All’assalto delle spine di Borderline

Ok, pessima traduzione - per quanto ironica - di "Borderline tap takeover": che era il titolo della serata organizzata al Monsieur D. di Spilimbergo sabato scorso, quando sono state messe alla spina sette birre del birrificio Borderline di Buttrio. In rappresentanza del birrificio c'era Marco che, dopo l'accoglienza come sempre calorosa da parte di Paola e Cristiano, mi ha illustrato le creazioni prescelte.Siamo partiti con la Golden Ale (sulla destra, naturalmente), brassata con il malto dell'orzo coltivato a Villa Chazil: luppolatura morbida e delicata su toni floreali, corpo apparentemente scarico ma che rivela in un secondo momento sapori di cereale e di miele millefiori, prima di chiudere con un amaro appena percettibile e poco persistente. Quai "inusuale" per un birrificio come Borderline, avvezzo a giocare ben più duro sopprattutto sul fronte dei luppoli, ma personalmente ho apprezzato la sobrietà e l'armonia di questa birra. Ben più riconoscibile come "figlia" di questo birrificio è invece la Pale Ale, dalla classica luppolatura americana intensa - in cui, tra l'agrumato, il resinoso e la frutta tropicale, ho sentito spiccare soprattutto il mango - e che al corpo scarico fa seguire un amaro citrico abbastanza deciso sul finale. Non è comunque una birra che "stroppia", per cui rimane gradevole ed accessibile anche per chi è un po' allergico alle luppolature sopra le righe - sia in aroma che in amaro.In terza battuta è arrivata la Ginger Ale (sulla destra), una golden ale con zenzero e lime: sia l'agrume che la spezia sono delicati ma ben riconoscibili all'aroma, e si amalgamano piacevolmente con i toni fruttati del luppolo Eldorado; e dopo il corpo esile rimane la nota finale di zenzero, sempre tenue per coerenza. Una birra di cui ho apprezzato l'equilibrio tra le tre polarità dell'agrume, della spezia e del luppolo. Di tutt'altro genere la Ipa successiva, alla quale faccio tanto di cappello (letteralmente) per la schiuma persistente come poche: luppolatura di un agrumato intensissimo (simcoe, citra e equinox i luppoli utilizzati) in cui si notano bene però anche i profumi tra il tostato e la frutta secca del malto; e dopo un corpo che appare più scarico di quanto non sia data l'intensità degli aromi che l'hanno preceduto, arriva al retorogusto una sferzata di amaro di quelle per gli amanti dei toni forti. Personalmente l'ho trovata un po' squilibrata su quest'ultimo fronte, ma la pongo come un'opinione personale dato che nello stile e nell'insieme un finale del genere non può essere definito tout court fuori luogo.Quinta birra è stata la American Session Brown Ale (sulla sinistra), anche questa in "stile Borderline" con la generosa luppolatura di centennial, simcoe e mosaic, ma con allo stesso tempo evidenti note di cereale già all'olfatto - tra la frutta secca e il pane tostato, che permangono anche nel corpo leggero ma non evanescente. Anche la chiusura è di un amaro morbido, non troppo netto, che contrasta sì ma non sovrasta i sapori che l'hanno preceduto. "Pezzo da novanta" invece la Cream Peated Stout, una stout dalle intense note torbate già all'olfatto, che nel corpo ben robusto e pastoso si sposano con l'orzo arrostito per una birra degna dei palati forti: soprattutto perché rimane molto ben peristente, e sia in bocca che al retrolfatto. Da riconoscere c'è il fatto che per quanto intensa non appare "spigolosa", ma mantiene una certa rotondità nonostante sapori così forti.Da ultimo la Red Ale, che già avevo provato la sera prima allo Yardie in una versione diversa: questa infatti era passata da una botte di whisky del 2000. Per amor d'onestà, devo dire che avevo apprezzato di più quella della sera prima: nella seconda ho infatti percepito aromi meno intensi - anche se con il salire della temperatura qualcosa in più è arrivato, soprattutto in quanto a profumi torbati e di legno, oltre al caramello - e di conseguenza ho trovato che anche il corpo beneficiasse di meno della rosa di profumi per guadagnare in vigore. C'è da dire però che forse non l'ho degustata nella migliore delle condizioni, avendola bevuta dopo una birra dai sapori forti come la torbata ed essendo ormai la settima - c'è chi dice che dalla quinta in poi hanno tutte lo stesso sapore. E no, lo giuro, non ero ubriaca, chi c'era m'è testimone.Chiudo rinnovando il ringraziamento a Mauro, Paola e Cristiano, sia per l'accoglienza che per la professionalità nel servizio.

