Report 2021 di Assobirra: qualche riflessione

È stato presentato oggi, 7 luglio, il report 2021 di Assobirra; che, per quanto redatto dal punto di osservazione degli industriali del settore, offre alcuni spunti utili anche per l'artigianato nella misura in cui getta uno sguardo sull'intero comparto.Tra i tanti numeri presentati, uno di quelli che balzano all'occhio è il consumo pro capite di birra: 35,2 litri annui a testa nel 2021, cresciuti dai 34,9 del 2019 pre pandemico. E fin qui bene, si dirà; se non fosse che - ha fatto notare il presidente di Assobirra, Alfredo Pratolongo - i consumi totali sono in realtà leggermente calati, da 21,2 a 20,8 milioni di ettolitri, perché il pubblico è diminuito. Ebbene sì, una popolazione in calo - come è il caso dell'Italia - significa anche meno consumi di birra. E quindi o si esporta - e in effetti è aumentato l'export, a sostenere una produzione che è leggermente cresciuta rispetto al 2019 - o bisogna che il consumo pro capite aumenti di più, se non ci si vuole ritrovare a dividersi una torta sempre più piccola in una guerra tra poveri persa in partenza. Una considerazione con cui si devono confrontare, seppure in maniera diversa dall'industria, anche gli artigiani - che tendenzialmente possono contare su uno zoccolo duro di appassionati, ma che non possono limitarsi a quello.Secondo punto, sempre in merito ai consumi, è il fatto che l'aumento degli acquisti di birra nella Gdo - avvenuta giocoforza con il lockdown - si è mantenuto, per quanto non ai livelli del 2020. Siamo quindi di fronte ad un cambiamento nelle abitudini di consumo che potrebbe essere strutturale (diamoci pure un po' più di tempo prima di parlare all'indicativo); e che, per quanto abbia toccato solo marginalmente gli artigiani (che sono presenti poco o nulla nella Gdo), impone comunque una riflessione sul pubblico a cui ci si rivolge, e su come raggiungerlo al meglio. Da quel che sento da parte di diversi birrifici artigianali, e-commerce con consegna a domicilio e asporto di bottiglie non sono sopravvissuti un granché al lockdown, configurando una netta distinzione tra chi beve industriale - e quindi acquista nella Gdo - e chi no; ma di nuovo, giova chiedersi se e quali cambiamenti siano avvenuti anche in questo comparto.Parlando poi dell'annosa questione delle accise, Pratolongo (nella foto sopra) si è lasciato sfuggire un "rendiamo artigianali i birrifici fino a 60.000 ettolitri, applicando anche a loro - e non solo a quelli fino a 10.000 - l'accisa agevolata" (ricordiamo che l’ultima Legge di Bilancio ha stabilito per il 2022 una riduzione di 5 centesimi unitamente a sconti progressivi di aliquota per i birrifici con produzione annua fino a 60mila ettolitri). Al netto di considerazioni di merito, ho trovato significativo il permanere della concezione per cui a "rendere artigianale" un birrificio è esclusivamente la questione dimensionale e non un insieme più ampio di indipendenza, filosofia di lavoro e modalità di produzione. Insomma, mi premetta Pratolongo di ribattere che è opportuno dal punto di vista comunicativo non ridurre alla sola dimensione (che certamente giustifica l'accisa agevolata, dato che ai più piccoli l'accisa pesa di più non potendo fare economia di scala su altri fronti) l'artigianalità, che è un concetto più complesso. Il tutto facendo salvo il fatto che è l'accisa in sé e per sé ad essere fuori luogo, essendo la birra l'unica bevanda da pasto a pagarla, e che l'impegno di Assobirra per vederla ridotta è - al pari di quello di Unionbirrai, rispetto alla quale ha per forza di cose più peso politico in virtù della dimensione - del tutto motivato.Infine, toccando la questione scottante dell'aumento delle materie prime su tutta la filiera, il vicepresidente Federico Sannella ha citato l'importanza del riciclo e del riuso in particolare del vetro: cosa nota da anni, più sotto il profilo ambientalista che economico, ma che ora risulta tanto più urgente anche per questo. E anche qui c'è da chiedersi come i piccoli birrifici possano incentivare la cosa in particolare presso la cerchia di affezionati, cosa che alcuni già fanno: da chi propone il growler, a chi raccoglie le bottiglie vuote - cosa che i nostri nonni avrebbero fatto abitualmente -, i sistemi ci sono. Si tratta di capire come renderli sostenibili sia economicamente che logisticamente, perché è chiaro che non ci si può mettere a lavare bottiglie a mano tra una cotta e l'altra; però è una sfida che sarà necessario prendere in considerazione.

Report 2021 di Assobirra: qualche riflessione

È stato presentato oggi, 7 luglio, il report 2021 di Assobirra; che, per quanto redatto dal punto di osservazione degli industriali del settore, offre alcuni spunti utili anche per l'artigianato nella misura in cui getta uno sguardo sull'intero comparto.Tra i tanti numeri presentati, uno di quelli che balzano all'occhio è il consumo pro capite di birra: 35,2 litri annui a testa nel 2021, cresciuti dai 34,9 del 2019 pre pandemico. E fin qui bene, si dirà; se non fosse che - ha fatto notare il presidente di Assobirra, Alfredo Pratolongo - i consumi totali sono in realtà leggermente calati, da 21,2 a 20,8 milioni di ettolitri, perché il pubblico è diminuito. Ebbene sì, una popolazione in calo - come è il caso dell'Italia - significa anche meno consumi di birra. E quindi o si esporta - e in effetti è aumentato l'export, a sostenere una produzione che è leggermente cresciuta rispetto al 2019 - o bisogna che il consumo pro capite aumenti di più, se non ci si vuole ritrovare a dividersi una torta sempre più piccola in una guerra tra poveri persa in partenza. Una considerazione con cui si devono confrontare, seppure in maniera diversa dall'industria, anche gli artigiani - che tendenzialmente possono contare su uno zoccolo duro di appassionati, ma che non possono limitarsi a quello.Secondo punto, sempre in merito ai consumi, è il fatto che l'aumento degli acquisti di birra nella Gdo - avvenuta giocoforza con il lockdown - si è mantenuto, per quanto non ai livelli del 2020. Siamo quindi di fronte ad un cambiamento nelle abitudini di consumo che potrebbe essere strutturale (diamoci pure un po' più di tempo prima di parlare all'indicativo); e che, per quanto abbia toccato solo marginalmente gli artigiani (che sono presenti poco o nulla nella Gdo), impone comunque una riflessione sul pubblico a cui ci si rivolge, e su come raggiungerlo al meglio. Da quel che sento da parte di diversi birrifici artigianali, e-commerce con consegna a domicilio e asporto di bottiglie non sono sopravvissuti un granché al lockdown, configurando una netta distinzione tra chi beve industriale - e quindi acquista nella Gdo - e chi no; ma di nuovo, giova chiedersi se e quali cambiamenti siano avvenuti anche in questo comparto.Parlando poi dell'annosa questione delle accise, Pratolongo (nella foto sopra) si è lasciato sfuggire un "rendiamo artigianali i birrifici fino a 60.000 ettolitri, applicando anche a loro - e non solo a quelli fino a 10.000 - l'accisa agevolata" (ricordiamo che l’ultima Legge di Bilancio ha stabilito per il 2022 una riduzione di 5 centesimi unitamente a sconti progressivi di aliquota per i birrifici con produzione annua fino a 60mila ettolitri). Al netto di considerazioni di merito, ho trovato significativo il permanere della concezione per cui a "rendere artigianale" un birrificio è esclusivamente la questione dimensionale e non un insieme più ampio di indipendenza, filosofia di lavoro e modalità di produzione. Insomma, mi premetta Pratolongo di ribattere che è opportuno dal punto di vista comunicativo non ridurre alla sola dimensione (che certamente giustifica l'accisa agevolata, dato che ai più piccoli l'accisa pesa di più non potendo fare economia di scala su altri fronti) l'artigianalità, che è un concetto più complesso. Il tutto facendo salvo il fatto che è l'accisa in sé e per sé ad essere fuori luogo, essendo la birra l'unica bevanda da pasto a pagarla, e che l'impegno di Assobirra per vederla ridotta è - al pari di quello di Unionbirrai, rispetto alla quale ha per forza di cose più peso politico in virtù della dimensione - del tutto motivato.Infine, toccando la questione scottante dell'aumento delle materie prime su tutta la filiera, il vicepresidente Federico Sannella ha citato l'importanza del riciclo e del riuso in particolare del vetro: cosa nota da anni, più sotto il profilo ambientalista che economico, ma che ora risulta tanto più urgente anche per questo. E anche qui c'è da chiedersi come i piccoli birrifici possano incentivare la cosa in particolare presso la cerchia di affezionati, cosa che alcuni già fanno: da chi propone il growler, a chi raccoglie le bottiglie vuote - cosa che i nostri nonni avrebbero fatto abitualmente -, i sistemi ci sono. Si tratta di capire come renderli sostenibili sia economicamente che logisticamente, perché è chiaro che non ci si può mettere a lavare bottiglie a mano tra una cotta e l'altra; però è una sfida che sarà necessario prendere in considerazione.

