta pienamente ciò che risulta essere sulla carta: colore dorato e leggermente velata, schiuma candida e a grana sottile, aromi tra l'agrumato e il floreale molto delicati, corpo fresco e snello senza particolari persistenze di cereale, finale con un taglio amaro secco ma misurato e non persistente. Semplice e estiva, la classica birra da bere a litri che, pur senza cadere nella banalità, può andare incontro ai gusti di tutti. In seconda battuta la So good was singing a beer, la nuova saison al basilico del birrificio Campestre (che sa anche sempre sorprendere con i nomi, devo dire....). Ammetto che ero scettica, perché altre birre al basilico assaggiate in passato non mi avevano convinta: nella maggioranza dei (pochi) casi avevo trovato l'aromatizzazione troppo spinta e slegata dal resto. In questo caso invece non solo il birraio ha optato per la sobrietà, ma ha trovato il modo di legare bene l'erbaceo balsamico e amarognolo del basilico con l'amaro del luppolo in chiusura, che diventano un tutt'uno. Interessante anche la scelta dello stile saison che, per quanto la tipica speziatura rimanga nelle retrovie a favor di basilico, fa comunque da cornice all'aromatizzazione creando una serie di rimandi olfattivi e gustativi.Terza la Tuff Gong, collaborazione tra Foglie d'Erba e Birra Perugia, definita come “Resistance Rye India Pale Beer” - una sui generis insomma, trattandosi di una lager alla segale con luppolatura americana. Al naso si fa subito sentire quello che i birrai stessi definiscono "massiccio dry hopping di mosaic" - e a onor del vero, ancora prima di sentire questa dichiarazione, avevo sentito in questa girandola tropicale la mano di Luana Meola: un suo marchio di fabbrica rispetto a Gino Perissutti, più incline agli aromi resinosi e citrici -, corpo biscottato ma scorrevole in cui si colgono le note peculiari della segale locale, e finbale persistente di un amaro citrico-resinoso. Pulita e fresca, molto caratterizzata.In anteprima assoluta debuttava poi la double Ipa Magic Bus, l'ultima nata del birrificio Bondai - che come sempre lega i nomi delle sue birre alla citazione di un film, in questo caso Into the wild. Luppolatura tutto sommato sobria per il genere - non nel senso che non sia intensa, ma nel senso che non cerca fuochi d'artificio: un resinoso netto e deciso, senza fronzoli - a fare il paio con un corpo dal tostato robusto con qualche calda nota caramellata al salire dellla temperatura, e un amaro finale notevole e persistente, sempre su toni tra il resinoso e l'agrumato. Equilibrata e semplice pur nei toni decisi, per gli amanti delle Ipa vecchio stile.Da ultima la Tripel Barrel, una "chicca" nella misura in cui si tratta di una produzione limitata di Antica Contea - la loro Triple Threat di cui avevo già parlato in questo post, passata dodici giorni in barrique di Bordeaux. Un vero tripudio di aromi e sapori, che varia al variare della temperatura - mi sono annotata nell'ordine petali di rosa, uvetta, frutta sotto spirito, ibisco, tè nero, miele di cstagno e dattero, ma credo che ciascuno potrebbe sentirci cose diverse -; con sullo sfondo una birra dalla spiccata dolcezza, mitigata da un'acidità appena percettibile e dai toni di legno (senza astringenza, o almeno io non l'ho colta). Finale lungo e dolce, ma senza persistenze alcoliche pastose. Curioso come bastgi una barricatura così breve per ottenere effetti tanto intensi.Concludo con una nota di merito che ritengo la Brasserie si sia guadagnata, organizzando una serata di significativo spessore - erano presenti anche i birrai - nonostante il momento difficile, le pur necessarie norme di sicurezza, e il nubifragio della serata (che non ha comunque scoraggiato gli avventori, a conferma che l'interesse c'era); e con un grazie a Matilde e al suo staff, nonché ai birrai.