Una serata allo Yardie, parte seconda

Ieri sera si è tenuta alla Yardie di Pradamano la seconda edizione della Festa della birra artigianale e locale, a cui con piacere avevo partecipato lo scorso luglio (chi non se la ricordasse, clicchi qui); e con piacere sono tornata, mossa dalla curiosità di provare alcune novità che erano state preannunciate.Nel corso di una piacevole chiacchierata con Antonio, mastro birraio di Villa Chazil, ho assaggiato la loro nuova blonde ale alla canapa (coltivata a Pantianicco, a conferma della volontà di usare prodotti locali in quanto agribirrificio) battezzata Code Buie - "Coda buia" in friulano, nome con cui si indica la tromba d'aria. In primo luogo c'è da dire che fare una birra alla canapa è stata in qualche misura una scelta coraggiosa, perché in Friuli quando dici canapa dici Zahre: e andare a confrontarsi con una delle "pietre miliari" in Regione, che da più di quindici anni fa questa birra con successo, chiaramente presentava una buona dose di rischio. E in questo senso ha fatto onore ad Antonio e collaboratori il fatto di non aver voluto fare un'imitazione, anzi: la Code Buie, detta senza mezzi termini, della Canapa di Zhare non è manco parente, rendendo riconoscibile il tocco di Villa Chazil. Innanzitutto stiamo parlando di una ale, mentre l'altra è una lager: partiamo quindi da due basi diverse, che rendono difficile nonché improprio fare confronti - ma a me è comunque venuto spontaneo farli, e mi perdoneranno i birrai. Se nella birra di Zahre la canapa è più delicata, tanto da apparire a livello di aroma un complemento della luppolatura, nella Code Buie è molto più intensa tanto da costituire da sé la caratterizzazione portante; e la fa da padrona anche nel corpo scarico e dolce, con note tra l'erbaceo, il miele e il sambuco (sì, a me ha ricordato quello). La chiusura è leggera e quasi evanescente, quasi assente l'amaro: e questo è stato infatti l'appunto che ho fatto ad Antonio, e su cui lui ha concordato - annunciando per le cotte future una maggior dose di luppolo in amaro. Sono anche altre le novità che si preannunciano a Villa Chazil: è infatti in arrivo la birra con il loro luppolo fresco, che attendo con ansia di assaggiare, nonché la macchina per la raccolta del luppolo.Ho poi provato l'ultima nata di casa Galassia, la belgian stout Maan ("Luna" in fiammigo, proseguendo la tradizione di dare nomi di astri alle loro birre). La definizione "belgian stout" viene dall'utilizzo di lievito belga; ma, al di là di questo, la si direbbe la classica "imperial stout bella tosta", con intensissimi aromi liquorosi di liquirizia e caffè; che proseguono nel corpo ben robusto, in cui spiccano anche le fave di cacao prima di una chiusura inusualmente amara secca per lo stile. E qui Davide mi ha spiegato dove sta il trucco, che è appunto l'utilizzo del lievito belga: che a suo dire attenua il 20% in più di quelli usati generalmente per le stout, consentendo di andarci con mano più pesante sul corpo per avere una birra ancor più ricca in quanto ad aromi e sapori senza ottenere quello che lui ha definito "un budino". Per gli amanti del genere la annovererei tra le birre da provare almeno una volta, pur con parsimonia dati i quasi 10 gradi alcolici.Da ultimo ho assaggiato la Red Ale di Borderline, nella versione barricata in botti di whisky dell'87. Trattasi di una ale di 5,6 gradi, rimasta in botte poco meno di tre mesi; ma risaltano comunque bene al naso i profumi di legno e di whisky, con una lieve nota torbata e di uvetta, in un insieme morbido e armonico. Il corpo, pur essendo relativamente scarico (personalmente, dopo un aroma di quel genere, me lo sarei aspettato più robusto) data anche la bassa gradazione, appare comunque più alcolico di quanto non sia date le note liquorose e di frutta sotto spirito; e va poi a chiudere in maniera tenue, senza le note alcoliche finali che caratterizzano altre barricate di questa impronta. Per chi ama tutti gli stili che bene o male abbiano a che fare col whisky e con le botti - dai barley wine in giù -, ma vorrebbe tanto poterne bere in quantità più generosa senza trovarsi la gola riarsa (e la patente ritirata all'uscita dal locale).Una menzione, infine, anche per gli altri birrifici presenti - Antica Contea, Pighi Craft Beer, Campestre, The Lure, Zanna Beer, Foglie d'Erba e Garlatti Costa, in ordine rigorosamente casuale); e per il locale, che anche questa volta ha saputo organizzare una piacevole serata.

Una serata allo Yardie, parte seconda

Ieri sera si è tenuta alla Yardie di Pradamano la seconda edizione della Festa della birra artigianale e locale, a cui con piacere avevo partecipato lo scorso luglio (chi non se la ricordasse, clicchi qui); e con piacere sono tornata, mossa dalla curiosità di provare alcune novità che erano state preannunciate.Nel corso di una piacevole chiacchierata con Antonio, mastro birraio di Villa Chazil, ho assaggiato la loro nuova blonde ale alla canapa (coltivata a Pantianicco, a conferma della volontà di usare prodotti locali in quanto agribirrificio) battezzata Code Buie - "Coda buia" in friulano, nome con cui si indica la tromba d'aria. In primo luogo c'è da dire che fare una birra alla canapa è stata in qualche misura una scelta coraggiosa, perché in Friuli quando dici canapa dici Zahre: e andare a confrontarsi con una delle "pietre miliari" in Regione, che da più di quindici anni fa questa birra con successo, chiaramente presentava una buona dose di rischio. E in questo senso ha fatto onore ad Antonio e collaboratori il fatto di non aver voluto fare un'imitazione, anzi: la Code Buie, detta senza mezzi termini, della Canapa di Zhare non è manco parente, rendendo riconoscibile il tocco di Villa Chazil. Innanzitutto stiamo parlando di una ale, mentre l'altra è una lager: partiamo quindi da due basi diverse, che rendono difficile nonché improprio fare confronti - ma a me è comunque venuto spontaneo farli, e mi perdoneranno i birrai. Se nella birra di Zahre la canapa è più delicata, tanto da apparire a livello di aroma un complemento della luppolatura, nella Code Buie è molto più intensa tanto da costituire da sé la caratterizzazione portante; e la fa da padrona anche nel corpo scarico e dolce, con note tra l'erbaceo, il miele e il sambuco (sì, a me ha ricordato quello). La chiusura è leggera e quasi evanescente, quasi assente l'amaro: e questo è stato infatti l'appunto che ho fatto ad Antonio, e su cui lui ha concordato - annunciando per le cotte future una maggior dose di luppolo in amaro. Sono anche altre le novità che si preannunciano a Villa Chazil: è infatti in arrivo la birra con il loro luppolo fresco, che attendo con ansia di assaggiare, nonché la macchina per la raccolta del luppolo.Ho poi provato l'ultima nata di casa Galassia, la belgian stout Maan ("Luna" in fiammigo, proseguendo la tradizione di dare nomi di astri alle loro birre). La definizione "belgian stout" viene dall'utilizzo di lievito belga; ma, al di là di questo, la si direbbe la classica "imperial stout bella tosta", con intensissimi aromi liquorosi di liquirizia e caffè; che proseguono nel corpo ben robusto, in cui spiccano anche le fave di cacao prima di una chiusura inusualmente amara secca per lo stile. E qui Davide mi ha spiegato dove sta il trucco, che è appunto l'utilizzo del lievito belga: che a suo dire attenua il 20% in più di quelli usati generalmente per le stout, consentendo di andarci con mano più pesante sul corpo per avere una birra ancor più ricca in quanto ad aromi e sapori senza ottenere quello che lui ha definito "un budino". Per gli amanti del genere la annovererei tra le birre da provare almeno una volta, pur con parsimonia dati i quasi 10 gradi alcolici.Da ultimo ho assaggiato la Red Ale di Borderline, nella versione barricata in botti di whisky dell'87. Trattasi di una ale di 5,6 gradi, rimasta in botte poco meno di tre mesi; ma risaltano comunque bene al naso i profumi di legno e di whisky, con una lieve nota torbata e di uvetta, in un insieme morbido e armonico. Il corpo, pur essendo relativamente scarico (personalmente, dopo un aroma di quel genere, me lo sarei aspettato più robusto) data anche la bassa gradazione, appare comunque più alcolico di quanto non sia date le note liquorose e di frutta sotto spirito; e va poi a chiudere in maniera tenue, senza le note alcoliche finali che caratterizzano altre barricate di questa impronta. Per chi ama tutti gli stili che bene o male abbiano a che fare col whisky e con le botti - dai barley wine in giù -, ma vorrebbe tanto poterne bere in quantità più generosa senza trovarsi la gola riarsa (e la patente ritirata all'uscita dal locale).Una menzione, infine, anche per gli altri birrifici presenti - Antica Contea, Pighi Craft Beer, Campestre, The Lure, Zanna Beer, Foglie d'Erba e Garlatti Costa, in ordine rigorosamente casuale); e per il locale, che anche questa volta ha saputo organizzare una piacevole serata.