Un tris di birre analcoliche

Come già anticipato sulla mia pagina Facebook, mi sono data in questi giorni, facendo di necessità virtù, alle birre analcoliche; che ultimamente hanno avuto un certo rilievo mediatico nel mondo birrario artigianale, complice la presentazione della linea "Alcol Fri" da parte del Birrificio L'Olmaia e Birra Salento a Hospitality Riva e Beer Attraction. Una strada seguita anche dal birrificio altoatesino Pfefferlechner, che ha lanciato un'iniziativa simile - la Freedl - tre anni fa esatti, nell'aprile del 2019.Il segmento delle birre analcoliche è ancora poco battuto dai birrifici artigianali italiani; ma personalmente avevo già avuto modo di confrontarmi con la questione nel 2016, quando - come racconto in questo post - avevo fatto visita al birrificio svedese Nils Oscar. Lì mi era stata presentata appunto un'analcolica, spiegando come fosse una risposta ad un'esigenza di mercato sentita; in particolare, così mi era stato riferito, per la severità dei controlli in quanto ad alcol alla guida. Pensando al mercato italiano, e guardando anche ad alcuni sondaggi in proposito, direi tuttavia che la ragione principale per la scelta di una birra analcolica è quella salutistica: amanti della birra che non possono (donne incinte o in allattamento, chi assume farmaci, o deve controllare il peso, o ha qualche patologia che rende controindicato il consumo di alcolici) o semplicemente non vogliono, per evitare i rischi legati all'acol, consumare la birra classica. Del resto, porre attenzione al grado alcolico nella scelta di una birra - commisurandolo alle proprie condizioni fisiche, e al fatto che si sia bevuto o meno qualcos'altro - è parte integrante di quel consumo consapevole di cui tanto si parla: per cui anche una birra analcolica può trovare spazio in questo processo. Insomma, al di là del pregiudizio che le birre analcoliche possono scontare, hanno la loro ragion d'essere - e il fatto che si tratti di un mercato in crescita lo conferma.Nel caso delle Alcol Fri e delle Freedl, l'intento dichiarato è analogo: fare birre analcoliche che sappiano soddisfare anche i gusti del consumatore abituale di birre artigianali, e che rifuggano la scarsa caratterizzazione - per non parlare, spesso, della scarsa qualità - che ahinoi finiscono per contraddistinguere le birre analcoliche che solitamente si trovano sul mercato. E in effetti, ciascuna a sua modo, sono birre che esprimono una precisa personalità.La prima che ho assaggiato è stata la Ipa Fripa, capostipite della collaborazione tra Olmaia e Salento (seguiranno la Coffri e la Friberry, una Coffee Stout e una Fruit Beer rispettivamente), dealcolata grazie ad un particolare ceppo di lieviti. Volontà dichiarata era quella di creare una birra fortemente caratterizzata dai luppoli americani - e questo per compensare il fatto che è necessario, per questa particolare tipologia di lieviti, realizzare un mosto a basso contenuto di zuccheri e quindi esile sotto il profilo organolettico: e senz'altro mantiene questa promessa, perché sin dal momento in cui si apre la lattina si è letteralmente inondati da tutta la rosa possibile immaginabile relativa a queste varietà - dagli agrumi, alla frutta tropicale, alle resine. Aromi che si tramutano poi in sapori, dato che il corpo - per l'appunto - esile viene sovrastato da una tale esuberanza; a meno di non aspettare che la birra si scaldi un po', quando diventano più percepibili i toni di pane e finanche una nota di miele, a beneficio di un maggior equilibrio. Chiusura poi su un lungo e persistente amaro resinoso, che lascia la sensazione di aver avuto tra le mani luppolo puro. Insomma, una birra che mantiene quanto aveva promesso, superfluo specificare che devono piacere i luppoli americani - e in generale le birre sbilanciate verso il profilo aromatico e amarotico. Rimango curiosa di provare anche le altre, su cui a mio avviso - contando la presenza del caffè in un caso, e della frutta nell'altro - c'è del potenziale per ottenere dei risultati interessanti; così come interessante è il fatto che si tratti di un progetto che copre tre stili, dando un respiro ampio che può andare incontro a diversi gusti ed esigenze di consumo.Per certi spetti si può dire che risponda in modo diverso alla stessa domanda - ossia come dare personalità ad una birra che, in ragione del processo produttivo, deve avere un corpo esile - la versione classica della Freedl. Anche questa è infatti una Pale Ale; che sceglie però di mantenere un profilo aromatico improntato essenzialmente sull'agrumato, che resta tuttavia delicato per quanto ben evidente. Altrettanto delicata al palato, dove si possono più facilmente cogliere i (pur sempre tenui) toni di cereale analoghi a quelli descritti sopra; in ragione appunto della minore "muscolarità" del luppolo, da cui si intuisce l'intento di cercare sì la caratterizzazione ma anche l'equilibrio - cosa del resto connaturata alla tradizione tedesca, a cui Pfefferlechner è legato in ragione della sua collocazione geografica. Chiusura su un amaro netto tra l'erbaceo e il resinoso, non particolarmente persistente. Per chi apprezza appunto l'equilibrio e la facilità di beva, senza cercare toni forti. Si potrebbe obiettare che, se la Fripa può prestarsi alla critica di essere "troppo", questa può prestarsi alla critica di essere "troppo poco"; ma in realtà si capisce che questi vogliono essere al tempo stesso i punti di forza di ciascuna di queste due birre, con l'una che intende essere esuberante, e l'altra gradevole nella sua sobrietà. Volendo semplificare al massimo, potremmo quindi dire che preferire l'uno o l'altro approccio è solo questione di gusti.Risposta ancora diversa arriva poi dalla seconda versione della Freedl, battezzata Calma, aromatizzata con basilico prodotto a 1500m di altitudine all'interno del Parco dello Stelvio. Qui l'aroma erbaceo si amalgama con quello dei luppoli, risultando sì ben percepibile ma non soverchiante; e contribuisce anche a dare sapore al corpo, che risulta pertanto più caratterizzato rispetto alla Freedl classica - unendo cereale e basilico, quasi a mo' di focaccia. Il basilico risalta poi nella sua componente amara sul finale, esattamente come il luppolo, conferendo una nota amarotica erbacea. Anche qui, superfluo specificare che deve piacere il basilico; anche se, essendo usato in maniera sobria e dosata rispetto agli altri luppoli, finisce di fatto per integrarsi nell'insieme e può quindi risultare gradevole anche a chi non ne fosse un patito.Sempre riguardo alle due Freedl, c'è poi da notare che l'ideatrice è una donna, Maria-Elisabeth Laimer; a conferma di una particolare sensibilità femminile su questo fronte, già evidenziata da precedenti ricerche. E, non da ultimo, è significativo il fatto che sulle birre analcoliche compaia in etichetta - a differenza delle altre birre di Pfefferlechner - la tabella con i valori nutrizionali: a riprova che birre di questo tipo fanno appello ad un segmento di mercato che dà importanza agli aspetti relativi a nutrizione e salute, con una conseguente opera comunicativa e di marketing.Nel complesso, le definirei tre birre gradevoli e di facile beva, che danno appunto tre risposte diverse alla stessa domanda: una risposta più vivace e caratterizzata nel caso della Fripa, più sobria ed equilibrata nel caso delle due versioni della Freedl, ma in ogni caso valida.