Cinque (anzi sei) birrifici per cinque birre

La sera del 18 giugno, con l'occasione dell'apertura del giardino estivo (purtroppo rovinata dal maltempo) la birreria Brasserie di Tricesimo ha messo alla spina cinque nuove birre di altrettanti birrifici artigianali della regione (più uno in realtà, come vedremo poi) - alcune in realtà già presentate nei giorni precedenti, altre delle anteprime propriamente dette.La prima che ho degustato è la Let's kill the noia, una American Lager di Garlatti Costa. Una birra che rispetta pienamente ciò che risulta essere sulla carta: colore dorato e leggermente velata, schiuma candida e a grana sottile, aromi tra l'agrumato e il floreale molto delicati, corpo fresco e snello senza particolari persistenze di cereale, finale con un taglio amaro secco ma misurato e non persistente. Semplice e estiva, la classica birra da bere a litri che, pur senza cadere nella banalità, può andare incontro ai gusti di tutti. In seconda battuta la So good was singing a beer, la nuova saison al basilico del birrificio Campestre (che sa anche sempre sorprendere con i nomi, devo dire....). Ammetto che ero scettica, perché altre birre al basilico assaggiate in passato non mi avevano convinta: nella maggioranza dei (pochi) casi avevo trovato l'aromatizzazione troppo spinta e slegata dal resto. In questo caso invece non solo il birraio ha optato per la sobrietà, ma ha trovato il modo di legare bene l'erbaceo balsamico e amarognolo del basilico con l'amaro del luppolo in chiusura, che diventano un tutt'uno. Interessante anche la scelta dello stile saison che, per quanto la tipica speziatura rimanga nelle retrovie a favor di basilico, fa comunque da cornice all'aromatizzazione creando una serie di rimandi olfattivi e gustativi.Terza la Tuff Gong, collaborazione tra Foglie d'Erba e Birra Perugia, definita come “Resistance Rye India Pale Beer” - una sui generis insomma, trattandosi di una lager alla segale con luppolatura americana. Al naso si fa subito sentire quello che i birrai stessi definiscono "massiccio dry hopping di mosaic" - e a onor del vero, ancora prima di sentire questa dichiarazione, avevo sentito in questa girandola tropicale la mano di Luana Meola: un suo marchio di fabbrica rispetto a Gino Perissutti, più incline agli aromi resinosi e citrici -, corpo biscottato ma scorrevole in cui si colgono le note peculiari della segale locale, e finale persistente di un amaro citrico-resinoso. Pulita e fresca, molto caratterizzata.In anteprima assoluta debuttava poi la double Ipa Magic Bus, l'ultima nata del birrificio Bondai - che come sempre lega i nomi delle sue birre alla citazione di un film, in questo caso Into the wild. Luppolatura tutto sommato sobria per il genere - non nel senso che non sia intensa, ma nel senso che non cerca fuochi d'artificio: un resinoso netto e deciso, senza fronzoli - a fare il paio con un corpo dal tostato robusto con qualche calda nota caramellata al salire dellla temperatura, e un amaro finale notevole e persistente, sempre su toni tra il resinoso e l'agrumato. Equilibrata e semplice pur nei toni decisi, per gli amanti delle Ipa vecchio stile.Da ultima la Tripel Barrel, una "chicca" nella misura in cui si tratta di una produzione limitata di Antica Contea - la loro Triple Threat di cui avevo già parlato in questo post, passata dodici giorni in barrique di Bordeaux. Un vero tripudio di aromi e sapori, che varia al variare della temperatura - mi sono annotata nell'ordine petali di rosa, uvetta, frutta sotto spirito, ibisco, tè nero, miele di castagno e dattero, ma credo che ciascuno potrebbe sentirci cose diverse -; con sullo sfondo una birra dalla spiccata dolcezza, mitigata da un'acidità appena percettibile e dai toni di legno (senza astringenza, o almeno io non l'ho colta). Finale lungo e dolce, ma senza persistenze alcoliche pastose. Curioso come basti una barricatura così breve per ottenere effetti tanto intensi.Concludo con una nota di merito che ritengo la Brasserie si sia guadagnata, organizzando una serata di significativo spessore - erano presenti anche i birrai - nonostante il momento difficile, le pur necessarie norme di sicurezza, e il nubifragio della serata (che non ha comunque scoraggiato gli avventori, a conferma che l'interesse c'era); e con un grazie a Matilde e al suo staff, nonché ai birrai.

