Birra artigianale e Gdo: né il male né la panacea?

Il rapporto tra birra artigianale e gdo è da tempo sotto i riflettori. Tra chi lo avversa pervicacemente, a motivo dello svilimento del prodotto e dei rapporti di forza impari che si creano tra grandi gruppi e piccoli birrifici, e chi invece vi vede una via per avvicinare al mondo dell'artigianale una fetta di mercato che altrimenti vi rimarrebbe lontano, le posizioni sono antitetiche. Senza contare quelle intermedie: se c'è chi non ha remore a comparire con il proprio marchio, c'è chi invece preferisce entrarvi solo con una linea dedicata - creata in beerfirm o comunque esclusivamente per questo canale. Pochi giorni fa, entrata in un negozio della grande distribuzione, non ho potuto non buttare l'occhio sullo scaffale "birra artigianale"; dove ho trovato appunto alcune birre che rispondevano a questo secondo caso. Ho verificato in etichetta chi fossero i birrifici produttori e li ho contattati: il primo (e per ora unico) a rispondermi è stato uno che chiede di rimanere anonimo perché "Molti distributori e grossisti del mercato horeca (ossia quello tradizionale) sono pronti a eliminare dai loro listini un birrificio che si approcci troppo apertamente alla grande distribuzione". Rispetto quindi questa sua volontà, riportando semplicemente le risposte alle mie domande.Come siete arrivati alla scelta di entrare nella gdo, e come mai non con il vostro marchio?Fin dai primi anni del birrificio mi sono posto il problema di approcciare la gdo, in quanto la maggior parte dei consumi di birra avviene tramite questo canale. Per cui se si spera di raggiungere un certo equilibrio dimensionale è fondamentale valutare anche questa strada. I primi approcci sono però stati deludenti, perchè quando in una città riuscivamo a inserire la birra in un supermercato, immediatamente scattavano le lamentele del canale tradizionale: per cui alla fine dovevamo tornare sui nostri passi. Alcuni marchi più forti, ad esempio Baladin, riescono a resistere su entrambi i canali perché la popolarità raggiunta garantisce che né l'uno né l'altro li voglia perdere; purtroppo invece, per i marchi più piccoli, il mercato tradizionale vede nella difficile reperibilità del prodotto da parte dei consumatori un valore aggiunto; e quindi pretende che non si trovino facilmente (non solo nei supermercati, ma nemmeno nei bar più semplici, o in altre situazioni "easy"). Per questo motivo, almeno per ora, lasciamo che in gdo arrivino solo birre prodotte per beer firm o distributori specializzati in questo canale, lasciando le ricette e i prodotti a nostro marchio ad uso esclusivo del canale tradizionale. Questo è un grosso limite per la crescita, mentre all'estero questa dicotomia è molto meno sentita: si pensi ai mitici Brewdog per cui l'entrata nella catena di distribuzione Tesco è stata la scintalla che ha innescato la loro crescita dimensionale.Quali sono i vantaggi e quali viceversa le condizioni che la grande distribuzione impone e che possono "stare strette" ai birrifici artigianali (tempistiche delle forniture, esigenze di shelf life e conseguente qualità del prodotto, prezzo, ecc)?Per la mia esperienza non è vero che la Gdo tratta i prodotti peggio della distribuzione tradizionale. Ho riscontrato invece che molto spesso i buyer richiedono ad esempio un'analisi microbiologica del prodotto che stanno per acquistare (cosa che non mi è mai stata chiesta da un grossista), o pretendono nel contratto che vengano inviati lotti di prodotto non prima di una certa data. E' vero che la gdo non conserva la birra artigianale in celle, ma è anche vero che quasi nessun grossista lo fa: quindi il problema è comune, e il birraio deve saper scegliere quali dei suoi prodotti possono superare meglio un certo periodo a temperatura ambiente.Per quella che è la vostra esperienza sinora, ritenete possa essere un buon modo di avvicinare dei consumatori che altrimenti non proverebbero la birra artigianale, o ritenete che possa "sviare" e fare il gioco delle crafty (birre industriali che imitano le artigianali, ndr)?Credo che la birra artigianale in gdo possa avvicinare molti consumatori a questo mondo, anche se - questo è vero - per contro darà credibilità ai prodotti crafty che di solito vengono messi nello stesso comparto. Ma questa è la vita. Ci si trova a condividere gli spazi con i concorrenti, e bisogna dimostrare con la qualità del proprio prodotto che il prezzo leggermente più alto è giustificato.