Un tris di birre analcoliche

Come già anticipato sulla mia pagina Facebook, mi sono data in questi giorni, facendo di necessità virtù, alle birre analcoliche; che ultimamente hanno avuto un certo rilievo mediatico nel mondo birrario artigianale, complice la presentazione della linea "Alcol Fri" da parte del Birrificio L'Olmaia e Birra Salento a Hospitality Riva e Beer Attraction. Una strada seguita anche dal birrificio altoatesino Pfefferlechner, che ha lanciato un'iniziativa simile - la Freedl - tre anni fa esatti, nell'aprile del 2019.Il segmento delle birre analcoliche è ancora poco battuto dai birrifici artigianali italiani; ma personalmente avevo già avuto modo di confrontarmi con la questione nel 2016, quando - come racconto in questo post - avevo fatto visita al birrificio svedese Nils Oscar. Lì mi era stata presentata appunto un'analcolica, spiegando come fosse una risposta ad un'esigenza di mercato sentita; in particolare, così mi era stato riferito, per la severità dei controlli in quanto ad alcol alla guida. Pensando al mercato italiano, e guardando anche ad alcuni sondaggi in proposito, direi tuttavia che la ragione principale per la scelta di una birra analcolica è quella salutistica: amanti della birra che non possono (donne incinte o in allattamento, chi assume farmaci, o deve controllare il peso, o ha qualche patologia che rende controindicato il consumo di alcolici) o semplicemente non vogliono, per evitare i rischi legati all'acol, consumare la birra classica. Del resto, porre attenzione al grado alcolico nella scelta di una birra - commisurandolo alle proprie condizioni fisiche, e al fatto che si sia bevuto o meno qualcos'altro - è parte integrante di quel consumo consapevole di cui tanto si parla: per cui anche una birra analcolica può trovare spazio in questo processo. Insomma, al di là del pregiudizio che le birre analcoliche possono scontare, hanno la loro ragion d'essere - e il fatto che si tratti di un mercato in crescita lo conferma.Nel caso delle Alcol Fri e delle Freedl, l'intento dichiarato è analogo: fare birre analcoliche che sappiano soddisfare anche i gusti del consumatore abituale di birre artigianali, e che rifuggano la scarsa caratterizzazione - per non parlare, spesso, della scarsa qualità - che ahinoi finiscono per contraddistinguere le birre analcoliche che solitamente si trovano sul mercato. E in effetti, ciascuna a sua modo, sono birre che esprimono una precisa personalità.La prima che ho assaggiato è stata la Ipa Fripa, capostipite della collaborazione tra Olmaia e Salento (seguiranno la Coffri e la Friberry, una Coffee Stout e una Fruit Beer rispettivamente), dealcolata grazie ad un particolare ceppo di lieviti. Volontà dichiarata era quella di creare una birra fortemente caratterizzata dai luppoli americani - e questo per compensare il fatto che è necessario, per questa particolare tipologia di lieviti, realizzare un mosto a basso contenuto di zuccheri e quindi esile sotto il profilo organolettico: e senz'altro mantiene questa promessa, perché sin dal momento in cui si apre la lattina si è letteralmente inondati da tutta la rosa possibile immaginabile relativa a queste varietà - dagli agrumi, alla frutta tropicale, alle resine. Aromi che si tramutano poi in sapori, dato che il corpo - per l'appunto - esile viene sovrastato da una tale esuberanza; a meno di non aspettare che la birra si scaldi un po', quando diventano più percepibili i toni di pane e finanche una nota di miele, a beneficio di un maggior equilibrio. Chiusura poi su un lungo e persistente amaro resinoso, che lascia la sensazione di aver avuto tra le mani luppolo puro. Insomma, una birra che mantiene quanto aveva promesso, superfluo specificare che devono piacere i luppoli americani - e in generale le birre sbilanciate verso il profilo aromatico e amarotico. Rimango curiosa di provare anche le altre, su cui a mio avviso - contando la presenza del caffè in un caso, e della frutta nell'altro - c'è del potenziale per ottenere dei risultati interessanti; così come interessante è il fatto che si tratti di un progetto che copre tre stili, dando un respiro ampio che può andare incontro a diversi gusti ed esigenze di consumo.Per certi spetti si può dire che risponda in modo diverso alla stessa domanda - ossia come dare personalità ad una birra che, in ragione del processo produttivo, deve avere un corpo esile - la versione classica della Freedl. Anche questa è infatti una Pale Ale; che sceglie però di mantenere un profilo aromatico improntato essenzialmente sull'agrumato, che resta tuttavia delicato per quanto ben evidente. Altrettanto delicata al palato, dove si possono più facilmente cogliere i (pur sempre tenui) toni di cereale analoghi a quelli descritti sopra; in ragione appunto della minore "muscolarità" del luppolo, da cui si intuisce l'intento di cercare sì la caratterizzazione ma anche l'equilibrio - cosa del resto connaturata alla tradizione tedesca, a cui Pfefferlechner è legato in ragione della sua collocazione geografica. Chiusura su un amaro netto tra l'erbaceo e il resinoso, non particolarmente persistente. Per chi apprezza appunto l'equilibrio e la facilità di beva, senza cercare toni forti. Si potrebbe obiettare che, se la Fripa può prestarsi alla critica di essere "troppo", questa può prestarsi alla critica di essere "troppo poco"; ma in realtà si capisce che questi vogliono essere al tempo stesso i punti di forza di ciascuna di queste due birre, con l'una che intende essere esuberante, e l'altra gradevole nella sua sobrietà. Volendo semplificare al massimo, potremmo quindi dire che preferire l'uno o l'altro approccio è solo questione di gusti.Risposta ancora diversa arriva poi dalla seconda versione della Freedl, battezzata Calma, aromatizzata con basilico prodotto a 1500m di altitudine all'interno del Parco dello Stelvio. Qui l'aroma erbaceo si amalgama con quello dei luppoli, risultando sì ben percepibile ma non soverchiante; e contribuisce anche a dare sapore al corpo, che risulta pertanto più caratterizzato rispetto alla Freedl classica - unendo cereale e basilico, quasi a mo' di focaccia. Il basilico risalta poi nella sua componente amara sul finale, esattamente come il luppolo, conferendo una nota amarotica erbacea. Anche qui, superfluo specificare che deve piacere il basilico; anche se, essendo usato in maniera sobria e dosata rispetto agli altri luppoli, finisce di fatto per integrarsi nell'insieme e può quindi risultare gradevole anche a chi non ne fosse un patito.Sempre riguardo alle due Freedl, c'è poi da notare che l'ideatrice è una donna, Maria-Elisabeth Laimer; a conferma di una particolare sensibilità femminile su questo fronte, già evidenziata da precedenti ricerche. E, non da ultimo, è significativo il fatto che sulle birre analcoliche compaia in etichetta - a differenza delle altre birre di Pfefferlechner - la tabella con i valori nutrizionali: a riprova che birre di questo tipo fanno appello ad un segmento di mercato che dà importanza agli aspetti relativi a nutrizione e salute, con una conseguente opera comunicativa e di marketing.Nel complesso, le definirei tre birre gradevoli e di facile beva, che danno appunto tre risposte diverse alla stessa domanda: una risposta più vivace e caratterizzata nel caso della Fripa, più sobria ed equilibrata nel caso delle due versioni della Freedl, ma in ogni caso valida.