Triveneto, birra artigianale e Despar

Già si è parlato in questi giorni dell'accordo stretto tra Aspiag Service - concessionaria del marchio Despar per Triveneto ed Emilia Romagna - per aprire ai birrifici artigianali locali gli scaffali dei loro punti vendita. Inizialmente era uscito un comunicato di Aspiag; ora è stato diramato anche quello di Unionbirrai, che riposto qui sotto (tanto più che ha il pregio di essere più breve):Grazie alla collaborazione tra Unionbirrai e Despar, le birre di 12 realtà brassicole artigianali di Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Trentino Alto Adige sono già disponibili sugli scaffali di 39 punti vendita del territorio di appartenenza del birrificio. La cooperazione tra Unionbirrai e Aspiag Service, concessionaria del marchio Despar per Triveneto ed Emilia Romagna, nasce per dare la possibilità ai microbirrifici artigianali di raggiungere più facilmente gli appassionati ed entrare in contatto con un maggior numero di clienti, anche alla luce del calo di consumi da parte del settore Horeca. “Questa collaborazione è una grande opportunità di visibilità per tutti i piccoli artigiani della birra – spiega Simone Monetti, Segretario Nazionale di Unionbirrai – che potranno far conoscere e apprezzare le proprie birre e le loro peculiarità a un pubblico sempre più vasto. Assieme a Despar abbiamo scelto di attuare una cooperazione a livello territoriale, in modo da rendere più agile il rapporto tra la clientela e il birrificio: dopo aver acquistato la birra speriamo che i consumatori siano incuriositi a tal punto da visitarlo di persona per assaggiare anche le altre birre non inserite nella selezione per la GDO”.Al netto del fatto che, come di consueto, c'è stata una certa polarizzazione tra favorevoli e contrari al "matrimonio" tra birra artigianale e gdo, c'è evidentemente una certa dose di pragmatismo che in questa fase si impone. Se tutte le statistiche sono concordi nel rilevare un aumento delle vendite di birra (anche artigianale, almeno quella che già c'era) nella GDO in fase di lockdown, c'è da considerare che nello stesso periodo abbiamo assistito ad un fioccare di bottiglie vendute a prezzi più che promozionali (con tanto di consegna gratuita a domicilio) da parte dei birrifici: che sia una concorrenza "a ribasso" proprio nei confronti della GDO, che sia semplicemente perché vendere a margine zero è pur sempre meglio che avere la birra ferma in magazzino, in entrambi i casi si tratta di un cortocircuito non sostenibile sul lungo termine. Cercare quindi una visibilità e condizioni adeguate - e sottolineo adeguate, in termini di posizionamento e di prezzo - per la birra artigianale nella GDO, che peraltro sempre più spesso riserva spazio a prodotti locali e di gamma più alta, è quindi comprensibilmente una delle strade che si possono percorrere, cercando di superare un annoso dissidio; tanto più se un'associazione di categoria, qual è Unionbirrai, si pone da garante, mitigando la sproporzione nella forza contrattuale tra il singolo birrificio e la GDO.Non può però non saltare all'occhio il fatto che abbiano aderito solo in 12: per quanto nelle fasi iniziali di qualsiasi progetto i numeri non possano assolutamente considerarsi indicativi della bontà del progetto stesso, possono però rivelare le perplessità presenti. In questo senso ho raccolto i punti di vista di due birrai (che mi hanno chiesto di restare anonimi), che a mio avviso ben riassumono i termini della questione."Credo che questo sia un chiaro segnale di quanti di noi per svariati motivi non vogliano aderire - ha affermato il primo -. Per quanto mi riguarda credo rovinerebbe “i rapporti” con i clienti come pub e ristoranti, che hanno creduto in noi negli anni. Difficilmente un locale che vede il tuo prodotto nella GDO lo vuole proporre ai sui clienti, anche se con etichette diverse; per non parlare poi delle problematiche