A Rovigo dal 2023 sarà operativa la più grande malteria italiana: alcune riflessioni

Nei giorni scorsi sia Il Sole 24 Ore che poi Cronache di Birra - articoli che invito a leggere per avere un quadro più completo della situazione - hanno dato notizia dell'annuncio dell'apertura di una malteria in provincia di Rovigo, la cui operatività è prevista per il 2023. Chiaramente una notizia importante per il comparto brassicolo italiano, dato che la scarsità di malterie presenti sul territorio nazionale ha sempre reso necessario, o comunque più conveniente (specie nel Nord Italia) andare all'estero a maltare il proprio orzo.Al netto di quanto già spiegato negli articoli, aggiungo alcune considerazioni. Da quanto ho visto confrontandomi con i birrifici - e parlo qui di quelli agricoli, che utilizzano il malto del proprio orzo e quindi hanno necessità di una malteria - in questi ultimi anni si sono viste due tendenze di segno in qualche misura opposto: da un lato, per chi si reca in Austria e Germania presso le grandi malterie (e preciso quindi che sto parlando perlopiù di birrifici appunto del Nord), è venuto progressivamente riducendosi il problema di non raggiungere il lotto minimo: verosimilmente perché le malterie si sono organizzate per rispondere ad una domanda in crescita da parte delle piccole realtà, accogliendo anche lotti più piccoli rispetto a quelli dei grandi produttori. Naturalmente qui si inserisce la questione cruciale della tracciabilità, che viene richiesta in sempre più casi (per chi non fosse avvezzo alla questione: se consegno X quintali di orzo e ne ricevo indietro Y di malto, voglio essere certo che quello sia malto del mio orzo, e non di altri perché è stato mischiato con ulteriori forniture per raggiungere la capienza della struttura di maltazione).Dall'altro, è cresciuta la domanda e la sensibilità per una filiera interamente italiana. Non solo quindi le uniche due grandi malterie del Sud, ma anche le piccole realtà (penso ad esempio al Cobi, o finanche a piccole malterie sperimentali) sono diventate un'alternativa valida non solo per chi ha appunto produzioni minime, ma anche per chi pur potendosi potenzialmente recare altrove vuole rimanere all'interno dei confini nazionali. Fino a casi come quello del Birrificio Contadino Cascina Motta di Sale (Alessandria), che racchiude in sé l'intera filiera, maltazione compresa, per tutte le materie prime (primo e unico caso ad oggi in Italia tra gli artigianali). Aggiungiamoci poi che anche i birrifici non agricoli, nel comprare il malto, manifestano interesse verso quello lavorato in Italia - e non è un caso che il tema della filiera italiana sia uno di quelli al centro dell'azione di Unionbirrai.Detto ciò, è evidente che rimane da capire quali prospettive possono effettivamente aprirsi per i birrifici artigianali - dato che, almeno in una prima fase, saranno i grandi birrifici industriali i primi clienti. In altri termini, bisognerà vedere fino a che punto la malteria intenderà aprirsi alle richieste di una clientela che, ad ora, rappresenta poco più del 4% (secondo le stime di Unionbirrai) della produzione birraria nazionale: e quindi il fatto di accettare piccoli lotti dagli agribirrifici, a quali condizioni economiche e logistiche, e l'eventuale garanzia di tracciabilità anche su questi (questione apertamente affrontata da Teo Musso nel presentare il progetto della malteria). Agli agribirrifici bisogna poi naturalmente aggiungere tutti quei birrifici artigianali interessati ad acquistare orzo italiano, e la malteria potrebbe quindi diventare anello di congiunzione tra coltivatori e birrai - tanto più in una zona d'Italia che abbonda sia degli uni che degli altri.È lecito credere che la nuova malteria non solo si porrà come fornitore anche dei birrifici artigianali (come è ovvio che sia) ma che che anche accoglierà almeno in qualche misura le loro istanze, visto che il peso a livello di immagine del settore birrario artigianale italiano è ben superiore a quello della sua produzione in termini quantitativi. Ad ogni modo, questo progetto industriale ha le potenzialità pèer dare una svolta al futuro della birra italiana.