Mastro Birraio a Pordenone, secondo weekend: le altre novità

Il mio secondo fine settimana in Fiera è iniziato con una visita dai ragazzi di Chianti Brew Fighters, birrificio - come dice il nome stesso - della zona del Chianti, aperto da quattro mesi. Quattro come le birre che hanno portato - insieme ad una ventata di simpatia, bisogna riconoscerlo - e che, nella loro volontà di "mettere la toscanità" anche nelle loro birre, hanno stampato una citazione dalla Divina Commedia su tutte le etichette: basti dire che la loro stout, e quindi "oscura", è stata battezzata Selva. Ho iniziato dalla Serpe, una California Common, stile non molto battuto dai microbirrifici - che ha la particolarità di utilizzare un lievito da bassa fermentazione a temperature elevate: profumo di mou in cui è ben percepibile anche il lievito - forse un po' troppo per i miei gusti in realtà, ma non a livelli esagerati - , corpo pieno sempre su questi toni, seguito da un finale più secco di quanto ci si sarebbe potuti aspettare. E infatti la buona attenuazione per amor di bevibilità - oltre che la carbonatazione sobria - è uno dei capisaldi dei Chianti Brew Fighters: anche nel caso della Bestemmia, una belgian strong ale da otto gradi a cui se ne darebbero sì e no la metà, con profumi tra la crosta di pane, il fruttato e lo speziato da lievito come d'ordinanza, per un corpo in cui i toni dolci di caramello e frutta secca rimangono comunque moderati prima di un finale secco e pulito per lo stile. A colpirmi è stata però più di tutto la Selva, una stout che - mi avevano avvisato - "non è per niente dolce, abbiamo voluto farla così": nonostante il corpo non eccessivamente robusto, in un secondo momento arrivano in bocca intensissime note tostate tra il caffè, la liquirizia e i semi di cacao "puri", che già all'aroma si erano fatti sentire, ma solo verso la chiusura - e nella buona persistenza, nonché al retrolfatto - esprimono tutta la loro forza pur mantenendo l'equilibrio. Amanti del caffè rigorosamente senza zucchero e del cioccolato rigorosamente fondente nero, fatevi avanti. Scherzi a parte, i ragazzi del Chianti mi hanno dato l'impressione di essere sì ai primi passi ma di aver posto buone basi per una futura crescita, anche perché - eccezione forse per la California Common - hanno saputo lavorare su stili sì classici e consolidati, ma dando la loro interpretazione senza pasticciarla: dote non sempre scontata in chi ha appunto iniziato da poco. Nei loro progetti per il futuro, venendo da una terra di vino "a cui però vogliamo proporre anche la birra", manco a dirlo c'è una Grape Ale: che a questo punto attendo con fiducia.Sono poi passata da Della Granda, per il quale non basterebbero tre post dato che il parco birre che mi ha tirato fuori il buon Luca era di quelli da far impallidire. Mi limito quindi a citarne un paio, nella fattispecie la Lips - una gose semplice e delicata (stile originario di Lipsia, da cui il nome), accessibile anche a chi si accosta a questo genere per la prima volta, e che si è aggiudicata il titolo di miglior gose italiana ai World Beer Awards - e la Alchemy, una Grape Ale con Moscato: man mano che si scalda emergono sempre più evidenti e intensi i profumi caldi e dolci del vino, ma al palato i sapori dati dal mosto fanno più da sfondo e accompagnamento al vigoroso corpo maltato che da protagonisti: insomma, rimane una birra, in un equilibrio tra le due componenti - malto e mosto - che personalmente ho apprezzato; così come è apprezzabile l'attenuazione relativamente buona per una birra di questo genere, tanto che i nove gradi non si sentono affatto. Luca ha anche preannunciato un'altra novità barricata, per cui non resta che attendere con ansia.Sosta successiva è stata al Santjago dove ho provato la nuova Doré Royal, una red ale aromatizzata al coriandolo: personalmente ho trovato che, sia all'aroma che poi in particolare nel retrogusto e retrolfatto, la spezia fosse un po' troppo intensa tanto da arrivare a cozzare - mentre al palato, nella parte centrale della bevuta, tende più ad amalgamarsi con la dolcezza caramellata del malto; opinione che, naturalmente, potrebbe non essere condivisa dagli amanti del coriandolo. Da Barbanera ho invece trovato la Ora d'Ora, una apa dagli aromi delicati tra il fruttato e l'agrumato come da manuale, e dal corpo più scarico e finale più evanescente rispetto ad altre dello stile: caratteristica che mi è stata presentata come voluta, nell'intento di garantire maggior bevibilità - anche se personalmente avrei gradito magari un po' più di vigore, giocando su altri fattori per "pulire" la chiusura. Comunque fresca e dissetante, su questo non c'è dubbio.Da ultimo - ma non per importanza - Rattabrew, dove mi sono lanciata in una curiosa degustazione all'incontrario: perché - complici le chiacchiere con Chiara, che ringrazio - tutto è iniziato volendo assaggiare la birra natalizia e quindi la più forte, ma poi le novità erano anche altre e quindi "come non approfittarne". La DeNadae, infatti, è ciò che in maniera un po' triviale si potrebbe definire "tanta roba": una base di dark ale con miele di acacia e millefiori, maturata in botti di whisky del 73. E all'aroma infatti escono in tutta la loro forza le note liquorose e di legno, con una lieve ossidazione di fondo; mentre in bocca arrivano i toni dolci di whisky e quasi di vaniglia, complice il miele, prima di un finale liquoroso e ben persistente. Per palati forti, ma che può dare grandi soddisfazioni agli amanti del genere. A seguire c'è stata la Imperatrice, una una Imperial Ipa equilibrata e secca, che sotto i profumi agrumati e resinosi cela un corpo beverino che maschera bene i suoi 8 gradi; e infine - eresia! - la nuova versione della Jesse White, una Belgian Wheat con pepe rosa macinato, in cui la spezia non risulta invasiva grazie all'armonizzazione con la scorza d'arancia e il coriandolo.E qui mi fermo, almeno per ora: da Pordenone mi è infatti rimasta "in eredità" qualche bottiglia da provare...per cui rimanete sintonizzati!