di prezzo, di confronto del prezzo fra GDO e HORECA, dell’attenzione al prodotto come la catena del freddo"."Secondo me avere la birra in GDO di un certo livello, e sottolineo di un certo livello - ha invece ribattuto un altro -, è qualcosa di cui andare fieri. I prodotti offerti sono tutti controllati e, come si sa, hanno un’ampia gamma di prezzi per tutte le tasche ed anche un buon assortimento degli stessi. Nel caso delle birre, avere una vasta gamma tra le quali poter scegliere in un posto dove si fa la spesa ogni giorno, è una opportunità sia per il cliente sia per il marchio.Il problema prezzi delle birre artigianali forse è quello più sentito da parte dei pub e dei negozi specializzati, ma tutti sanno che questi negozi non hanno il giro di affari dei GDO e di conseguenza sono costretti a fare un ricarico maggiore ai prodotti. Se parliamo dei pub, dobbiamo mettere in conto anche l’obbligo agli studi di settore, al costo della SIAE per la musica ecc. Nessuno si sogna di protestare se in un bar ti fanno pagare una bibita 3 euro, mentre la stessa la paghi 50 centesimi al supermercato. In sintesi, avere la birra in GDO è come averla in un qualsiasi negozio dove passa tanta gente. Se la birra viene reclamizzata molto ed è anche buona, viene venduta bene, altrimenti rimane lì".Naturalmente, è del tutto prematuro trarre conclusioni: per quanto ne sappiamo la cosa potrebbe essere un successone - cosa che non ci si può che augurare per il bene del settore - e stimolare molti altri birrifici ad aderire, così come entrare nel triste novero delle iniziative con buonissime intenzioni e scarsissimi risultati. Al di là di questo, ritengo significativo il fatto che i termini della questione continuino sostanzialmente a non smuoversi: che sia un bene o un male è questione di opinione, ma in ogni caso impone una riflessione sulla staticità, sia sotto il profilo economico che culturale, del rapporto tra birra artigianale e gdo.

Triveneto, birra artigianale e Despar

Già si è parlato in questi giorni dell'accordo stretto tra Aspiag Service - concessionaria del marchio Despar per Triveneto ed Emilia Romagna - per aprire ai birrifici artigianali locali gli scaffali dei loro punti vendita. Inizialmente era uscito un comunicato di Aspiag; ora è stato diramato anche quello di Unionbirrai, che riposto qui sotto (tanto più che ha il pregio di essere più breve):Grazie alla collaborazione tra Unionbirrai e Despar, le birre di 12 realtà brassicole artigianali di Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Trentino Alto Adige sono già disponibili sugli scaffali di 39 punti vendita del territorio di appartenenza del birrificio. La cooperazione tra Unionbirrai e Aspiag Service, concessionaria del marchio Despar per Triveneto ed Emilia Romagna, nasce per dare la possibilità ai microbirrifici artigianali di raggiungere più facilmente gli appassionati ed entrare in contatto con un maggior numero di clienti, anche alla luce del calo di consumi da parte del settore Horeca. “Questa collaborazione è una grande opportunità di visibilità per tutti i piccoli artigiani della birra – spiega Simone Monetti, Segretario Nazionale di Unionbirrai – che potranno far conoscere e apprezzare le proprie birre e le loro peculiarità a un pubblico sempre più vasto. Assieme a Despar abbiamo scelto di attuare una cooperazione a livello territoriale, in modo da rendere più agile il rapporto tra la clientela e il birrificio: dopo aver acquistato la birra speriamo che i consumatori siano incuriositi a tal punto da visitarlo di persona per assaggiare anche le altre birre non inserite nella selezione per la GDO”.Al netto del fatto che, come di consueto, c'è stata una certa polarizzazione tra favorevoli e contrari al "matrimonio" tra birra artigianale e gdo, c'è evidentemente una certa dose di pragmatismo che in questa fase si impone. Se tutte le statistiche sono concordi nel