A Rovigo dal 2023 sarà operativa la più grande malteria italiana: alcune riflessioni

Nei giorni scorsi sia Il Sole 24 Ore che poi Cronache di Birra - articoli che invito a leggere per avere un quadro più completo della situazione - hanno dato notizia dell'annuncio dell'apertura di una malteria in provincia di Rovigo, la cui operatività è prevista per il 2023. Chiaramente una notizia importante per il comparto brassicolo italiano, dato che la scarsità di malterie presenti sul territorio nazionale ha sempre reso necessario, o comunque più conveniente (specie nel Nord Italia) andare all'estero a maltare il proprio orzo.Al netto di quanto già spiegato negli articoli, aggiungo alcune considerazioni. Da quanto ho visto confrontandomi con i birrifici - e parlo qui di quelli agricoli, che utilizzano il malto del proprio orzo e quindi hanno necessità di una malteria - in questi ultimi anni si sono viste due tendenze di segno in qualche misura opposto: da un lato, per chi si reca in Austria e Germania presso le grandi malterie (e preciso quindi che sto parlando perlopiù di birrifici appunto del Nord), è venuto progressivamente riducendosi il problema di non raggiungere il lotto minimo: verosimilmente perché le malterie si sono organizzate per rispondere ad una domanda in crescita da parte delle piccole realtà, accogliendo anche lotti più piccoli rispetto a quelli dei grandi produttori. Naturalmente qui si inserisce la questione cruciale della tracciabilità, che viene richiesta in sempre più casi (per chi non fosse avvezzo alla questione: se consegno X quintali di orzo e ne ricevo indietro Y di malto, voglio essere certo che quello sia malto del mio orzo, e non di altri perché è stato mischiato con ulteriori forniture per raggiungere la capienza della struttura di maltazione).Dall'altro, è cresciuta la domanda e la sensibilità per una filiera interamente italiana. Non solo quindi le uniche due grandi malterie del Sud, ma anche le piccole realtà (penso ad esempio al Cobi, o finanche a piccole malterie sperimentali) sono diventate un'alternativa valida non solo per chi ha appunto produzioni minime, ma anche per chi pur potendosi potenzialmente recare altrove vuole rimanere all'interno dei confini nazionali. Fino a casi come quello del Birrificio Contadino Cascina Motta di Sale (Alessandria), che racchiude in sé l'intera filiera, maltazione compresa, per tutte le materie prime (primo e unico caso ad oggi in Italia tra gli artigianali). Aggiungiamoci poi che anche i birrifici non agricoli, nel comprare il malto, manifestano interesse verso quello lavorato in Italia - e non è un caso che il tema della filiera italiana sia uno di quelli al centro dell'azione di Unionbirrai.Detto ciò, è evidente che rimane da capire quali prospettive possono effettivamente aprirsi per i birrifici artigianali - dato che, almeno in una prima fase, saranno i grandi birrifici industriali i primi clienti. In altri termini, bisognerà vedere fino a che punto la malteria intenderà aprirsi alle richieste di una clientela che, ad ora, rappresenta poco più del 4% (secondo le stime di Unionbirrai) della produzione birraria nazionale: e quindi il fatto di accettare piccoli lotti dagli agribirrifici, a quali condizioni economiche e logistiche, e l'eventuale garanzia di tracciabilità anche su questi (questione apertamente affrontata da Teo Musso nel presentare il progetto della malteria). Agli agribirrifici bisogna poi naturalmente aggiungere tutti quei birrifici artigianali interessati ad acquistare orzo italiano, e la malteria potrebbe quindi diventare anello di congiunzione tra coltivatori e birrai - tanto più in una zona d'Italia che abbonda sia degli uni che degli altri.È lecito credere che la nuova malteria non solo si porrà come fornitore anche dei birrifici artigianali (come è ovvio che sia) ma che che anche accoglierà almeno in qualche misura le loro istanze, visto che il peso a livello di immagine del settore birrario artigianale italiano è ben superiore a quello della sua produzione in termini quantitativi. Ad ogni modo, questo progetto industriale ha le potenzialità pèer dare una svolta al futuro della birra italiana.