Tra le cime delle Dolomiti

Qualche giorno fa è apparso Giornale della Birra un mio articolo sul birrificio Monpiër di Ortisei: al di là di quanto già scritto, aggiungo alcune considerazioni più personali riguardo al pomeriggio che ho passato lì.La visita è iniziata con l'accoglienza da parte di Thomas e la possibilità di assistere ad una piccola lezione a beneficio dei dipendenti del locale: una cosa che a La Betüla sperimentavano per la prima volta, ma che chissà, può preludere a momenti di formazione continua per cuochi e camerieri - cosa che personalmente auspico, essendo cruciale per un brewpub; e che anche solo come sperimentazione fa comunque onore alla buona volontà della squadra.Riguardo alle birre,quella che più mi è apparsa ben riuscita è stata la ale chiara Sasplat: corpo pieno di cereale, nota leggera di miele, aromi eleganti di luppoli tedeschi e finale secco di un persistente amaro floreale. Può ben rappresentare la buona riuscita dell'intento di Thomas di controllare al meglio un lievito ad alta fermentazione a temperature più basse, minimizzando la componente degli esteri, raggiungendo nel contempo un buon equilibrio e una birra pulita che ricordi le helles tedesche.In stile e senza particolari annotazioni da fare la Odles, ale ambrata dai classici toni tra il tostato e il caramello, con note di nocciola sul finale; mentre devo ammettere che mi ha lasciato qualche perplessità la weizen Meisules, volutamente fuori stile - Thomas mi ha riferito di essersi ispirato alla Die Weisse di Salisburgo. I classici aromi di banana sono infatti praticamente assenti, preferendo lasciare spazio ad una luppolatura agrumata e ad un finale citrico, forse fin troppo per i miei gusti. Certo l'intenzione era quella di fare appunto qualcosa di diverso da una weizen, e che rimanesse fresco e beverino; però ho avuto l'impressione che le varie componenti - il frumento pur ben percepibile, e la parte più agrumata sia in aroma che nel finale - tendessero a non armonizzarsi al meglio.In quanto alla cucina, i piatti erano senz'altro - oltre che gustosi - anche ben presentati - nella fattispecie abbiamo provato la tartare di manzo e le costicine di maiale alla birra. Curiosità finale, il birramisù alla Odles: non aspettatevi il classico birramisù alla stout, però comunque la Odles, con i suoi toni caramellati ma senza risultare eccessivamente zuccherina, si accompagna bene ai biscotti e alla crema.Nota di merito infine all'arredamento, curato da Diego Perathoner, e realizzato interamente con materiali di recupero: e il merito sta essenzialmente nell'aver messo insieme con gusto elementi di per sé eterogenei.Concludo con un ringraziamento a tutto lo staff de La Betüla per la calorosa accoglienza e l'ottimo servizio: un locale giovane e che in quanto tale sta ancora costruendo la sua strada, ma che senz'altro presenta buone potenzialità.

Tra le cime delle Dolomiti

Qualche giorno fa è apparso Giornale della Birra un mio articolo sul birrificio Monpiër di Ortisei: al di là di quanto già scritto, aggiungo alcune considerazioni più personali riguardo al pomeriggio che ho passato lì.La visita è iniziata con l'accoglienza da parte di Thomas e la possibilità di assistere ad una piccola lezione a beneficio dei dipendenti del locale: una cosa che a La Betüla sperimentavano per la prima volta, ma che chissà, può preludere a momenti di formazione continua per cuochi e camerieri - cosa che personalmente auspico, essendo cruciale per un brewpub; e che anche solo come sperimentazione fa comunque onore alla buona volontà della squadra.Riguardo alle birre,quella che più mi è apparsa ben riuscita è stata la ale chiara Sasplat: corpo pieno di cereale, nota leggera di miele, aromi eleganti di luppoli tedeschi e finale secco di un persistente amaro floreale. Può ben rappresentare la buona riuscita dell'intento di Thomas di controllare al meglio un lievito ad alta fermentazione a temperature più basse, minimizzando la componente degli esteri, raggiungendo nel contempo un buon equilibrio e una birra pulita che ricordi le helles tedesche.In stile e senza particolari annotazioni da fare la Odles, ale ambrata dai classici toni tra il tostato e il caramello, con note di nocciola sul finale; mentre devo ammettere che mi ha lasciato qualche perplessità la weizen Meisules, volutamente fuori stile - Thomas mi ha riferito di essersi ispirato alla Die Weisse di Salisburgo. I classici aromi di banana sono infatti praticamente assenti, preferendo lasciare spazio ad una luppolatura agrumata e ad un finale citrico, forse fin troppo per i miei gusti. Certo l'intenzione era quella di fare appunto qualcosa di diverso da una weizen, e che rimanesse fresco e beverino; però ho avuto l'impressione che le varie componenti - il frumento pur ben percepibile, e la parte più agrumata sia in aroma che nel finale - tendessero a non armonizzarsi al meglio.In quanto alla cucina, i piatti erano senz'altro - oltre che gustosi - anche ben presentati - nella fattispecie abbiamo provato la tartare di manzo e le costicine di maiale alla birra. Curiosità finale, il birramisù alla Odles: non aspettatevi il classico birramisù alla stout, però comunque la Odles, con i suoi toni caramellati ma senza risultare eccessivamente zuccherina, si accompagna bene ai biscotti e alla crema.Nota di merito infine all'arredamento, curato da Diego Perathoner, e realizzato interamente con materiali di recupero: e il merito sta essenzialmente nell'aver messo insieme con gusto elementi di per sé eterogenei.Concludo con un ringraziamento a tutto lo staff de La Betüla per la calorosa accoglienza e l'ottimo servizio: un locale giovane e che in quanto tale sta ancora costruendo la sua strada, ma che senz'altro presenta buone potenzialità.