Notizie da Solobirra

Trovandomi al momento impossibilitata a presenziare per motivi di salute, mi trovo a scrivere da casa del concorso Solobirra promosso da Hospitality Riva; e che comprende non solo la categoria Best Beer, ma anche quella Best Label e Best Pack - vuole insomma porsi come valutazione a tutto tondo del prodotto birra, inserendo anche etichette e packaging nel concorso.Una prima considerazione che mi sono trovata a fare è stata sui numeri: circa 200 birre partecipanti al Best Beer - perlopiù da birrifici del Nord, come si desume dall'elenco dei premiati -, per 22 categorie: sono andate quindi a podio 66 birre, ossia circa un terzo di quelle in concorso. Questo non per dire che sia un concorso "facilone", in cui "si vince sempre": è molto banalmente un concorso più "piccolo" di altri, in cui il numero di categorie relativamente ristretto - Birra dell'Anno ne ha 45, per avere un termine di confronto - può essere visto anche in funzione di colmare questo squilibrio. E, del resto, questo nulla ci dice sulla qualità delle birre in questione - che potrebbero anche essere tutte e 200 meritevoli di riconoscimento, per quel che ne sappiamo senza averle assaggiate. Però credo sia comunque un dato da tenere a mente nel parlare di questo concorso. Tra i premiati spiccano 5+, con 6 premi (tra cui Best Beer per la Shirin Persia); Isola e Rethia, con 5; Lesster con 4. Accolgo con piacere il premio Best Beer alla Shirin Persia, di cui avevo parlato in questo post; non solo per la birra in sé, ma anche per il progetto che ci sta dietro (una rete transnazionale per il commercio dello zafferano, legata al circuito dell'Equosolidale). In generale, tra le birre che ho avuto occasione di provare e che vedo in questa lista, ce ne sono diverse che sicuramente ricordo con grande affetto: ad esempio la Koelsh Coloniale di Benaco 70 (a mio avviso una delle meglio riuscite della casa, in particolare per quanto riguarda il delicato equilibrio tra delicatezza e decisione dell'aroma che contraddistingue lo stile); o la Jolly Blue, Iga "anomala" de La Curtense di cui avevo parlato in questo post; o la Doppelbock di Darf, di cui avevo parlato qui. Ecco, ad ogni modo, la lista completa dei premi:Best Beer 2021Shirin Persia - 5+ Birrificio ArtigianalePer la categoria Pils1. Allegra - Birrificio La Martina2. Peler - Birra Impavida3. Pils - Birrificio IsolaPer la categoria Keller1. Valkirija - Birrificio Plotegher2. Lagerona - Birrificio Rethia3. Vivienne - Birra ImpavidaPer la categoria Hoppy Lager1. Asgard - Birrificio Plotegher2. Keller - Birrificio Darf3. Rye Ipa - Birrificio IsolaPer la categoria Kolsch1. Ornagher - Birra Eretica2. Kappa - Manifattura Birre Bologna3. Coloniale - Benaco 70Per la categoria Bock1. Doppelbock - Birrificio Darf2. Bock - 5+ Birrificio Artigianale3. La Bionda - SeiterrePer la categoria British Bitters1. 26,10 - Red Moon Brewing2. Rossa - Birrificio Magis3. Summit Red Ale - Forneria MessinaPer la categoria IPA1. Session Ipa - Birrificio Isola2. Session Ipa - 5+ Birrificio Artigianale3. Tropic Thunder - Birra ImpavidaPer la categoria APA1. Yankee - Birrificio Casteldariese2. Maria Mata - Birrificio Rethia3. Pale Ale - Birrificio IsolaPer la categoria American IPA1. ex aequo Ripa - Fuori Stile1. ex aequo Ipa - Birra Turan3. India Pale Ale - Benaco 70Per la categoria Double IPA1. Double Ipa - 5+ Birrificio Artigianale2. Empire - Birrificio Hubenbauer3. Guerrina - Duck BreweryPer la categoria Porter1. Stroo - Birrificio Lesster2. Coffee Stout - Birrificio Isola3. Black Therapy - The Ugly SheepPer la categoria Weizen1. Weiss - Birrificio Sguaraunda2. La Nuvolosa - Seiterre3. Birra Del Brigante - Birrificio LessterPer la categoria Blanche1. Blanche - Benaco 702. Magnolia - Birrificio Rethia3. Birra Bianca - Viess BeerPer la categoria Belgian Blonde1. A Stagion - Birrificio Incanto2. Alain Saison - Duck Brewery3. Quadro - BarbafortePer la categoria Belgian Golden Strong Ale1. Globetrottel - Birrificio Sguaraunda2. Leone - Seiterre3. A Malament - Birrificio IncantoPer la categoria Belgian Dark Strong Ale1. Balurdon - Birra Eretica2. Emmesedici - Pasubio3. Nevik - Birrificio PlotegherPer la categoria Birre Speziate1. Shirin Persia - 5+ Birrificio Artigianale2. Onelove - Birrificio Magis3. 2112 - Birrificio IncantoPer la categoria Birre Torbate/Affumicate1. Krimisos Bruna - Birrificio Krimisos2. Rum - Birrificio Lesster3. Bourbon - Birrificio LessterPer la categoria Birre Fruttate1. Castanea - 5+ Birrificio Artigianale2. Birra alle Castagne - La Curtense3. Tropical - La CurtensePer la categoria Sour Ale1. Sour Drop - Birrificio Agricolo Sorio e Deriva Brewing2. Peach & Apricot - Birrificio Rethia3. Urban - Birrificio HubenbauerPer la categoria Birre al Miele1. Ape - Birra Eretica2. Honey Ale - Birra ON/OFF3. Malupina - Birrificio IncantoPer la categoria IGA1. Wild Side - Birrificio Rethia2. Intrigata Al Marzemino - Barbaforte3. Jolly Blue - La Curtense  