Un ritorno da Gjulia

Venerdì scorso, cogliendo l'occasione del primo anniversario dell'apertura, sono tornata all'Agriristoro Stazione Gjulia - di cui avevo già parlato in questo post. Anche in questo caso sono stata accolta dal birraio e berisommelier Doemens Mirco Masetti, che mi ha guidata in una carrellata sulle birre prodotte - e in particolare su quelle che non avevo provato nelle precedenti visite, o che presentavano delle differenze nella ricetta.Ho iniziato dalla Helles, un esemplare limpido, sobrio e pulito dello stile: luppolatura tedesca d'ordinanza di toni discreti su altrettanto discreti aromi di pane fragrante, senza alcuna nota di dms - e mi riferisco a quelle definite come "tollerabili per lo stile", che in effetti spesso si riscontrano. Fresca e dal corpo snello, amaricatura finale presente quel tanto che basta ad essere percepita e non persistente. Per chi cerca una Helles semplice e "da manuale", senza particolari caratterizzazioni specifiche - detto in altri termini: si sente che qui l'attenzione è posta non sul dare "carattere" alla Helles, ma sulla pulizia tecnica. Interessante sarà vedere le evoluzioni di questa birra quando, come anticipatomi da Mirco, grazie alla presenza di sette tank aggiuntivi da poco arrivati in birrificio sarà possibile allungare i tempi di maturazione (dalle attuali 4-5 settimane alle 6-7): l'idea è che ne guadagni ulteriormente in pulizia.Sono poi passata alla Weizen, a ricetta leggermente cambiata rispetto allo scorso anno e maturazione a 15 gradi: ne risulta un aroma decisamente esuberante di banana, che però non si traduce in una persistenza in bocca di questi stessi toni. Parliamo comunque di una Weizen particolarmente piena al palato, dai ricchi sapori di cereale, e chiusura acidula supportata dalla buona carbonatazione come da manuale. Significativa l'assoluta impenetrabilità alla vista di questa birra, data - assicura Mirco sulla base delle analisi di laboratorio - non tanto dal lievito in sospensione ma dalle proteine. Una vera e propria fetta di pane, insomma, tanto più che "riempie" proprio la bevuta data la sua peculiare corposità - che comunque non incide negativamente sulla bevibilità: stiamo sì parlando di una Weizen in qualche misura meno "scorrevole" di altre, ma che rimane comunque all'interno dei canoni di freschezza dello stile.In terza battuta la Ribò, Iga con mosto di Ribolla Gialla. Rispetto ad altre Iga risulta qui più evidente la luppolatura in aroma, Hallertau Blanc, senza lasciare dunque che sia esclusivamente o quasi il vitigno a farla da padrone al naso: si punta qui piuttosto ad un - ben riuscito, a mio avviso - connubio tra le due componenti, che gioca tra il fruttato - uva, frutta tropicale, frutta gialla - e l'acidulo - con tanto di qualche reminescenza agrumata. Anche qui, in ossequio all'impronta tedesca del birraio, si percepisce chiaramente l'intento di fare una birra di facile beva: corpo sempre scorrevole, tra il cereale e una nota fruttata di mosto - che in ogni caso non arriva mai a diventare il protagonista - con la "sorpresa" però di una chiusura tendente al dolce, per quanto non persistente né "zuccherosa" - tale dunque da pregiudicare la freschezza e l'equilibrio complessivi.Da ultimo sono tornata su quella che viene definita come Ambrata, una Festbier, che ricordavo mi aveva parecchio sorpresa l'anno scorso. E in effetti confermo la sorpresa per una birra sui generis e dai toni parecchio vivaci: si va dagli aromi erbacei dei luppoli inglesi a quelli tostati, a un corpo ben pieno ma scorrevole che gioca tra crosta di pane ben cotta, biscotto e caramello, all'amaricatura verace che arriva a chiudere la bevuta - più incisiva e persistente di quanto me la ricordassi. Una birra che va quasi più incontro ai gusti di chi ama le bitter e in generale la tradizione britannica - a cui vuole infatti strizzare l'occhio - che a chi ama quella tedesca, che predilige equilibri tra cereale e luppolo giocati su toni meno esuberanti. Grazie di nuovo a tutto lo staff di Gjulia e in particolare a Mirco Masetti per l'ospitalità e l'interessante confronto. Da segnalare, per le famiglie con bambini, la disponibilità di uno spazio gioco all'esterno - cosa di cui non ho mai colto davvero l'importanza finché non sono diventata mamma io stessa...