Fvg, la birra artigianale è legge

Ebbene sì, ora è legge: il Consiglio Regionale del Friuli Venezia Giulia ha approvato ieri il già noto progetto di legge per la tutela della birra artigianale, a forma dei consiglieri Emiliano Edera e Enzo Marsilio. Con 30 voti a favore e soltanto un contrario, il testo entra ora a tutti gli effetti nel corpus normativo regionale. Come si legge nel comunicato stampa diramato, tra i punti fondamentali della legge ci sono "la promozione delle produzioni di qualità attraverso la concessione di incentivi ad hoc su infrastrutture e impianti; l'istituzione di un registro dei birrifici artigianali del Friuli Venezia Giulia, l'avvio di percorsi di formazione e aggiornamento professionale degli operatori di settore. L'Aula, prima del voto, ha perfezionato il testo approvando alcuni emendamenti; uno dei quali estende alla birra artigianale l'utilizzo del marchio Agricoltura Qualità Ambiente (AQUA), certificazione di qualità concessa dall'Ersa in presenza di specifici requisiti, tra i quali la tracciabilità totale della filiera e il ridotto raggio di sviluppo della stessa, non superiore ai 90 chilometri. Un'ulteriore modifica interessa la definizione stessa di "birra artigianale del Friuli Venezia Giulia" che potrà essere utilizzata per un ciclo produttivo svolto interamente nel territorio regionale, a eccezione non del solo processo di maltazione, ma anche della produzione del luppolo - modifica ad hoc, mi si permetta di osservare, dato che altrimenti nessun birrificio sarebbe mai potuto rientrare in tali parametri -. Viene inoltre stanziato un finanziamento complessivo di 135mila euro per le finalità previste dalle norme: 45mila euro all'anno per il triennio 2017-2019".Grande naturalmente  la soddisfazione da parte dei proponenti e dei birrai tutti; anche perché, pur in presenza di diverse proposte di legge regionale in Italia (ricordo il Veneto, il Piemonte e la Sardegna) il Fvg è il primo ad arrivare all'approvazione in aula. Ho avuto modo di contattare il consigliere Emiliano Edera, al quale ho rivolto alcune domande.Consigliere Edera, come mai, tra le tante produzioni artigianali in Regione, si è scelto di puntare proprio sulla birra?Insieme a un gruppo di consiglieri abbiamo incontrato alcuni rappresentanti dell'Associazione artigiani birrai del Friuli Venezia Giulia, che ci hanno esposto le loro esigenze. Data la forte crescita del settore, che rappresenta un fiore all'occhiello per la Regione, abbiamo ritenuto opportuno dare un quadro normativo. Che contributo ha portato la discussione in aula rispetto a quanto già avvenuto in Commissione?La modifica principale consiste nella questione del marchio: si è scelto di puntare su di uno già rigistrato come AQUA, invece di crearne uno nuovo, per evitare potenziali impugnazioni di un marchio legato al territorio - rispetto alle quali esiste peraltro già una certa giurispridenza. Lo sforzo è comunque stato quello di coprire tutti i tipi di realtà, pur in assenza di un marchio specifico.C'è poi la questione dei fondi e dei criteri con cui vengono ripartiti: 45 mila euro l'anno sono sicuramente una buona notizia, ma con oltre 30 birrifici in Regione il rischio di dare finanziamenti a pioggia o comunque in maniera non del tutto efficace è un nodo da tenere presente. Come agirete?Innanzitutto va precisato che si tratta di una cifra iniziale, per dare il via a questa legge, e contiamo di aumentare la dotazione. Per il resto, saranno i regolamenti attuativi a definire in maniera dettagliata i criteri da utilizzare. La cosa che più mi ha fatto piacere è stato che anche i diretti interessati, i birrai, durante le auduzioni hanno espresso soddisfazione: il che mi conforta rispetto al fatto che stiamo andando nella direzione giusta. Rimanete sintonizzati per il commento di Enzo Marsilio...