Notizie da Solobirra

Trovandomi al momento impossibilitata a presenziare per motivi di salute, mi trovo a scrivere da casa del concorso Solobirra promosso da Hospitality Riva; e che comprende non solo la categoria Best Beer, ma anche quella Best Label e Best Pack - vuole insomma porsi come valutazione a tutto tondo del prodotto birra, inserendo anche etichette e packaging nel concorso.Una prima considerazione che mi sono trovata a fare è stata sui numeri: circa 200 birre partecipanti al Best Beer - perlopiù da birrifici del Nord, come si desume dall'elenco dei premiati -, per 22 categorie: sono andate quindi a podio 66 birre, ossia circa un terzo di quelle in concorso. Questo non per dire che sia un concorso "facilone", in cui "si vince sempre": è molto banalmente un concorso più "piccolo" di altri, in cui il numero di categorie relativamente ristretto - Birra dell'Anno ne ha 45, per avere un termine di confronto - può essere visto anche in funzione di colmare questo squilibrio. E, del resto, questo nulla ci dice sulla qualità delle birre in questione - che potrebbero anche essere tutte e 200 meritevoli di riconoscimento, per quel che ne sappiamo senza averle assaggiate. Però credo sia comunque un dato da tenere a mente nel parlare di questo concorso. Tra i premiati spiccano 5+, con 6 premi (tra cui Best Beer per la Shirin Persia); Isola e Rethia, con 5; Lesster con 4. Accolgo con piacere il premio Best Beer alla Shirin Persia, di cui avevo parlato in questo post; non solo per la birra in sé, ma anche per il progetto che ci sta dietro (una rete transnazionale per il commercio dello zafferano, legata al circuito dell'Equosolidale). In generale, tra le birre che ho avuto occasione di provare e che vedo in questa lista, ce ne sono diverse che sicuramente ricordo con grande affetto: ad esempio la Koelsh Coloniale di Benaco 70 (a mio avviso una delle meglio riuscite della casa, in particolare per quanto riguarda il delicato equilibrio tra delicatezza e decisione dell'aroma che contraddistingue lo stile); o la Jolly Blue, Iga "anomala" de La Curtense di cui avevo parlato in questo post; o la Doppelbock di Darf, di cui avevo parlato qui. Ecco, ad ogni modo, la lista completa dei premi:Best Beer 2021Shirin Persia - 5+ Birrificio ArtigianalePer la categoria Pils1. Allegra - Birrificio La Martina2. Peler - Birra Impavida3. Pils - Birrificio IsolaPer la categoria Keller1. Valkirija - Birrificio Plotegher2. Lagerona - Birrificio Rethia3. Vivienne - Birra ImpavidaPer la categoria Hoppy Lager1. Asgard - Birrificio Plotegher2. Keller - Birrificio Darf3. Rye Ipa - Birrificio IsolaPer la categoria Kolsch1. Ornagher - Birra Eretica2. Kappa - Manifattura Birre Bologna3. Coloniale - Benaco 70Per la categoria Bock1. Doppelbock - Birrificio Darf2. Bock - 5+ Birrificio Artigianale3. La Bionda - SeiterrePer la categoria British Bitters1. 26,10 - Red Moon Brewing2. Rossa - Birrificio Magis3. Summit Red Ale - Forneria MessinaPer la categoria IPA1. Session Ipa - Birrificio Isola2. Session Ipa - 5+ Birrificio Artigianale3. Tropic Thunder - Birra ImpavidaPer la categoria APA1. Yankee - Birrificio Casteldariese2. Maria Mata - Birrificio Rethia3. Pale Ale - Birrificio IsolaPer la categoria American IPA1. ex aequo Ripa - Fuori Stile1. ex aequo Ipa - Birra Turan3. India Pale Ale - Benaco 70Per la categoria Double IPA1. Double Ipa - 5+ Birrificio Artigianale2. Empire - Birrificio Hubenbauer3. Guerrina - Duck BreweryPer la categoria Porter1. Stroo - Birrificio Lesster2. Coffee Stout - Birrificio Isola3. Black Therapy - The Ugly SheepPer la categoria Weizen1. Weiss - Birrificio Sguaraunda2. La Nuvolosa - Seiterre3. Birra Del Brigante - Birrificio LessterPer la categoria Blanche1. Blanche - Benaco 702. Magnolia - Birrificio Rethia3. Birra Bianca - Viess BeerPer la categoria Belgian Blonde1. A Stagion - Birrificio Incanto2. Alain Saison - Duck Brewery3. Quadro - BarbafortePer la categoria Belgian Golden Strong Ale1. Globetrottel - Birrificio Sguaraunda2. Leone - Seiterre3. A Malament - Birrificio IncantoPer la categoria Belgian Dark Strong Ale1. Balurdon - Birra Eretica2. Emmesedici - Pasubio3. Nevik - Birrificio PlotegherPer la categoria Birre Speziate1. Shirin Persia - 5+ Birrificio Artigianale2. Onelove - Birrificio Magis3. 2112 - Birrificio IncantoPer la categoria Birre Torbate/Affumicate1. Krimisos Bruna - Birrificio Krimisos2. Rum - Birrificio Lesster3. Bourbon - Birrificio LessterPer la categoria Birre Fruttate1. Castanea - 5+ Birrificio Artigianale2. Birra alle Castagne - La Curtense3. Tropical - La CurtensePer la categoria Sour Ale1. Sour Drop - Birrificio Agricolo Sorio e Deriva Brewing2. Peach & Apricot - Birrificio Rethia3. Urban - Birrificio HubenbauerPer la categoria Birre al Miele1. Ape - Birra Eretica2. Honey Ale - Birra ON/OFF3. Malupina - Birrificio IncantoPer la categoria IGA1. Wild Side - Birrificio Rethia2. Intrigata Al Marzemino - Barbaforte3. Jolly Blue - La Curtense  

La birra sotto attacco del Nutriscore: ma se usassimo il Nutrinform?