Un ritorno da Gjulia

Venerdì scorso, cogliendo l'occasione del primo anniversario dell'apertura, sono tornata all'Agriristoro Stazione Gjulia - di cui avevo già parlato in questo post. Anche in questo caso sono stata accolta dal birraio e berisommelier Doemens Mirco Masetti, che mi ha guidata in una carrellata sulle birre prodotte - e in particolare su quelle che non avevo provato nelle precedenti visite, o che presentavano delle differenze nella ricetta.Ho iniziato dalla Helles, un esemplare limpido, sobrio e pulito dello stile: luppolatura tedesca d'ordinanza di toni discreti su altrettanto discreti aromi di pane fragrante, senza alcuna nota di dms - e mi riferisco a quelle definite come "tollerabili per lo stile", che in effetti spesso si riscontrano. Fresca e dal corpo snello, amaricatura finale presente quel tanto che basta ad essere percepita e non persistente. Per chi cerca una Helles semplice e "da manuale", senza particolari caratterizzazioni specifiche - detto in altri termini: si sente che qui l'attenzione è posta non sul dare "carattere" alla Helles, ma sulla pulizia tecnica. Interessante sarà vedere le evoluzioni di questa birra quando, come anticipatomi da Mirco, grazie alla presenza di sette tank aggiuntivi da poco arrivati in birrificio sarà possibile allungare i tempi di maturazione (dalle attuali 4-5 settimane alle 6-7): l'idea è che ne guadagni ulteriormente in pulizia.Sono poi passata alla Weizen, a ricetta leggermente cambiata rispetto allo scorso anno e maturazione a 15 gradi: ne risulta un aroma decisamente esuberante di banana, che però non si traduce in una persistenza in bocca di questi stessi toni. Parliamo comunque di una Weizen particolarmente piena al palato, dai ricchi sapori di cereale, e chiusura acidula supportata dalla buona carbonatazione come da manuale. Significativa l'assoluta impenetrabilità alla vista di questa birra, data - assicura Mirco sulla base delle analisi di laboratorio - non tanto dal lievito in sospensione ma dalle proteine. Una vera e propria fetta di pane, insomma, tanto più che "riempie" proprio la bevuta data la sua peculiare corposità - che comunque non incide negativamente sulla bevibilità: stiamo sì parlando di una Weizen in qualche misura meno "scorrevole" di altre, ma che rimane comunque all'interno dei canoni di freschezza dello stile.In terza battuta la Ribò, Iga con mosto di Ribolla Gialla. Rispetto ad altre Iga risulta qui più evidente la luppolatura in aroma, Hallertau Blanc, senza lasciare dunque che sia esclusivamente o quasi il vitigno a farla da padrone al naso: si punta qui piuttosto ad un - ben riuscito, a mio avviso - connubio tra le due componenti, che gioca tra il fruttato - uva, frutta tropicale, frutta gialla - e l'acidulo - con tanto di qualche reminescenza agrumata. Anche qui, in ossequio all'impronta tedesca del birraio, si percepisce chiaramente l'intento di fare una birra di facile beva: corpo sempre scorrevole, tra il cereale e una nota fruttata di mosto - che in ogni caso non arriva mai a diventare il protagonista - con la "sorpresa" però di una chiusura tendente al dolce, per quanto non persistente né "zuccherosa" - tale dunque da pregiudicare la freschezza e l'equilibrio complessivi.Da ultimo sono tornata su quella che viene definita come Ambrata, una Festbier, che ricordavo mi aveva parecchio sorpresa l'anno scorso. E in effetti confermo la sorpresa per una birra sui generis e dai toni parecchio vivaci: si va dagli aromi erbacei dei luppoli inglesi a quelli tostati, a un corpo ben pieno ma scorrevole che gioca tra crosta di pane ben cotta, biscotto e caramello, all'amaricatura verace che arriva a chiudere la bevuta - più incisiva e persistente di quanto me la ricordassi. Una birra che va quasi più incontro ai gusti di chi ama le bitter e in generale la tradizione britannica - a cui vuole infatti strizzare l'occhio - che a chi ama quella tedesca, che predilige equilibri tra cereale e luppolo giocati su toni meno esuberanti. Grazie di nuovo a tutto lo staff di Gjulia e in particolare a Mirco Masetti per l'ospitalità e l'interessante confronto. Da segnalare, per le famiglie con bambini, la disponibilità di uno spazio gioco all'esterno - cosa di cui non ho mai colto davvero l'importanza finché non sono diventata mamma io stessa...