Fvg, la birra artigianale è legge

Ebbene sì, ora è legge: il Consiglio Regionale del Friuli Venezia Giulia ha approvato ieri il già noto progetto di legge per la tutela della birra artigianale, a forma dei consiglieri Emiliano Edera e Enzo Marsilio. Con 30 voti a favore e soltanto un contrario, il testo entra ora a tutti gli effetti nel corpus normativo regionale. Come si legge nel comunicato stampa diramato, tra i punti fondamentali della legge ci sono "la promozione delle produzioni di qualità attraverso la concessione di incentivi ad hoc su infrastrutture e impianti; l'istituzione di un registro dei birrifici artigianali del Friuli Venezia Giulia, l'avvio di percorsi di formazione e aggiornamento professionale degli operatori di settore. L'Aula, prima del voto, ha perfezionato il testo approvando alcuni emendamenti; uno dei quali estende alla birra artigianale l'utilizzo del marchio Agricoltura Qualità Ambiente (AQUA), certificazione di qualità concessa dall'Ersa in presenza di specifici requisiti, tra i quali la tracciabilità totale della filiera e il ridotto raggio di sviluppo della stessa, non superiore ai 90 chilometri. Un'ulteriore modifica interessa la definizione stessa di "birra artigianale del Friuli Venezia Giulia" che potrà essere utilizzata per un ciclo produttivo svolto interamente nel territorio regionale, a eccezione non del solo processo di maltazione, ma anche della produzione del luppolo - modifica ad hoc, mi si permetta di osservare, dato che altrimenti nessun birrificio sarebbe mai potuto rientrare in tali parametri -. Viene inoltre stanziato un finanziamento complessivo di 135mila euro per le finalità previste dalle norme: 45mila euro all'anno per il triennio 2017-2019".Grande naturalmente  la soddisfazione da parte dei proponenti e dei birrai tutti; anche perché, pur in presenza di diverse proposte di legge regionale in Italia (ricordo il Veneto, il Piemonte e la Sardegna) il Fvg è il primo ad arrivare all'approvazione in aula. Ho avuto modo di contattare il consigliere Emiliano Edera, al quale ho rivolto alcune domande.Consigliere Edera, come mai, tra le tante produzioni artigianali in Regione, si è scelto di puntare proprio sulla birra?Insieme a un gruppo di consiglieri abbiamo incontrato alcuni rappresentanti dell'Associazione artigiani birrai del Friuli Venezia Giulia, che ci hanno esposto le loro esigenze. Data la forte crescita del settore, che rappresenta un fiore all'occhiello per la Regione, abbiamo ritenuto opportuno dare un quadro normativo. Che contributo ha portato la discussione in aula rispetto a quanto già avvenuto in Commissione?La modifica principale consiste nella questione del marchio: si è scelto di puntare su di uno già rigistrato come AQUA, invece di crearne uno nuovo, per evitare potenziali impugnazioni di un marchio legato al territorio - rispetto alle quali esiste peraltro già una certa giurispridenza. Lo sforzo è comunque stato quello di coprire tutti i tipi di realtà, pur in assenza di un marchio specifico.C'è poi la questione dei fondi e dei criteri con cui vengono ripartiti: 45 mila euro l'anno sono sicuramente una buona notizia, ma con oltre 30 birrifici in Regione il rischio di dare finanziamenti a pioggia o comunque in maniera non del tutto efficace è un nodo da tenere presente. Come agirete?Innanzitutto va precisato che si tratta di una cifra iniziale, per dare il via a questa legge, e l'obiettivo è quello di aumentare la dotazione. Per il resto, saranno i regolamenti attuativi a definire in maniera dettagliata i criteri da utilizzare. La cosa che più mi ha fatto piacere è stato che anche i diretti interessati, i birrai, durante le auduzioni hanno espresso soddisfazione: il che mi conforta rispetto al fatto che stiamo andando nella direzione giusta. Ho poi avuto modo di contattare anche Enzo Marsilio, l'altro firmatario del testo.Consigliere Marsilio, lo chiedo anche lei: come mai tra le tante produzioni si è scelta la birra artigianale?Innanzitutto perché, pur essendo un settore che in quanto a dimensioni può essere considerato di nicchia, abbiamo delle punte di eccellenza che hanno ottenuto riconoscimenti anche a livello europeo; e in secondo luogo perché, se pensiamo al percorso di valorizzazione del vino che è stato fatto con successo, è ora evidente la necessità di un analogo accompagnamento da parte della Regione anche per quello birrario. Penso in particolare alla definizione di una filiera regionale, sia per il luppolo - specie ora che si sta lavorando per superare alcuni limiti normativi a livello europeo - che per l'orzo e la maltazione: un micromaltificio in Regione ci può stare, dando seguito a quelli che sono i progetti già avviati. Qual è a suo avviso il maggior punto di forza, e quale invece la criticità più significativa, di questa legge?Il maggior punto di forza è proprio il fatto stesso di aver approvato la legge: siamo la prima Regione in Italia a farlo, e questo significa trasmettere un messaggio molto forte. La maggior criticità è la mancanza, al momento, di una chiara definizione della filiera già nel testo di legge, come avrei invece auspicato. Già diversi enti, in primo luogo l'Ersa, stanno lavorando in questa direzione: penso ad esempio a ciò che già ha fatto e sta facendo per quanto riguarda l'orzo. Ora rimane da incrementare il settore del luppolo. Non sarà un percorso breve, ma aver definito questo quadro di base è comunque un punto di partenza. Quando prevede che si potrà andare a regime?I regolamenti devono essere operativi entro 180 giorni, per cui contiamo di partire entro la fine dell'anno. Sono comunque già accessibili ai birrifici sia i bandi rivolti alel aziende artigiane che, per gli agribirrifici, quelli ricolte alle aziende agricole: il che va ad aggiungersi alla dotazione economica prevista da questa legge.