È uscito un comunicato di Unionbirrai in cui l'associazione prende dura posizione contro la proposta di Serge Hercberg, creatore del Nutriscore, di bollare con una F nera tutte le bevande alcoliche: un po' come accade per le sigarette, dunque, il consumatore verrebbe così "avvertito" dei potenziali rischi per la salute insiti nel consumo di alcol - in particolare quelli legati al cancro. Non solo: una simile misura potrebbe portare gli Stati membri dell'Ue ad imporre - analogamente per quanto avviene con il tabacco - misure volte a scoraggiare la vendita di questi prodotti. L'intervento di Unionbirrai fa seguito a quello di numerose associazioni di produttori di vino e di diversi politici, che hanno bollato questa proposta come tentativo da parte dei Paesi Nordeuropei di colpire l'export italiano.   Per capire meglio dobbiamo però fare un passo indietro, e capire che cos'è il Nutriscore. Si tratta di un sistema di etichettatura degli alimenti nato in Francia – e proposto all’Ue nell’ambito del processo di armonizzazione delle etichettature a livello europeo – che, in base al contenuto di zuccheri, grassi e sale su 100 grammi di prodotto, assegna ad ogni cibo un colore – dal verde al rosso, come appunto il semaforo, più il nero per l'ultimo gradino – e una lettera (da A a F) in base alla sua “salubrità”. Il concetto di base è che meno un certo cibo contiene queste sostanze, più è salutare: concetto mutuato appunto anche per l'acol. Peccato che la questione sia assai più complessa di così: l’olio d’oliva ad esempio, o il parmigiano, che in virtù del loro alto contenuto di grassi finiscono in zona rossa o arancione, non verrebbero sicuramente definiti insalubri da alcun nutrizionista; anzi, il loro consumo viene consigliato – nelle giuste dosi, beninteso: e sarebbe difficile peraltro superarle semplicemente condendo l'insalata o la pasta – proprio per i loro effetti benefici. Così come viceversa sarebbe opinabile considerare salubre un processatissimo piatto pronto “light”, magari ricco di additivi e conservanti. Sono stati in molti quindi a giudicare questa etichettatura fuorviante per il consumatore; nonché, appunto, un mascherare sotto intenti salutistici la volontà politica di penalizzare le esportazioni del Sud Europa e dell'Italia in particolare. C'è però da ricordare che l’opposizione dell’Italia si è concretizzata in una controproposta assai meno conosciuta, il Nutrinform: un sistema di etichettatura che riporta, non per 100 grammi (e chi mai berrebbe 100g d’olio d’oliva?), ma per porzione consigliata (poniamo un pezzo di Parmigiano da 50g), la percentuale di grassi, zuccheri e sale calcolata su quella che dovrebbe essere l’assunzione giornaliera. Saprò così che con quella porzione di cibo avrò assunto, ad esempio, il 35% della mia dose quotidiana di grassi, il 12% della mia dose di energia, il 25% della mia dose di sale, e via dicendo. La cosa diventa quindi uno sforzo di educazione alimentare, stimolando un approccio consapevole ad una dieta varia che bilancia i vari nutrienti nel corso della giornata. Per quanto sarebbe più difficile ipotizzare di fare la stessa cosa con gli alcolici, dato che non c'è perfetto accordo nel mondo scientifico su quale possa definirsi una dose "sicura" - e che comunque questa varia significativamente in base al peso e al sesso -, si potrebbe per analogia ipotizzare di fare riferimento ad un livello "medio" (come del resto si fa anche per i valori di assunzioni giornaliere degli altri nutrienti) che possa essere definito un consumo "moderato e consapevole" per dare indicazioni analoghe. Certo non avrebbe la stessa efficacia di quella che è l'educazione ad un consumo consapevole a cui Unionbirrai stessa fa riferimento; ma sarebbe comunque meglio di una F che non rende affatto giustizia alla vecchia massima secondo cui "il veleno è la dose", né al fatto che il mangiare e il bere hanno anche una dimensione sociale, culturale e di piacere oltre che salutistica.A quanto pare, peraltro, Nutrinform sta avendo successo: almeno secondo l’indagine“Le etichette fronte pacco in 7 Paesi: Nutriscore VS Nutrinform”, a cura dell’Osservatorio Waste Watcher International diretto dal professor Andrea Segrè. L’indagine offre uno sguardo internazionale, visto che può contare su un campione statistico di 7000 cittadini di 7 Paesi - Stati Uniti, Russia, Canada, Regno Unito, Germania, Spagna e Italia -; e riferisce che il Nutrinform nei giudizi degli interpellati ha ottenuto 23 punti in più in termini di utilità, 15 in termini di informatività, 13 per completezza e chiarezza e 12 per consapevolezza. Fattore importante dato che ben il 75% degli intervistati dichiara di utilizzare le informazioni in etichetta per decidere quali prodotti acquistare. Tenendo conto che proprio entro lo primo semestre 2022 - peraltro a presidenza francese - la Commissione europea dovrà esprimersi su un'etichettatura nutrizionale armonizzata nei Paesi europei, bene fanno cittadini e associazioni a farsi sentire.p { margin-bottom: 0.25cm; direction: ltr; color: #000000; line-height: 115%; orphans: 2; widows: 2 }p.western { font-family: "Liberation Serif", "Times New Roman", serif; font-size: 12pt; so-language: it-IT }p.cjk { font-family: "Noto Sans CJK SC"; font-size: 12pt; so-language: zh-CN }p.ctl { font-family: "Lohit Devanagari"; font-size: 12pt; so-language: hi-IN } p { margin-bottom: 0.25cm; direction: ltr; color: #000000; line-height: 115%; orphans: 2; widows: 2 }p.western { font-family: "Liberation Serif", "Times New Roman", serif; font-size: 12pt; so-language: it-IT }p.cjk { font-family: "Noto Sans CJK SC"; font-size: 12pt; so-language: zh-CN }p.ctl { font-family: "Lohit Devanagari"; font-size: 12pt; so-language: hi-IN }

La birra sotto attacco del Nutriscore: ma se usassimo il Nutrinform?