Mastro Birraio a Pordenone, secondo weekend: le altre novità

Il mio secondo fine settimana in Fiera è iniziato con una visita dai ragazzi di Chianti Brew Fighters, birrificio - come dice il nome stesso - della zona del Chianti, aperto da quattro mesi. Quattro come le birre che hanno portato - insieme ad una ventata di simpatia, bisogna riconoscerlo - e che, nella loro volontà di "mettere la toscanità" anche nelle loro birre, hanno stampato una citazione dalla Divina Commedia su tutte le etichette: basti dire che la loro stout, e quindi "oscura", è stata battezzata Selva. Ho iniziato dalla Serpe, una California Common, stile non molto battuto dai microbirrifici - che ha la particolarità di utilizzare un lievito da bassa fermentazione a temperature elevate: profumo di mou in cui è ben percepibile anche il lievito - forse un po' troppo per i miei gusti in realtà, ma non a livelli esagerati - , corpo pieno sempre su questi toni, seguito da un finale più secco di quanto ci si sarebbe potuti aspettare. E infatti la buona attenuazione per amor di bevibilità - oltre che la carbonatazione sobria - è uno dei capisaldi dei Chianti Brew Fighters: anche nel caso della Bestemmia, una belgian strong ale da otto gradi a cui se ne darebbero sì e no la metà, con profumi tra la crosta di pane, il fruttato e lo speziato da lievito come d'ordinanza, per un corpo in cui i toni dolci di caramello e frutta secca rimangono comunque moderati prima di un finale secco e pulito per lo stile. A colpirmi è stata però più di tutto la Selva, una stout che - mi avevano avvisato - "non è per niente dolce, abbiamo voluto farla così": nonostante il corpo non eccessivamente robusto, in un secondo momento arrivano in bocca intensissime note tostate tra il caffè, la liquirizia e i semi di cacao "puri", che già all'aroma si erano fatti sentire, ma solo verso la chiusura - e nella buona persistenza, nonché al retrolfatto - esprimono tutta la loro forza pur mantenendo l'equilibrio. Amanti del caffè rigorosamente senza zucchero e del cioccolato rigorosamente fondente nero, fatevi avanti. Scherzi a parte, i ragazzi del Chianti mi hanno dato l'impressione di essere sì ai primi passi ma di aver posto buone basi per una futura crescita, anche perché - eccezione forse per la California Common - hanno saputo lavorare su stili sì classici e consolidati, ma dando la loro interpretazione senza pasticciarla: dote non sempre scontata in chi ha appunto iniziato da poco. Nei loro progetti per il futuro, venendo da una terra di vino "a cui però vogliamo proporre anche la birra", manco a dirlo c'è una Grape Ale: che a questo punto attendo con fiducia.Sono poi passata da Della Granda, per il quale non basterebbero tre post dato che il parco birre che mi ha tirato fuori il buon Luca era di quelli da far impallidire. Mi limito quindi a citarne un paio, nella fattispecie la Lips - una gose semplice e delicata (stile originario di Lipsia, da cui il nome), accessibile anche a chi si accosta a questo genere per la prima volta, e che si è aggiudicata il titolo di miglior gose italiana ai World Beer Awards - e la Alchemy, una Grape Ale con Moscato: man mano che si scalda emergono sempre più evidenti e intensi i profumi caldi e dolci del vino, ma al palato i sapori dati dal mosto fanno più da sfondo e accompagnamento al vigoroso corpo maltato che da protagonisti: insomma, rimane una birra, in un equilibrio tra le due componenti - malto e mosto - che personalmente ho apprezzato; così come è apprezzabile l'attenuazione relativamente buona per una birra di questo genere, tanto che i nove gradi non si sentono affatto. Luca ha anche preannunciato un'altra novità barricata, per cui non resta che attendere con ansia.Sosta successiva è stata al Santjago dove ho provato la nuova Doré Royal, una red ale aromatizzata al coriandolo: personalmente ho trovato che, sia all'aroma che poi in particolare nel retrogusto e retrolfatto, la spezia fosse un po' troppo intensa tanto da arrivare a cozzare - mentre al palato, nella parte centrale della bevuta, tende più ad amalgamarsi con la dolcezza caramellata del malto; opinione che, naturalmente, potrebbe non essere condivisa dagli amanti del coriandolo. Da Barbanera ho invece trovato la Ora d'Ora, una apa dagli aromi delicati tra il fruttato e l'agrumato come da manuale, e dal corpo più scarico e finale più evanescente rispetto ad altre dello stile: caratteristica che mi è stata presentata come voluta, nell'intento di garantire maggior bevibilità - anche se personalmente avrei gradito magari un po' più di vigore, giocando su altri fattori per "pulire" la chiusura. Comunque fresca e dissetante, su questo non c'è dubbio.Da ultimo - ma non per importanza - Rattabrew, dove mi sono lanciata in una curiosa degustazione all'incontrario: perché - complici le chiacchiere con Chiara, che ringrazio - tutto è iniziato volendo assaggiare la birra natalizia e quindi la più forte, ma poi le novità erano anche altre e quindi "come non approfittarne". La DeNadae, infatti, è ciò che in maniera un po' triviale si potrebbe definire "tanta roba": una base di dark ale con miele di acacia e millefiori, maturata in botti di whisky del 73. E all'aroma infatti escono in tutta la loro forza le note liquorose e di legno, con una lieve ossidazione di fondo; mentre in bocca arrivano i toni dolci di whisky e quasi di vaniglia, complice il miele, prima di un finale liquoroso e ben persistente. Per palati forti, ma che può dare grandi soddisfazioni agli amanti del genere. A seguire c'è stata la Imperatrice, una una Imperial Ipa equilibrata e secca, che sotto i profumi agrumati e resinosi cela un corpo beverino che maschera bene i suoi 8 gradi; e infine - eresia! - la nuova versione della Jesse White, una Belgian Wheat con pepe rosa macinato, in cui la spezia non risulta invasiva grazie all'armonizzazione con la scorza d'arancia e il coriandolo.E qui mi fermo, almeno per ora: da Pordenone mi è infatti rimasta "in eredità" qualche bottiglia da provare...per cui rimanete sintonizzati!