Senza glutine e dintorni

Pochi giorni fa sono stata invitata dall'amica Elvira Ackermann della Squillari, importatrice per l'Italia delle birre senza glutine Green's, ad una serata sul tema del "gluten free" - sì, dirlo in inglese pare essere più quotato - organizzata a Villorba (Treviso) dalla società P&T Consulting. Trattasi di una società di consulenza specializzata nel tema del "free from" (gltuine, nello specifico): l'idea è quindi quella di offrire i propri servizi alle aziende che operano nel settore, elaborando strategie specifiche per questo comparto. Al di là delle birre Green's nello specifico, che avevo già avuto modo di conoscere al Beer Attraction come avevo scritto in questo post, la serata è stata occasione per alcuni spunti di riflessione.Partiamo dalle ovvietà, ossia che chi chiede di bere senza glutine naturalmente chiederà anche di mangiare senza glutine - vuoi cibi che ne siano naturalmente privi, vuoi quelli deglutinati: in quest'ottica ha senz'altro senso che le aziende che trattano prodotti diversi ma sotto questo minimo comun denominatore facciano squadra; e affidarsi ad una "regia unica" - che sia una società di consulenza o un altro ente - è un modo per farlo. Tanto più in un segmento come quello del senza glutine che, come è stato ricordato più volte nel corso della serata, negli ultimi anni ha visto non solo una crescita esponenziale dei consumatori ma anche delle aziende che vi sono entrate a fronte di questa domanda in crescita.E qui è uscita un'altra considerazione, che mi ha fatto riflettere. Uno degli intervenuti ha fatto notare come in un settore un tempo appannaggio di pochi piccoli produttori specializzati siano poi entrate le grandi aziende dell'alimentare. Un segmento che per queste rappresentava e rappresenta una minima percentuale del giro d'affari, ma nel quale hanno voluto essere presenti; determinando, con la loro entrata, la rottura degli equilibri con relative difficoltà per molte piccole aziende. Ma guarda un po' te, mi sono detta, questo discorso mi pare proprio di averlo già sentito: lo stesso grido d'allarme che da tempo lanciano Unionbirrai e piccoli produttori in genere, a fronte del fenomeno delle crafty e delle acquisizioni. Certo sovrapporre in toto i due casi non sarebbe del tutto corretto, però senz'altro è legittimo chiedersi fino a che punto il mondo della birra artigianale può trarre utili spunti da queste osservazioni.Mondo della birra artigianale che, peraltro, è sempre più presente anche appunto nel senza glutine (tema già lungamente dibattuto): da chi come Green's vi ha dedicato l'intera gamma, a chi vi dedica una o più referenze, anche qui la domanda è arrivata a stimolare l'offerta. Il che implica naturalmente, soprattutto per chi produce sia con che senza glutine, adottare tutti gli opportuni accorgimenti in fase produttiva con relativi costi. Insomma, non proprio una passeggiata.Venendo alle Green's nello specifico, che hanno accompagnato il buffet che è seguito (nella foto: Elvira Ackermann e Federica Felice del Birrificio Cittavecchia), ho avuto modo di aggiungere alla mia personale lista la Gutsy Dark Ale, dal color ambrato scuro e dagli intensi sapori torrefatti, con nel finale qualche nota di legno e di caramello; la Gallant Amber Ale, per certi versi la "sorella minore", dai toni dolci e fruttati ma senza indulgere sulla componente zuccherina grazie ad un finale secco. A colpirmi di più - nel bene e nel male, dato che l'ho trovata fin troppo esuberante per i miei gusti - è stata senz'altro la Gold Dry Hopped Lager, una vera e propria esplosione di frutta tropicale grazie ad una ricchissima luppolatura con Willaimette, Simcoe, Amarillo, Target e Nelson Sauvin; e che presenta un corpo che, pur estremamente snello, rimane comunque peculiare, non essendo a base di malto d'orzo ma di sorgo, miglio, grano saraceno e riso integrale. Senz'altro non una birra per puristi, ma gradevole da bere nelle giornate calde anche grazie alla chusura di un amaro leggero ma netto.Di nuovo un grazie ad Elvira e a P&T Consulting per l'invito e l'ospitalità.