È uscito un comunicato di Unionbirrai in cui l'associazione prende dura posizione contro la proposta di Serge Hercberg, creatore del Nutriscore, di bollare con una F nera tutte le bevande alcoliche: un po' come accade per le sigarette, dunque, il consumatore verrebbe così "avvertito" dei potenziali rischi per la salute insiti nel consumo di alcol - in particolare quelli legati al cancro. Non solo: una simile misura potrebbe portare gli Stati membri dell'Ue ad imporre - analogamente per quanto avviene con il tabacco - misure volte a scoraggiare la vendita di questi prodotti. L'intervento di Unionbirrai fa seguito a quello di numerose associazioni di produttori di vino e di diversi politici, che hanno bollato questa proposta come tentativo da parte dei Paesi Nordeuropei di colpire l'export italiano.   Per capire meglio dobbiamo però fare un passo indietro, e capire che cos'è il Nutriscore. Si tratta di un sistema di etichettatura degli alimenti nato in Francia – e proposto all’Ue nell’ambito del processo di armonizzazione delle etichettature a livello europeo – che, in base al contenuto di zuccheri, grassi e sale su 100 grammi di prodotto, assegna ad ogni cibo un colore – dal verde al rosso, come appunto il semaforo, più il nero per l'ultimo gradino – e una lettera (da A a F) in base alla sua “salubrità”. Il concetto di base è che meno un certo cibo contiene queste sostanze, più è salutare: concetto mutuato appunto anche per l'acol. Peccato che la questione sia assai più complessa di così: l’olio d’oliva ad esempio, o il parmigiano, che in virtù del loro alto contenuto di grassi finiscono in zona rossa o arancione, non verrebbero sicuramente definiti insalubri da alcun nutrizionista; anzi, il loro consumo viene consigliato – nelle giuste dosi, beninteso: e sarebbe difficile peraltro superarle semplicemente condendo l'insalata o la pasta – proprio per i loro effetti benefici. Così come viceversa sarebbe opinabile considerare salubre un processatissimo piatto pronto “light”, magari ricco di additivi e conservanti. Sono stati in molti quindi a giudicare questa etichettatura fuorviante per il consumatore; nonché, appunto, un mascherare sotto intenti salutistici la volontà politica di penalizzare le esportazioni del Sud Europa e dell'Italia in particolare. C'è però da ricordare che l’opposizione dell’Italia si è concretizzata in una controproposta assai meno conosciuta, il Nutrinform: un sistema di etichettatura che riporta, non per 100 grammi (e chi mai berrebbe 100g d’olio d’oliva?), ma per porzione consigliata (poniamo un pezzo di Parmigiano da 50g), la percentuale di grassi, zuccheri e sale calcolata su quella che dovrebbe essere l’assunzione giornaliera. Saprò così che con quella porzione di cibo avrò assunto, ad esempio, il 35% della mia dose quotidiana di grassi, il 12% della mia dose di energia, il 25% della mia dose di sale, e via dicendo. La cosa diventa quindi uno sforzo di educazione alimentare, stimolando un approccio consapevole ad una dieta varia che bilancia i vari nutrienti nel corso della giornata. Per quanto sarebbe più difficile ipotizzare di fare la stessa cosa con gli alcolici, dato che non c'è perfetto accordo nel mondo scientifico su quale possa definirsi una dose "sicura" - e che comunque questa varia significativamente in base al peso e al sesso -, si potrebbe per analogia ipotizzare di fare riferimento ad un livello "medio" (come del resto si fa anche per i valori di assunzioni giornaliere degli altri nutrienti) che possa essere definito un consumo "moderato e consapevole" per dare indicazioni analoghe. Certo non avrebbe la stessa efficacia di quella che è l'educazione ad un consumo consapevole a cui Unionbirrai stessa fa riferimento; ma sarebbe comunque meglio di una F che non rende affatto giustizia alla vecchia massima secondo cui "il veleno è la dose", né al fatto che il mangiare e il bere hanno anche una dimensione sociale, culturale e di piacere oltre che salutistica.A quanto pare, peraltro, Nutrinform sta avendo successo: almeno secondo l’indagine“Le etichette fronte pacco in 7 Paesi: Nutriscore VS Nutrinform”, a cura dell’Osservatorio Waste Watcher International diretto dal professor Andrea Segrè. L’indagine offre uno sguardo internazionale, visto che può contare su un campione statistico di 7000 cittadini di 7 Paesi - Stati Uniti, Russia, Canada, Regno Unito, Germania, Spagna e Italia -; e riferisce che il Nutrinform nei giudizi degli interpellati ha ottenuto 23 punti in più in termini di utilità, 15 in termini di informatività, 13 per completezza e chiarezza e 12 per consapevolezza. Fattore importante dato che ben il 75% degli intervistati dichiara di utilizzare le informazioni in etichetta per decidere quali prodotti acquistare. Tenendo conto che proprio entro lo primo semestre 2022 - peraltro a presidenza francese - la Commissione europea dovrà esprimersi su un'etichettatura nutrizionale armonizzata nei Paesi europei, bene fanno cittadini e associazioni a farsi sentire.p { margin-bottom: 0.25cm; direction: ltr; color: #000000; line-height: 115%; orphans: 2; widows: 2 }p.western { font-family: "Liberation Serif", "Times New Roman", serif; font-size: 12pt; so-language: it-IT }p.cjk { font-family: "Noto Sans CJK SC"; font-size: 12pt; so-language: zh-CN }p.ctl { font-family: "Lohit Devanagari"; font-size: 12pt; so-language: hi-IN } p { margin-bottom: 0.25cm; direction: ltr; color: #000000; line-height: 115%; orphans: 2; widows: 2 }p.western { font-family: "Liberation Serif", "Times New Roman", serif; font-size: 12pt; so-language: it-IT }p.cjk { font-family: "Noto Sans CJK SC"; font-size: 12pt; so-language: zh-CN }p.ctl { font-family: "Lohit Devanagari"; font-size: 12pt; so-language: hi-IN }

L’affaire Birra del Borgo e affini: un assist comunicativo per la birra artigianale italiana?