Riaperture…ma anche no

Da più parti si era già osservato come, e non certo solo per il settore brassicolo, l'anno più duro della crisi Covid non sarebbe stato il 2020 ma il 2021: perché, se per un anno è stato possibile "tenere botta" in qualche modo - facendo ricorso ai risparmi, inventandosi nuove modalità di vendita, appoggiandosi a ristori e ammortizzatori sociali per chi li ha avuti -, per due diventa davvero arduo. E ultimamente si sono susseguite nel giro di breve tempo tra notizie che non sono certo le uniche nel loro genere in Italia, ma che mi sono apparse in qualche modo rappresentative di tre tipologie di problemi che il Covid ha fatto nascere o ha acuito per chi opera nel settore birrario e in generale della ristorazione - oltre ad avermi colpito per la concomitanza temporale.La prima, che ha avuto eco anche sulla stampa nazionale, è stata la chiusura del brewpub Bilabì a Bari: vero è che, come si legge nell'articolo di Repubblica, i proprietari hanno addotto anche motivazioni personali per la decisione di lasciare, ma le chiusure per Covid hanno fatto precipitare la situazione. E, parlando con diversi operatori, mi confermano che sarà proprio il 2021 - e proprio quando si inizia a parlare di riaperture che abbiano la prospettiva di un minimo di solidità, dopo il tira e molla delle zone a colori - l'anno in cui ci sarà chi non riaprirà o riaprirà per richiudere. Non ho ancora visto statistiche su quanti abbiano già chiuso, né sarebbe indicativo averle ora, ma è ragionevole aspettarsi che le fila di chi ha già abbassato le serrande si ingrossino.La seconda, indicativa di tutt'altro genere di problema, è la denuncia via social - simile ad altre già fatte da diversi publican e ristoratori - fatta dalla tap room Albirrificio di Aosta: un verbale da 400 euro e 5 giorni di chiusura fatto dalla Guardia di Finanza, per aver trovato non meglio specificate "più persone" nel non meglio specificato "esterno del locale", intente a bere "senza dispositivi di protezione". Un verbale che ha fatto clamore anche mediatico anche sulla stampa locale in seguito alla precisazione da parte dei gestori non solo dell'evidente impossibilità di avere una qualche autorità su quanto accade in strada - tanto più considerando la limitata visuale dal locale verso l'esterno -, ma anche del fatto che nello stesso momento era in corso una manifestazione in città, e del fatto che il verbale sia stato notificato giorni dopo senza alcuna dimostrazione della correlazione l'assembramento in questione e il fatto che queste persone stessero effettivamente consumando birre servite dalla tap room. Anche qui: di casi analoghi ne sono stati denunciati tanti in Italia, il rispetto della legge è dovuto, ma applicarla a questo modo rischia di snaturarne lo stesso giusto intento. E c'è di che credere che, come se già non fosse stato sufficientemente difficile districarsi tra leggi e leggine prima della pandemia, publican e ristoratori dovranno fare una corsa a ostacoli di questo tipo ancora per un po'.Da ultimo, la comunicazione data sempre via Facebook dalla Birroteca Duri ai Banchi di Mestre: in cui afferma che a causa di problemi con la proprietà dell'immobile, uniti alle note criticità poste dalla situazione della pandemia, l'attività non riaprirà. Naturalmente non entro nel merito delle "complicazioni con la proprietà", che possono non avere nulla a che vedere con la serrata Covid nonché avere la loro ragion d'essere: però la cosa mi ha fatto riflettere una volta di più sul fatto che molti locali hanno segnalato che la situazione che si protrae dallo scorso anno ha acuito problemi già esistenti, che magari sono andati ad incrociarsi con le spesso estenuanti e inconcludenti negoziazioni con i proprietari in merito ad una riduzione o dilazione degli affitti nei mesi di chiusura. E anche queste criticità posso immaginare non si risolveranno con un colpo di bacchetta magica una volta riaperto.Con questo non dico che mi sento pessimista: la voglia di ripartire - sia da parte degli esercenti che dei clienti - è tanta, per quanto anche questo ormai sia diventato un luogo comune, e c'è di che credere che nei prossimi mesi i miglioramenti si vedranno. Però sarà necessario fare attenzione ai colpi di coda dell'anno abbondante che ancora ci portiamo addosso.