Mastro Birraio a Pordenone, secondo weekend: le prime novità

Data la grande mole di novità presenti - almeno per me - in questo secondo weekend di Mastro Birraio a Pordenone, già da ora inizio a fare il mio resoconto. La serata di ieri è infatti iniziata con una nuova conoscenza, la Brasseria della Fonte di Pienza, che ha aperto lo scorso giugno con birrificio, negozio e tap room. Samuele mi ha guidata in una panoramica sulle sue birre: alle fisse di linea più classica - una apa, una ale rossa, una porter e una scotch ale - si aggiungono altrettante stagionali. Quella disponibile ora è la Freshoops, una ipa brassata con i luppoli provenienti dal luppoleto della casa - 430 piante - e messi già nel mash, come mi ha spiegato Samuele, perché rilascino le loro resine a temperatura più bassa rispetto alla bollitura. Il risultato è una birra leggera, delicata e fresca, in cui la luppolatura "importante" ma morbida dai toni tra il resinoso e il fruttato viene supportata, man mano che la temperatura sale, dal cereale biscottato (nella ricetta c'è anche malto Vienna) nel corpo. Il finale è di un amaro secco e non invasivo, ma ben persistente, che lascia la bocca ben pulita. Un birrificio giovane, insomma, ma di buone promesse.Altra nuova conoscenza è stato il birrificio Campi Flegrei, della zona di Napoli, aperto nel 2015. Un birrificio che tiene al legame col territorio sia perché usa malti italiani (provenienti da una coltivazione in provincia di Piacenza), sia perché nelle birre mette prodotti locali: come il miele di agrumi di un apicultore della zona nella ale rossa Rame 15, e i limoni del giardino del birraio nella apa Oro 15. Ho assaggiato appunto quest'ultima: a cui va riconosciuto il merito di amalgamare con eleganza l'agrumato dei luppoli a quello del limone, così che il secondo non sovrasta ma accompagna il primo.Tra le nuove aperture di quest'anno c'è poi il Forgotten Beer di Salgareda, beerfirm che si appoggia a Sognandobirra: e che proprio con Sognandobirra ha elaborato alcune ricette in collaborazione. Raffaele me ne ha però presentata una di "totalmente" sua, la apa Coboldo: alla luppolatura all'americana d'ordinanza, delicata come si conviene ad una apa, fa da contrappunto una dolcezza abbastanza spiccata, quasi mielosa, nel corpo: forse un po' eccessiva, a mio modo di vedere, per quanto non sgradevole né stucchevole - rimane infatti una birra fresca e facile a bersi. Da tempo aspettavo poi di assaggiare la nuova nata di casa Jeb, la apa Never Say Never: perché Chiara aveva detto che una apa non l'avrebbe mai fatta, ma mai dire mai. Si tratta di una apa in stile, "da manuale", semplice e pulita: però devo dire, come in effetti ho confidato anche a Chiara, che qui non riconosco - probabilmente perché si tratta di uno stile non del tutto nelle sue corde, e quindi ha preferito evitare di lanciarsi in magari improbabili personalizzazioni - la sua mano. Il che non va a sminuire la qualità della birra, anzi: meglio una birra fatta bene senza volerci mettere del proprio, che una personalizzata ma pasticciata perché ci si è mossi su un terreno con cui non si ha la giusta sintonia e confidenza. Una semplice constatazione dunque, che pongo come tale.Ho poi ritrovato gli amici di Baracca Beer, che portavano due novità: la Pumpkin Ale con zucca violino, cannella, chiodi di garofano e noce moscata e la Glerale, una Iga con uva Glera. Nella prima la dolcezza della zucca risulta equilibrata anche perché bilanciata dalla speziatura importante, a cui si aggiungono i sentori pepati del lievito: amanti della cannella e della noce moscata fatevi avanti, perché qui c'è materiale per voi. Della Glerale è interessante sopratttto osservare l'evoluzione con la temperatura: se all'inizio è emerso soprattutto il profumo del lievito belga, man mano arrivano anche il fruttato dell'uva e le note di miele, sia all'olfatto che all'interno di un corpo ben robusto. Da segnalare anche i cioccolatini alla strong ale Extasy, opera della Bottega del Dolce - che già si è cimentata con successo in ricette analoghe con la Winternest di Luckybrews.Si sapeva poi che in quanto ad ipa la fantasia si sbizzarrisce, ma la "High Temperature Ipa" mi mancava: lacuna che ho colmato con la TropikAle di Legnone, fatta fermentare a temperatura particolarmente elevata e infustata in isobarica, che si distingue - come il nome stesso fa intuire - per i profumi di frutta tropicale particolarmente intensi sottolineati (così mi ha spiegato Giulio) da questo particolare metodo di lavorazione - e complice anche il luppolo Mosaic in dry hopping. Pericolosamente beverina, dato che il corpo - pur carico il giusto, per sostenere una luppolatura così importante - tende ad apparire più esile di quello che è, e il finale agrumato pulisce bene la bocca.Ho ritrovato infine gli amici di Calibro22, che mi hanno presentato la loro nuova West Coast Ipa One Shot e la Scottish Ale. La prima è una ipa in stile, senza particolari fronzoli, e dal corpo parecchio scarico nonostante i 6,5 gradi alcolici; la seconda è assai peculiare all'interno del genere posto che, come il biraio stesso ha riconosciuto in risposta alle mie osservazioni, ai classici toni caramellati e di whisky dello stile si accompagna un corpo scarico e un finale ben secco e attenuato: che sicuramente incoraggia a berla, ma risulta forse eccessivo per una Scottish Ale.Ultima nota per un birrificio che certo non ha bisogno di presentazioni, il Birrificio Italiano: ho infatti particolarmente apprezzato la loro weizen scura VuDù, che ai caratteristici aromi di banana amalgama in maniera soprendentemente armoniosa quelli tostati e di toffee.Stasera si ricomincia, rimanete sintonizzati...