rilevare un aumento delle vendite di birra (anche artigianale, almeno quella che già c'era) nella GDO in fase di lockdown, c'è da considerare che nello stesso periodo abbiamo assistito ad un fioccare di bottiglie vendute a prezzi più che promozionali (con tanto di consegna gratuita a domicilio) da parte dei birrifici: che sia una concorrenza "a ribasso" proprio nei confronti della GDO, che sia semplicemente perché vendere a margine zero è pur sempre meglio che avere la birra ferma in magazzino, in entrambi i casi si tratta di un cortocircuito non sostenibile sul lungo termine. Cercare quindi una visibilità e condizioni adeguate - e sottolineo adeguate, in termini di posizionamento e di prezzo - per la birra artigianale nella GDO, che peraltro sempre più spesso riserva spazio a prodotti locali e di gamma più alta, è quindi comprensibilmente una delle strade che si possono percorrere, cercando di superare un annoso dissidio; tanto più se un'associazione di categoria, qual è Unionbirrai, si pone da garante, mitigando la sproporzione nella forza contrattuale tra il singolo birrificio e la GDO.Non può però non saltare all'occhio il fatto che abbiano aderito solo in 12: per quanto nelle fasi iniziali di qualsiasi progetto i numeri non possano assolutamente considerarsi indicativi della bontà del progetto stesso, possono però rivelare le perplessità presenti. In questo senso ho raccolto i punti di vista di due birrai (che mi hanno chiesto di restare anonimi), che a mio avviso ben riassumono i termini della questione."Credo che questo sia un chiaro segnale di quanti di noi per svariati motivi non vogliano aderire - ha affermato il primo -. Per quanto mi riguarda credo rovinerebbe “i rapporti” con i clienti come pub e ristoranti, che hanno creduto in noi negli anni. Difficilmente un locale che vede il tuo prodotto nella GDO lo vuole proporre ai sui clienti, anche se con etichette diverse; per non parlare poi delle problematiche di prezzo, di confronto del prezzo fra GDO e HORECA, dell’attenzione al prodotto come la catena del freddo"."Secondo me avere la birra in GDO di un certo livello, e sottolineo di un certo livello - ha invece ribattuto un altro -, è qualcosa di cui andare fieri. I prodotti offerti sono tutti controllati e, come si sa, hanno un’ampia gamma di prezzi per tutte le tasche ed anche un buon assortimento degli stessi. Nel caso delle birre, avere una vasta gamma tra le quali poter scegliere in un posto dove si fa la spesa ogni giorno, è una opportunità sia per il cliente sia per il marchio.Il problema prezzi delle birre artigianali forse è quello più sentito da parte dei pub e dei negozi specializzati, ma tutti sanno che questi negozi non hanno il giro di affari dei GDO e di conseguenza sono costretti a fare un ricarico maggiore ai prodotti. Se parliamo dei pub, dobbiamo mettere in conto anche l’obbligo agli studi di settore, al costo della SIAE per la musica ecc. Nessuno si sogna di protestare se in un bar ti fanno pagare una bibita 3 euro, mentre la stessa la paghi 50 centesimi al supermercato. In sintesi, avere la birra in GDO è come averla in un qualsiasi negozio dove passa tanta gente. Se la birra viene reclamizzata molto ed è anche buona, viene venduta bene, altrimenti rimane lì".Naturalmente, è del tutto prematuro trarre conclusioni: per quanto ne sappiamo la cosa potrebbe essere un successone - cosa che non ci si può che augurare per il bene del settore - e stimolare molti altri birrifici ad aderire, così come entrare nel triste novero delle iniziative con buonissime intenzioni e scarsissimi risultati. Al di là di questo, ritengo significativo il fatto che i termini della questione continuino sostanzialmente a non smuoversi: che sia un bene o un male è questione di opinione, ma in ogni caso impone una riflessione sulla staticità, sia sotto il profilo economico che culturale, del rapporto tra birra artigianale e gdo.