Senza glutine e dintorni

Pochi giorni fa sono stata invitata dall'amica Elvira Ackermann della Squillari, importatrice per l'Italia delle birre senza glutine Green's, ad una serata sul tema del "gluten free" - sì, dirlo in inglese pare essere più quotato - organizzata a Villorba (Treviso) dalla società P&T Consulting. Trattasi di una società di consulenza specializzata nel tema del "free from" (gltuine, nello specifico): l'idea è quindi quella di offrire i propri servizi alle aziende che operano nel settore, elaborando strategie specifiche per questo comparto. Al di là delle birre Green's nello specifico, che avevo già avuto modo di conoscere al Beer Attraction come avevo scritto in questo post, la serata è stata occasione per alcuni spunti di riflessione.Partiamo dalle ovvietà, ossia che chi chiede di bere senza glutine naturalmente chiederà anche di mangiare senza glutine - vuoi cibi che ne siano naturalmente privi, vuoi quelli deglutinati: in quest'ottica ha senz'altro senso che le aziende che trattano prodotti diversi ma sotto questo minimo comun denominatore facciano squadra; e affidarsi ad una "regia unica" - che sia una società di consulenza o un altro ente - è un modo per farlo. Tanto più in un segmento come quello del senza glutine che, come è stato ricordato più volte nel corso della serata, negli ultimi anni ha visto non solo una crescita esponenziale dei consumatori ma anche delle aziende che vi sono entrate a fronte di questa domanda in crescita.E qui è uscita un'altra considerazione, che mi ha fatto riflettere. Uno degli intervenuti ha fatto notare come in un settore un tempo appannaggio di pochi piccoli produttori specializzati siano poi entrate le grandi aziende dell'alimentare. Un segmento che per queste rappresentava e rappresenta una minima percentuale del giro d'affari, ma nel quale hanno voluto essere presenti; determinando, con la loro entrata, la rottura degli equilibri con relative difficoltà per molte piccole aziende. Ma guarda un po' te, mi sono detta, questo discorso mi pare proprio di averlo già sentito: lo stesso grido d'allarme che da tempo lanciano Unionbirrai e piccoli produttori in genere, a fronte del fenomeno delle crafty e delle acquisizioni. Certo sovrapporre in toto i due casi non sarebbe del tutto corretto, però senz'altro è legittimo chiedersi fino a che punto il mondo della birra artigianale può trarre utili spunti da queste osservazioni.Mondo della birra artigianale che, peraltro, è sempre più presente anche appunto nel senza glutine (tema già lungamente dibattuto): da chi come Green's vi ha dedicato l'intera gamma, a chi vi dedica una o più referenze, anche qui la domanda è arrivata a stimolare l'offerta. Il che implica naturalmente, soprattutto per chi produce sia con che senza glutine, adottare tutti gli opportuni accorgimenti in fase produttiva con relativi costi. Insomma, non proprio una passeggiata.Venendo alle Green's nello specifico, che hanno accompagnato il buffet che è seguito (nella foto: Elvira Ackermann e Federica Felice del Birrificio Cittavecchia), ho avuto modo di aggiungere alla mia personale lista la Gutsy Dark Ale, dal color ambrato scuro e dagli intensi sapori torrefatti, con nel finale qualche nota di legno e di caramello; la Gallant Amber Ale, per certi versi la "sorella minore", dai toni dolci e fruttati ma senza indulgere sulla componente zuccherina grazie ad un finale secco. A colpirmi di più - nel bene e nel male, dato che l'ho trovata fin troppo esuberante per i miei gusti - è stata senz'altro la Gold Dry Hopped Lager, una vera e propria esplosione di frutta tropicale grazie ad una ricchissima luppolatura con Willaimette, Simcoe, Amarillo, Target e Nelson Sauvin; e che presenta un corpo che, pur estremamente snello, rimane comunque peculiare, non essendo a base di malto d'orzo ma di sorgo, miglio, grano saraceno e riso integrale. Senz'altro non una birra per puristi, ma gradevole da bere nelle giornate calde anche grazie alla chusura di un amaro leggero ma netto.Di nuovo un grazie ad Elvira e a P&T Consulting per l'invito e l'ospitalità.

La “Primavera della birra”