Mastro Birraio a Pordenone, secondo weekend: le prime novità

Data la grande mole di novità presenti - almeno per me - in questo secondo weekend di Mastro Birraio a Pordenone, già da ora inizio a fare il mio resoconto. La serata di ieri è infatti iniziata con una nuova conoscenza, la Brasseria della Fonte di Pienza, che ha aperto lo scorso giugno con birrificio, negozio e tap room. Samuele mi ha guidata in una panoramica sulle sue birre: alle fisse di linea più classica - una apa, una ale rossa, una porter e una scotch ale - si aggiungono altrettante stagionali. Quella disponibile ora è la Freshoops, una ipa brassata con i luppoli provenienti dal luppoleto della casa - 430 piante - e messi già nel mash, come mi ha spiegato Samuele, perché rilascino le loro resine a temperatura più bassa rispetto alla bollitura. Il risultato è una birra leggera, delicata e fresca, in cui la luppolatura "importante" ma morbida dai toni tra il resinoso e il fruttato viene supportata, man mano che la temperatura sale, dal cereale biscottato (nella ricetta c'è anche malto Vienna) nel corpo. Il finale è di un amaro secco e non invasivo, ma ben persistente, che lascia la bocca ben pulita. Un birrificio giovane, insomma, ma di buone promesse.Altra nuova conoscenza è stato il birrificio Campi Flegrei, della zona di Napoli, aperto nel 2015. Un birrificio che tiene al legame col territorio sia perché usa malti italiani (provenienti da una coltivazione in provincia di Piacenza), sia perché nelle birre mette prodotti locali: come il miele di agrumi di un apicultore della zona nella ale rossa Rame 15, e i limoni del giardino del birraio nella apa Oro 15. Ho assaggiato appunto quest'ultima: a cui va riconosciuto il merito di amalgamare con eleganza l'agrumato dei luppoli a quello del limone, così che il secondo non sovrasta ma accompagna il primo.Tra le nuove aperture di quest'anno c'è poi il Forgotten Beer di Salgareda, beerfirm che si appoggia a Sognandobirra: e che proprio con Sognandobirra ha elaborato alcune ricette in collaborazione. Raffaele me ne ha però presentata una di "totalmente" sua, la apa Coboldo: alla luppolatura all'americana d'ordinanza, delicata come si conviene ad una apa, fa da contrappunto una dolcezza abbastanza spiccata, quasi mielosa, nel corpo: forse un po' eccessiva, a mio modo di vedere, per quanto non sgradevole né stucchevole - rimane infatti una birra fresca e facile a bersi. Da tempo aspettavo poi di assaggiare la nuova nata di casa Jeb, la apa Never Say Never: perché Chiara aveva detto che una apa non l'avrebbe mai fatta, ma mai dire mai. Si tratta di una apa in stile, "da manuale", semplice e pulita: però devo dire, come in effetti ho confidato anche a Chiara, che qui non riconosco - probabilmente perché si tratta di uno stile non del tutto nelle sue corde, e quindi ha preferito evitare di lanciarsi in magari improbabili personalizzazioni - la sua mano. Il che non va a sminuire la qualità della birra, anzi: meglio una birra fatta bene senza volerci mettere del proprio, che una personalizzata ma pasticciata perché ci si è mossi su un terreno con cui non si ha la giusta sintonia e confidenza. Una semplice constatazione dunque, che pongo come tale.Ho poi ritrovato gli amici di Baracca Beer, che portavano due novità: la Pumpkin Ale con zucca violino, cannella, chiodi di garofano e noce moscata e la Glerale, una Iga con uva Glera. Nella prima la dolcezza della zucca risulta equilibrata anche perché bilanciata dalla speziatura importante, a cui si aggiungono i sentori pepati del lievito: amanti della cannella e della noce moscata fatevi avanti, perché qui c'è materiale per voi. Della Glerale è interessante sopratttto osservare l'evoluzione con la temperatura: se all'inizio è emerso soprattutto il profumo del lievito belga, man mano arrivano anche il fruttato dell'uva e le note di miele, sia all'olfatto che all'interno di un corpo ben robusto. Da segnalare anche i cioccolatini alla strong ale Extasy, opera della Bottega del Dolce - che già si è cimentata con successo in ricette analoghe con la Winternest di Luckybrews.Si sapeva poi che in quanto ad ipa la fantasia si sbizzarrisce, ma la "High Temperature Ipa" mi mancava: lacuna che ho colmato con la TropikAle di Legnone, fatta fermentare a temperatura particolarmente elevata e infustata in isobarica, che si distingue - come il nome stesso fa intuire - per i profumi di frutta tropicale particolarmente intensi sottolineati (così mi ha spiegato Giulio) da questo particolare metodo di lavorazione - e complice anche il luppolo Mosaic in dry hopping. Pericolosamente beverina, dato che il corpo - pur carico il giusto, per sostenere una luppolatura così importante - tende ad apparire più esile di quello che è, e il finale agrumato pulisce bene la bocca.Ho ritrovato infine gli amici di Calibro22, che mi hanno presentato la loro nuova West Coast Ipa One Shot e la Scottish Ale. La prima è una ipa in stile, senza particolari fronzoli, e dal corpo parecchio scarico nonostante i 6,5 gradi alcolici; la seconda è assai peculiare all'interno del genere posto che, come il biraio stesso ha riconosciuto in risposta alle mie osservazioni, ai classici toni caramellati e di whisky dello stile si accompagna un corpo scarico e un finale ben secco e attenuato: che sicuramente incoraggia a berla, ma risulta forse eccessivo per una Scottish Ale.Ultima nota per un birrificio che certo non ha bisogno di presentazioni, il Birrificio Italiano: ho infatti particolarmente apprezzato la loro weizen scura VuDù, che ai caratteristici aromi di banana amalgama in maniera soprendentemente armoniosa quelli tostati e di toffee.Stasera si ricomincia, rimanete sintonizzati...