Sì, il titolo vuol essere provocatorio e finanche fuori luogo; ma, dopo aver letto in questi giorni di tutto di più su quanto accaduto a Birra del Borgo - l'annunciato licenziamento di una quarantina di dipendenti, la chiusura dei locali, e la cessione da parte di AbInbev del birrificio di Collerosso - devo ammettere che, da giornalista, il primo pensiero che ho fatto e quello che più mi rimane è comunque questo. Se infatti osserviamo la questione dal punto di vista puramente mediatico, dalla sconosciuta (al grande pubblico, beninteso) testata MarsicaLive la notizia si è rapidamente diffusa su quelle nazionali, fino ai due quotidiani di punta del Paese - La Repubblica e il Corriere della Sera: l'acquisizione di Birra del Borgo da parte di AbInbev non aveva, viceversa, avuto la stessa risonanza. Chiunque abbia mai lavorato come ufficio stampa sa quanto può essere difficile farsi dare retta dai quotidiani nazionali, per cui è un bel risultato. Ora un pubblico nettamente più vasto conosce la vicenda, e di conseguenza a grandi linee - sempre che si sia preso la briga di leggere con attenzione, cosa ahimé sempre più rara - le dinamiche sottese al comparto birrario artigianale italiano e a quello industriale. Probabilmente molte persone hanno sentito parlare per la prima volta di questa dicotomia, di birre crafty, e di acquisizioni di marchi ex artigianali; con, si auspica, maggiore consapevolezza come consumatori. Al di là di qualsiasi valutazione nel merito di quanto è accaduto, dunque, il dato di fatto è che "il pasticciaccio brutto di Birra del Borgo" ha quantomeno fatto un favore alla causa della comunicazione in questo settore. E per quanto personalmente trovi odiosissima la massima "nel bene o nel male, purché se ne parli", ci sono casi in cui è dannatamente vera. Accosterei poi questa osservazione ad un'altra che hanno fatto in tanti: ossia che il consumo di birra artigianale è oggi significativamente cambiato rispetto all'epoca in cui sono avvenute le incursioni dell'industria nel mondo artigianale italiano (non solo quindi Birra del Borgo, ma anche Birrificio del Ducato, Birradamare e Hibu). Se infatti all'epoca il profilo di chi frequentava i pub spaziava tra gli estremi di chi beveva artigianale per pura moda - erano gli anni in cui era diventato tangibile il boom partito dopo il 2010 -, e i grandi intenditori - finanche nerd e saccenti, mi si passi i termini -, adesso la moda è passata, come ogni moda che si rispetti, e complice anche il Covid è cambiato il profilo di chi è rimasto. Al di là dei grandi intenditori - che devo dire sono pure meno saccenti, forse controparte della "semplificazione degli stili" che è seguita allo sgonfiarsi della moda e del "famola strana" (la birra) - vedo tanti che non sono necessariamente adepti o consumatori abituali, ma persone che hanno trovato un genuino interesse nel farsi anche solo ogni tanto una buona pinta artigianale semplicemente perché negli anni passati hanno avuto modo di provarla e di apprezzare l'unicità di un certo produttore. E anche se per il resto bevono birra presa al supermercato, è comunque positivo che abbiano colto il messaggio della diversità tra le due tipologie. Ad un pubblico di questo tipo, dunque, è essenziale che passi anche l'altra parte del messaggio: ossia quella inerente la diversità delle strategie tra birrifici artigianali e industriali, e che cosa significhi di conseguenza supportare con i propri acquisti gli uni piuttosto che gli altri; o che cosa significhi (come del resto per ogni altro prodotto) essere informati sulla proprietà di ciascun marchio e sulle sue politiche.Insomma, a dare un assist di rilievo alla sempre discussa comunicazione nell'ambito della birra artigianale potrebbe essere - strana ironia - proprio una multinazionale, contribuendo ad attirare l'attenzione sul settore. Certo questa attenzione deve essere ben indirizzata: se in questo caso a fare chiasso è stato fondamentalmente l'aspetto occupazionale, è chiaro che non ci si può limitare alla logora retorica della multinazionale brutta e cattiva che arriva, compra e licenzia (anche perché la situazione di fatto non è questa). Se gli artigiani sapranno sfruttare l'attenzione creata per comunicare invece le loro peculiarità - dall'unicità delle ricette e in alcuni casi delle materie prime, al legame con il territorio e con gli itinerari turistici connessi - si sarà davvero sfruttato questo assist.

L’affaire Birra del Borgo e affini: un assist comunicativo per la birra artigianale italiana?

Sì, il titolo vuol essere provocatorio e finanche fuori luogo; ma, dopo aver letto in questi giorni di tutto di più su quanto accaduto a Birra del Borgo - l'annunciato licenziamento di una quarantina di dipendenti, la chiusura dei locali, e la cessione da parte di AbInbev del birrificio di Collerosso - devo ammettere che, da giornalista, il primo pensiero che ho fatto e quello che più mi rimane è comunque questo. Se infatti osserviamo la questione dal punto di vista puramente mediatico, dalla sconosciuta (al grande pubblico, beninteso) testata MarsicaLive la notizia si è rapidamente diffusa su quelle nazionali, fino ai due quotidiani di punta del Paese - La Repubblica e il Corriere della Sera: l'acquisizione di Birra del Borgo da parte di AbInbev non aveva, viceversa, avuto la stessa risonanza. Chiunque abbia mai lavorato come ufficio stampa sa quanto può essere difficile farsi dare retta dai quotidiani nazionali, per cui è un bel risultato. Ora un pubblico nettamente più vasto conosce la vicenda, e di conseguenza a grandi linee - sempre che si sia preso la briga di leggere con attenzione, cosa ahimé sempre più rara - le dinamiche sottese al comparto birrario artigianale italiano e a quello industriale. Probabilmente molte persone hanno sentito parlare per la prima volta di questa dicotomia, di birre crafty, e di acquisizioni di marchi ex artigianali; con, si auspica, maggiore consapevolezza come consumatori. Al di là di qualsiasi valutazione nel merito di quanto è accaduto, dunque, il dato di fatto è che "il pasticciaccio brutto di Birra del Borgo" ha quantomeno fatto un favore alla causa della comunicazione in questo settore. E per quanto personalmente trovi odiosissima la massima "nel bene o nel male, purché se ne parli", ci sono casi in cui è dannatamente vera. Accosterei poi questa osservazione ad un'altra che hanno fatto in tanti: ossia che il consumo di birra artigianale è oggi significativamente cambiato rispetto all'epoca in cui sono avvenute le incursioni dell'industria nel mondo artigianale italiano (non solo quindi Birra del Borgo, ma anche Birrificio del Ducato, Birradamare e Hibu). Se infatti all'epoca il profilo di chi frequentava i pub spaziava tra gli estremi di chi beveva artigianale per pura moda - erano gli anni in cui era diventato tangibile il boom partito dopo il 2010 -, e i grandi intenditori - finanche nerd e saccenti, mi si passi i termini -, adesso la moda è passata, come ogni moda che si rispetti, e complice anche il Covid è cambiato il profilo di chi è rimasto. Al di là dei grandi intenditori - che devo dire sono pure meno saccenti, forse controparte della "semplificazione degli stili" che è seguita allo sgonfiarsi della moda e del "famola strana" (la birra) - vedo tanti che non sono necessariamente adepti o consumatori abituali, ma persone che hanno trovato un genuino interesse nel farsi anche solo ogni tanto una buona pinta artigianale semplicemente perché negli anni passati hanno avuto modo di provarla e di apprezzare l'unicità di un certo produttore. E anche se per il resto bevono birra presa al supermercato, è comunque positivo che abbiano colto il messaggio della diversità tra le due tipologie. Ad un pubblico di questo tipo, dunque, è essenziale che passi anche l'altra parte del messaggio: ossia quella inerente la diversità delle strategie tra birrifici artigianali e industriali, e che cosa significhi di conseguenza supportare con i propri acquisti gli uni piuttosto che gli altri; o che cosa significhi (come del resto per ogni altro prodotto) essere informati sulla proprietà di ciascun marchio e sulle sue politiche.Insomma, a dare un assist di rilievo alla sempre discussa comunicazione nell'ambito della birra artigianale potrebbe essere - strana ironia - proprio una multinazionale, contribuendo ad attirare l'attenzione sul settore. Certo questa attenzione deve essere ben indirizzata: se in questo caso a fare chiasso è stato fondamentalmente l'aspetto occupazionale, è chiaro che non ci si può limitare alla logora retorica della multinazionale brutta e cattiva che arriva, compra e licenzia (anche perché la situazione di fatto non è questa). Se gli artigiani sapranno sfruttare l'attenzione creata per comunicare invece le loro peculiarità - dall'unicità delle ricette e in alcuni casi delle materie prime, al legame con il territorio e con gli itinerari turistici connessi - si sarà davvero sfruttato questo assist.