Ha guadagnato le pagine economiche di diversi quotidiani oggi lo studio "La birra piace sempre di più agli italiani", realizzato da Althesys per conto della Fondazione Moretti - costituita da Heiniken e Partesa - con titoli più o meno celebrativi in quanto alla situazione di salute del settore. Senza soffermarmi sulle letture a volte distorsive che alcuni miei colleghi hanno (ahimé) fatto di questi dati, sono andata a recuperarmi direttamente il testo del rapporto (datato peraltro 4 maggio: evidentemente ha suscitato l'attenzione sono in occasione della presentazione). Lasciamo da parte anche le dietrologie del tipo "l'ha commissionato Heineken": certo, lo so che l'ha commissionato Heineken, ma pur tenendone conto facciamo salva - almeno in questa sede - la buona fede dell'istituto che l'ha realizzato.Lo studio parte dalla media dei consumi pro capite registrata nel 2016: +1,6% rispetto al 2015, ossia 31,5 litri a testa. Bene l'incremento, certo, ma non tanto da giustificare toni entusiastici, dato che rimaniamo comuqnue tra i Paesi che consumano meno. Più marcata la crescita della produzione, +3,5% sul 2016, arrivando a 19 milioni di ettolitri. Non è esattamente una novità, però fa riflettere, il dato per cui le prime 10 aziende coprono l'86% del volume d'affari - stimato in 7,8 miliardi di euro totali; mentre i microbirrifici, pur cresciti esponenzialment, rimangono secondo questa ricerca al 2,1% della produzione totale. Bene l'occupazione del settore, con un +34% nel periodo 2010-2015: dato sicuramente molto influenzato da questa crescita.Dove va però questa birra? La ricerca ricorda che, per quanto l'export sia in crescita (+14% nel 2015, poco più di 2 milioni di ettolitri), il saldo commerciale è negativo - importiamo cioè più birra di quanta ne esportiamo - la birra estera conta per il 37,7% dei consumi (7 milioni di ettolitri): nemmeno questa una novità, direte voi. Il reposrt si spinge peraltro a dire che "quella che arriva dall'estero è spesso birra di qualità non eccelsa, ma molto concorrenziale dal punto di vista del prezzo finale" - allusione fin troppo scontata alla questione accise. Di qui la conclusione che "l'import continua ad essere il principale competitor per i produttori italiani".Davvero sono quindi le importazioni il "nemico"? Per la birra artigianale probabilmente meno: si tratta di un mercato che comunque ha un occhio di riguardo per i birrifici del territorio, e che per quanto vada a cercarsi l'ultima ipa di quel tal birrificio sperduto dell'Oregon tramitechissà quali canali, non disdegnerà la bottiglia del piccolo birrificio sotto casa - anzi, berra più spesso quella. Di più temono le industriali, più facilmente "intercambiabili" dal consumatore medio con alternative straniere più a buon mercato.In generale comunque, al di là degli sbandieramenti mediatici, mi pare di sentire la voce di uno dei miei cari prof di giornalismo: "Nooo! Nooo! Non - è - una - notizia!!!". Ossia: nessun cambiamento sostanziale sotto il sole, nonostante i segni più davanti alle percentuali. Insomma, la "primavera" di cui ha parlato l'ad di Heineken Italia Soren Hag, è sì e no ai primi germogli.

La “Primavera della birra”

Ha guadagnato le pagine economiche di diversi quotidiani oggi lo studio "La birra piace sempre di più agli italiani", realizzato da Althesys per conto della Fondazione Moretti - costituita da Heiniken e Partesa - con titoli più o meno celebrativi in quanto alla situazione di salute del settore. Senza soffermarmi sulle letture a volte distorsive che alcuni miei colleghi hanno (ahimé) fatto di questi dati, sono andata a recuperarmi direttamente il testo del rapporto (datato peraltro 4 maggio: evidentemente ha suscitato l'attenzione sono in occasione della presentazione). Lasciamo da parte anche le dietrologie del tipo "l'ha commissionato Heineken": certo, lo so che l'ha commissionato Heineken, ma pur tenendone conto facciamo salva - almeno in questa sede - la buona fede dell'istituto che l'ha realizzato.Lo studio parte dalla media dei consumi pro capite registrata nel 2016: +1,6% rispetto al 2015, ossia 31,5 litri a testa. Bene l'incremento, certo, ma non tanto da giustificare toni entusiastici, dato che rimaniamo comuqnue tra i Paesi che consumano meno. Più marcata la crescita della produzione, +3,5% sul 2016, arrivando a 19 milioni di ettolitri. Non è esattamente una novità, però fa riflettere, il dato per cui le prime 10 aziende coprono l'86% del volume d'affari - stimato in 7,8 miliardi di euro totali; mentre i microbirrifici, pur cresciti esponenzialment, rimangono secondo questa ricerca al 2,1% della produzione totale. Bene l'occupazione del settore, con un +34% nel periodo 2010-2015: dato sicuramente molto influenzato da questa crescita.Dove va però questa birra? La ricerca ricorda che, per quanto l'export sia in crescita (+14% nel 2015, poco più di 2 milioni di ettolitri), il saldo commerciale è negativo - importiamo cioè più birra di quanta ne esportiamo - la birra estera conta per il 37,7% dei consumi (7 milioni di ettolitri): nemmeno questa una novità, direte voi. Il reposrt si spinge peraltro a dire che "quella che arriva dall'estero è spesso birra di qualità non eccelsa, ma molto concorrenziale dal punto di vista del prezzo finale" - allusione fin troppo scontata alla questione accise. Di qui la conclusione che "l'import continua ad essere il principale competitor per i produttori italiani".Davvero sono quindi le importazioni il "nemico"? Per la birra artigianale probabilmente meno: si tratta di un mercato che comunque ha un occhio di riguardo per i birrifici del territorio, e che per quanto vada a cercarsi l'ultima ipa di quel tal birrificio sperduto dell'Oregon tramitechissà quali canali, non disdegnerà la bottiglia del piccolo birrificio sotto casa - anzi, berra più spesso quella. Di più temono le industriali, più facilmente "intercambiabili" dal consumatore medio con alternative straniere più a buon mercato.In generale comunque, al di là degli sbandieramenti mediatici, mi pare di sentire la voce di uno dei miei cari prof di giornalismo: "Nooo! Nooo! Non - è - una - notizia!!!". Ossia: nessun cambiamento sostanziale sotto il sole, nonostante i segni più davanti alle percentuali. Insomma, la "primavera" di cui ha parlato l'ad di Heineken Italia Soren Hag, è sì e no ai primi germogli.