Mastro Birraio a Pordenone: il primo weekend

Anche quest'anno ho presenziato con grande piacere alla Fiera della Birra Artigianale di Pordenone, in corso tra lo scorso weekend e il prossimo; e ho così avuto modo di incontrare i primi venti birrifici. Per la verità erano tutti già a me noti a parte uno, il Lariano; ma non sono comunque mancate le novità - e mi soffermerò dunque su quelle, senza per questo nulla togliere agli altri.La prima che ho provato è stata la nuova Limited Edition del Benaco 70, la Smoked Porter - una porter affumicata, come il nome stesso fa capire. Come già ho anticipato nel post sulla mia pagina Facebook, il primo aggettivo che mi è venuto in mente è "morbida": all'aroma l'affumicato è si percepibile ma si amalgama bene con le note tostate, e anche nel corpo - scarico ma non evanescente, come si addice allo stile - la nota di brace rimane elegante e delicata. La peculiarità che ho trovato è come questa "giochi" con i sapori del malto chocolate, che arrivano solo in seconda battuta: e se in sé e per sé sembrerebbero cozzare, il passaggio tra l'uno e l'altro è armonioso, dando anche qui quasi l'impressione di amalgamarsi. Del resto, quella di fare un'affumicata non troppo intensa era l'intento dichiarato di Riccardo; così come quello, direi riuscito, di tenere insieme nel migliore dei modi aromi e sapori molto diversi. Consigliabile a chi trova le porter spesso "blande", rifugiandosi magari nelle stout, perché queste peculiarità la rendono comunque più caratterizzata della media dello stile. In casa Benaco 70 c'è poi un'altra novità, questa volta però mangereccia: il panettone artigianale al cedro e pesca bagnati con la honey ale, la loro birra al miele - e complimenti vivissimi alla pasticceria Poggiana, perché è davvero ottimo. Riccardo aveva inizialmente proposto di bagnarlo ulteriormente con la Honey Ale, intingendolo; personalmente ho trovato però che l'abbinamento per affinità fosse eccessivo, per cui - per quanto detto così possa sembrare eresia - ho apprezzato di più quello per contrasto con la Strong Bitter (che rimane peraltro a mio parere una delle loro birre meglio riuscite).La seconda novità è stata quella del Salgaro - beerfirm che si appoggia all'Acelum, e con progetti di partire con il proprio impianto quanto prima - che a Pordenone ha portato la blanche Notte Bianca. Se volete una blanche belga così come da manuale, con la speziatura sì presente ma non robusta, fresca e beverina nonostante la buona carica di cereale al palato e senza evidenti note di luppolo, questa è per voi: semplice e pulita, secca e attenuata al punto giusto per "pulire" la bocca. Devo dire che mi ha positivamente colpita, per cui non posso che esprimere fiducia per il momento in cui il Salgaro dovesse iniziare a camminare con le sue gambe.Novità in toto era invece per me il Birrificio Lariano di Sirone (LC), presnete con il Drunken Duck come distributore: ho provato la la kolsch Michetta, con l'aggiunta del 10% di pane secco. Una luppolatura delicata e floreale, un corpo morbido e fresco e un finale pulito.Sempre con piacere ho poi rivisto la Brasseria Alpina, che a Pordenone ha portato la sua ultima nata Uvernada: una birra invernale, ispirata alle birre natalizie belghe. Aromi di fragola e rosa canina, sapori di caramello e frutta secca, con una nota finale di amaro data dell'erba alpina tanaceto volgare: si conferma quindi la linea dell'utilizzo delle erbe delle valli in cui si trova il Birrificio, già esplorata in diverse loro birre - dalla Berla Nera alla Genepy -, a mo' di reinterpretazione locale dello storico gruit fiammingo (una miscela di erbe usata a scopo amaricante e di conservazione prima dell'introduzione del luppolo).Novità anche in casa de L'Inconsueto: nella fattispecie la Piccadilly Bitter - luppolatura delicata, sui toni resinosi, e intenso amaro finale - e la birra natalizia, che personalmente ho trovato un po' fuori dai canoni dello stile dato il corpo relativamente poco robusto - anche il grado alcolico è più basso della media dello stile, 7 gradi - e gli intensi profumi di anice.Spostandomi invece in quel di Croce di Malto ho provato la Rus, la nuova bitter con riso Ermes - sulla scia del felice risultato ottenuto con il riso Venere nel caso della Piedi Neri - : semplice, fresca e beverina, alla dolcezza del cereale nel corpo contrappone un finale di un amaro secco e pulito. Tra i presenti c'era anche Opperbacco, ma su suggerimento del buon Damiano ho assaggiato la birra "ospite" dello stand, la Fucking beer del birrificio spagnolo La Pirata: una lager chiara a cui è stato aggiunto caffè. Ammetto la mia perplessità dato l'insolito contrasto tra la base di cereale, la luppolatura acre e l'amaro esotico del caffè, che ho trovato un po' cozzare; resta comunque una birra senza difetti oggettivi, per quanto a livello di gusti personali l'abbinamento non mi sia apparso riuscitissimo.Una parola poi per Diciottozerouno - sì, come la foto testimonia sono stata accolta dal consueto cabaret dietro al banco - che pur non avendo portato birre nuove ha comunque apportato degli aggiustamenti a quelle già in lista: in particolare è da segnalare la dark strong ale Granata, a cui il luppolo Nelson Sauvin dà la sua caratteristica nota di uva spina che si sposa in maniera peculiare con la robusta (e dolce) base maltata, e la saison Ocra, in cui alcuni "aggiustamenti" sul fronte del lievito hanno portato ad una speziatura ancora più intensa all'aroma. Un birrificio che pare avere una costante tensione a migliorare insomma, dato che ogni volta trovo qualche piccola ricalibratura, pur senza andare a stravolgere la ricetta originale.Chiudo qui, anche se molto altro da dire ci sarebbe; a cominciare dal Birrificio di Cagliari con la sua affumicata Mutta Affumiada, che pur non essendo nuova ha colpita una volta di più per la sua morbidezza ed equilibrio. Un grazie poi anche a Sognandobirra, Zahre, Weiherer Bier, Birradamare, La Buttiga, e tutto il resto dell'allegra (e di qualità) compagnia. Non mi resta che attendere il prossimo weekend con altri venti birrifici: alcuni tra questi mi hanno già anticipato delle novità, per cui rimanete sintonizzati....

Alla corte degli Scaligeri, parte seconda

Trovandomi in zona Verona, ne ho approfittato per una visita al birrificio Mastino: sono così passata dai Mastino e Cangrande "storici", su cui mi ero documentata al museo di Castelvecchio, a quelli birrari, con il mio passaggio allo stabilimento di San Martino Buon Albergo. Qui ha sede la produzione dal 2013, una volta lasciato l'impianto di Mezzane: che comunque non è rimasto inattivo, perché lì vengono ancora fatte le fermentazioni spontanee e tenute le botti (così anche da evitare contaminazioni in birrificio, aspetto non certo secondario).Dopo la calorosa accoglienza da parte di Oreste, sono passata alla zona produzione. Devo dire che, rispetto alla media dei birrifici artigianali che mi è capitato di visitare in zona, mi ha colpita per l'ampiezza: oltre 600 metri quadrati, in cui trovano spazio un impianto da 30 hl (la produzione annua è al momento poco sotto i 2000 hl), una cella alla temperatura costante di 18 gradi per lo stoccaggio (anche delle isobariche, che vengono infustate in modo tale da avere carica batterica zero), sei fermentatori e otto tank per la lagerizzazione (tenuti a zero gradi). La curiosità dell'impiano è che è stato concepito in collaborazione con il produttore come "impianto pilota", pensato in modo tale da essere "modulare": ai tre tini attuali, ha spiegato Oreste, può in futuro esserne aggiunto un quarto, arrivando a raddoppiare la produzione attuale grazie al "gioco" di doppie cotte. Una collaborazione che, a suo dire, si sta rivelando fruttuosa per entrambe le parti perché da un lato permette al birrificio di farsi fare l'impianto "su misura", e dall'altro al produttore di usarlo come test e vetrina (tanto che porta alcuni clienti a vederlo all'opera). Al Mastino, a quanto pare, questo genere di collaborazioni piacciono: Oreste ci ha riferito ad esempio che sono stati tra i primi in Italia a collaborare con la belga Enzybras per la sanificazione degli impianti grazie agli enzimi. Nei progetti futuri c'è poi un laboratorio: il birrificio già dispone di strumentazione che consente di effettuare analisi di base, ma l'intento è quello di farne arrivare altra. Insomma, l'impressione che ho avuto parlando con Oreste è stata quella di un birrificio che, complice l'esperienza già maturata con lo stabilimento precedente, presta un'attenzione ancor più meticolosa di altri a tutti quelli che sono gli aspetti tecnico-logistici e a quello che può essere il futuro.Naturalmente a quel punto non poteva mancare un assaggio di birra direttamente dai tank. Abbiamo iniziato dalla Monaco, che al Mastino considerano uno dei propri fiori all'occhiello in quanto stile caduto in disuso e tenuto vivo da pochi. All'aroma si notava che, per quanto non "prematura", era ancora birra giovane (e del resto va bevuta come tale): al naso, oltre ai toni maltati di biscotto e crosta di pane, personalmente ho sentito una lieve punta di lievito. Per quanto in bocca siano appunto questi toni di malto a dominare, rimanendo comunque lievi e morbidi, la chiusura è di un amaro altrettanto morbido ma allo stesso tempo deciso, senza compromessi verso la dolcezza precedente: il finale è quindi ben pulito, senza che la maltatura risulti stucchevole, cosa che del resto lo stile richiede. Da bere a litri e senza stufarsi, dote non sempre scontata nelle birre in cui la componente preponderante è quella dei malti. Siamo poi passati alla pils Milledue91, che già avevo descritto qui; e che ha confermato anche da tank le impressioni che già avevo avuto alla spina (anzi, se proprio volessimo trovare una differenza, complice la temperatura più bassa, è apparsa ancora più secca e meno amara).La visita si è poi conclusa nel piccolo spaccio e tap room, dove oltre alle birre a marchio Mastino fanno bella mostra di sé quelle di "Giulietta e Romeo" - kolsch, altbier e belgian ale al riso -, altro marchio che il birrificio firma e che è "figlio" di "Birra Verona", marchio di uno storico birrificio cittadino chiuso ormai da tempo che il Mastino aveva rilanciato qualche anno fa.Concludo con un ringraziamento a Oreste, Mauro e a tutti i collaboratori per la calorosa ospitalità.

Dall’Abruzzo…”a modo loro”

Ho avuto il piacere di partecipare ieri al Plagurmé di Pordenone alla degustazione delle birre della linea "A modo mio", del Birrificio San Giovanni di Roseto degli Abruzzi. Il mastro birraio Lamberto non ha potuto purtroppo essere presente, ma i suoi collaboratori Gilberto e Martina hanno comunque fatto "gli onori di casa fuori casa", presentandone l'operato con dovizia di particolari.Il birrificio è nato nel 2009 dall'esperienza dell'azienda agricola di famiglia, dove sin dal 2005 Gilberto e compagni avevano iniziato a cimentarsi nell'arte brassicola; all'olio e al vino si è così aggiunta anche la birra (non si tratta comunque di un agribirrificio, scelta motivata con la volontà di garantire la costanza della materia prima). In questi sette anni il birrificio è cresciuto fino a una produzione di 1500 hl annui (l'impianto, ha specificato Gilberto, ha la possibilità di arrivare a 6000); e l'export arriva a coprire quasi il 20% della produzione, tra Usa, Finlandia, Norvegia e Ucraina. La scelta di chiamare le birre con un nome diverso da quello del birrificio è intervenuta in un secondo momento, per questioni di tutela commerciale del nome; e la scelta è caduta sull'espressione "A modo mio" perché "in una vita che spesso ci costringe a fare ciò che si deve più che ciò che si vuole, un'espressione di questo genere significa soddisfare il proprio gusto".Data anche la collocazione strategica sotto il Gran Sasso, che fornisce un'acqua dalle caratteristiche chimiche ottimali, le due basse fermentazioni - Pils ed Extra Pils - mi erano state presentate come il punto di forza del birrificio: e devo dire che ci ho creduto nell'assaggiare la prima birra presentataci, la Blanche. Non nel senso che la Blanche fosse fatta male e mi augurassi quindi migliori risultati per gli altri stili, ma perché con l'aroma estremamente delicato, dalla speziatura appena accennata, che lasciava spazio piuttosto alle note di malto che aprivano ad un corpo ben pieno di cereale - decisamente più presente la dolcezza dell'orzo, il frumento rimane molto nelle retrovie - più che la tradizione birraria belga mi ha ricordato quella continentale tedesca, patria appunto delle basse fermentazioni. Infatti siamo passati poi alla Pils (nella foto): anche qui aromi tra l'erbaceo e il floreale sempre molto delicati, corpo esile, e un finale che ho trovato più dolce e meno secco e attenuato rispetto alla media dello stile - per quanto rimanga comunque discretamente pulito, garantendo la facilità di beva. In generale al San Giovanni sembrano non prediligere troppo l'amaro, perché nessuna delle birre assaggiate ieri lo presenta in maniera robusta. Più "controversa", mi si passi il termine, la Extra Pils, che alla base della Pils aggunge il luppolo Cascade in dry hopping dando sia profumi che sapori agrumati ben decisi: eresia secondo alcuni, dato che in una degustazione alla cieca la si potrebbe quasi scambiare per una ipa, interessante innovazione secondo altri - a ciascuno l'ardua sentenza. Amanti delle pils astenersi, questo è certo, ma può fare la felicità di chi cerca appunto qualcosa di più sperimentale.Se fino a qui ammetto di essere quindi rimasta abbastanza perplessa, ho trovato "materiale" più interessante nelle birre successive, a partire dalla Scotch Ale (nella foto): aroma intenso tra il torbato e l'affumicato, corpo pieno che sposa in maniera interessante le note tostate e quelle di caramello, e un finale insolitamente secco e pulito per una birra del genere. La sorpresa sta nel fatto che questa birra fa 4,8 gradi alcolici (e fidatevi che glie ne avrei dati il doppio), pur mantenendo un corpo molto robusto: come ho osservato ieri, sarei proprio curiosa di chiedere personalmente al birraio come ottiene il risultato. Siamo quindi passati alla Torbata (che fa 6 gradi, ma anche qui sembrano molti di più) e che sotto una schiuma pannosa e discretamente persistente cela aromi - appunto - torbati (viene utilizzato il 5% di malti torbati) e un corpo invece relativamente esile, che fa risaltare ancora di più anche al palato questa componente; senza comunque cadere nello squilibrio, per quanto si intuisca che il birraio abbia voluto spingersi fino alla "sottile linea rossa" oltre la quale c'è il troppo che stroppia.Cambiando completamente genere siano arrivati alla Ipa (che ammetto di aver apprezzato più dell'Extra Pils): schiuma a grana medio-sottile ben persistente, aromi agrumati da manuale ben equilibrati ed armoniosi, corpo di media robustezza con note maltate tendenti al miele, e un finale che pur non molto attenuato risulta comunque pulito grazie al tocco finale di amaro citrico - forse l'unica birra del San Giovanni in cui l'amaro è più evidente. Forse non "abbastanza" per gli amanti delle ipa "toste", ma consigliabile a chi preferisce quelle equilibrate e senza esagerazioni. Da ultima la birra natalizia nata dalla collaborazione con Roberto Parodi, la Noel, che viene lasciata maturare un anno: aromi intensi di frutta sotto spirito - dalle prugne, alle albicocche, alle amarene -, whisky, una leggera speziatura; ma per certi versi mi ha ricordato anche in vinsanto, tanto che vi avrei intinto volentieri un cantuccio. Dieci gradi e sentirli tutti, dato il carpo caldo, pieno e avvolgente, e un finale sì dolce e "alcolico" ma non stucchevole.In generale ho quindi paradossalmente apprezzato più le loro alte fermentazioni che le basse: su tutte mi ha colpita appunto la Scoth Ale, per le ragioni che ho spiegato sopra. Alla mia domanda se nei progetti futuri ci fosse anche una Italian Grape Ale (birra con mosto d'uva, unico stile ufficialmente riconosicuto come tipicamente italiano) sfruttando il vino dell'azienda agricola di famiglia, Martina e Gilberto non l'hanno escluso: chissà, magari ci sarà da riaggiornarsi in quanto a birra "A modo loro"...