Un bicchiere a Gourmandia

Chi segue questo blog sa che sono ormai un habitué di Santa Lucia di Piave, per quanto per una fiera diversa da quella in questione; tanto più per questo non ho potuto non fare un giro a Gourmandia, fiera ideata e curata da Davide Paolini - noto per aver coniato il termine "gastronauta", oggi marchio registrato. La fiera dà spazio all'enogastronomia in senso lato, con forte presenza soprattutto di salumifici e caseifici - stand tra i quali mi sono oltremodo dilettata alla ricerca di potenziali e fantasiosi abbinamenti, data la notevole peculiarità dei prodotti presentati -; e non mancava anche qualche birrificio e beerfirm, che ho chiaramente approfittato per conoscere.Il primo che ho incontrato è stato in realtà un'azienda agricola, l'oleificio Roi di Badalucco (Im); che fa produrre presso il birrificio Nadir di Sanremo la Montefollia, una farmhouse ale con foglie d'olivo. Di farmhouse ale ammetto che mi è sembrata avere piuttosto poco: al naso ho sentito infatti predominare i tipici toni tra il fruttato e lo speziato del lievito belga uniti - in maniera equilibrata, devo dire - al profumo delle foglie d'olivo e a note più erbacee, ricordandomi piuttosto le classiche blonde ale belghe. Corpo snello e fresco, per chiudere su un amaro in cui ritorna la foglia d'ulivo, con una persistenza erbacea tutto sommato delicata ed equilibrata. Insomma: chiamiamola farmhouse ale nella misura in cui si vuole riferire alla tradizione belga di fare birra nelle fattorie con gli ingredienti "della casa", non nel senso in cui l'etichetta è oggi comunemente intesa (tecnicamente rientrano in questa definizione saison e bière de garde, ma oggi vengono spesso chiamate così anche una serie di fermentazioni spontanee e miste non sempre e necessariamente incasellabili in questi stili).Ho poi conosciuto Birra Follina, "emanazione" dell'azienda agricola Gregoletto nata nel 2014. Ho iniziato dalla saison Follinetta; in cui, a voler essere onesti, ho trovato un troppo robusta la presenza del lievito sia all'olfatto che in bocca, imponendosi sugli altri aromi e sapori di una birra di fatto in stile. Sono poi passata alla birra d'abbazia Sanavalle, anche questa dai notevoli aromi di frutta sotto spirito e spezie tipici del lievito e qualche sentore alcolico; e che nonostante la lunga persistenza dolce di orzo caramellato che in sé pregiudicherebbe la bevibilità (che del resto non è una prerogativa dello stile), ha in questo senso dalla sua un corpo relativamente esile e un grado alcolico altrettanto relativamente basso (6 gradi), che la rendono più "abbordabile" sotto questo profilo. Da ultima la tripel Giana, a mio avviso la meglio riuscita: aromi di caramello, toffee e nocciola, senza "sbavature" alla componente lievito, con un tocco di liquirizia nel finale che aiuta a non renderla stucchevole - rischio sempre latente nelle tripel.Infine mi sono fermata alla Malti & Bassi Brew Family, curioso nome dato al beerfirm di Achille Lombardo Pijola (in riferimento all'altezza sua e della moglie), che si è formato a Birra del Borgo ed ha un passato a Eataly di Roma e Bari. Ho iniziato con la mild ale - stile poco noto, ma "progenitore" delle porter e stout - Bocca di Rosa (ogni birra porta il nome di una canzone): un delicato aroma di caramello e di tostato, lievissima luppolatura ai limiti del percettibile di magnum e cascade, corpo snello e beverino per una chiusura dolce ma non stucchevole né troppo persistente. Per gli amanti del luppolo invece la Wonderwall, una apa che al corpo morbido di avena e frumento unisce la luppolatura continua per 60 minuti di simcoe, cascade, columbus e amarillo: la componente di frutta tropicale, agrumi e resine risulta così intensa non solo all'aroma ma anche al palato, dove si amalgama senza spigolosità con i sapori del cereale che ricordano quasi il pane fresco. La chiusura rimane comunque di un amaro elegante e delicato, senza "stacchi" rispetto al resto del corpo né persistenze troppo intense. Una birra del tutto peculiare all'interno del genere - spesso accusato di essere ormai inflazionato e sovraffollato di birre piuttosto anonime -, e ben costruita nell'equilibrio complessivo.Naturalmente ci sarebbe molto altro da dire sulle conoscenze fatte a Gourmandia, ma mi fermo qui; vi aspetto presto su queste pagine per le notizie riguardo alle numerose manifestazioni e visite birrarie di questi ultimi giorni...