Riaperture…ma anche no

Da più parti si era già osservato come, e non certo solo per il settore brassicolo, l'anno più duro della crisi Covid non sarebbe stato il 2020 ma il 2021: perché, se per un anno è stato possibile "tenere botta" in qualche modo - facendo ricorso ai risparmi, inventandosi nuove modalità di vendita, appoggiandosi a ristori e ammortizzatori sociali per chi li ha avuti -, per due diventa davvero arduo. E ultimamente si sono susseguite nel giro di breve tempo tra notizie che non sono certo le uniche nel loro genere in Italia, ma che mi sono apparse in qualche modo rappresentative di tre tipologie di problemi che il Covid ha fatto nascere o ha acuito per chi opera nel settore birrario e in generale della ristorazione - oltre ad avermi colpito per la concomitanza temporale.La prima, che ha avuto eco anche sulla stampa nazionale, è la chiusura del brewpub Bilabì a Bari: vero è che, come si legge nell'articolo di Repubblica, i proprietari hanno addotto anche motivazioni personali per la decisione di lasciare, ma le serrate per Covid hanno fatto precipitare la situazione. E, parlando con diversi operatori, mi confermano che sarà proprio il 2021 - e proprio quando si inizia a parlare di riaperture che abbiano la prospettiva di un minimo di solidità, dopo il tira e molla delle zone a colori - l'anno in cui ci sarà chi non riaprirà o riaprirà per chiudere. Non ho ancora visto statistiche su quanti abbiano già chiuso, né sarebbe indicativo averle ora, ma è ragionevole aspettarsi che le fila di chi ha già abbassato le serrande si ingrossino.La seconda, indicativa di tutt'altro genere di problema, è la denuncia via social - simile ad altre già fatte da diversi publican e ristoratori - della tap room Albirrificio di Aosta: un verbale da 400 euro e 5 giorni di chiusura fatto dalla Guardia di Finanza, per aver trovato non meglio specificate "più persone" nel non meglio specificato "esterno del locale", intente a bere "senza dispositivi di protezione". Un verbale che ha fatto clamore mediatico anche sulla stampa locale in seguito alla precisazione da parte dei gestori non solo dell'evidente impossibilità di avere una qualche autorità su quanto accade in strada - tanto più considerando la limitata visuale dal locale verso l'esterno -, ma anche del fatto che nello stesso momento era in corso una manifestazione in città, e del fatto che il verbale sia stato notificato giorni dopo senza alcuna dimostrazione della correlazione tra l'assembramento in questione e il fatto che queste persone stessero effettivamente consumando birre servite dalla tap room. Anche qui: di casi analoghi ne sono stati denunciati tanti in Italia, il rispetto della legge è dovuto, ma applicarla a questo modo rischia di snaturarne lo stesso giusto intento. E c'è di che credere che, come se già non fosse stato sufficientemente difficile districarsi tra leggi e leggine prima della pandemia, publican e ristoratori dovranno fare una corsa a ostacoli di questo tipo ancora per un po'.Da ultimo, la comunicazione data sempre via Facebook dalla Birroteca Duri ai Banchi di Mestre: in cui afferma che a causa di problemi con la proprietà dell'immobile, uniti alle note criticità poste dalla situazione della pandemia, l'attività non riaprirà. Naturalmente non entro nel merito delle "complicazioni con la proprietà", che possono non avere nulla a che vedere con la serrata Covid nonché avere la loro ragion d'essere: però la cosa mi ha fatto riflettere una volta di più sul fatto che molti locali hanno segnalato che la situazione che si protrae dallo scorso anno ha acuito problemi già esistenti, che magari sono andati ad incrociarsi con le spesso estenuanti e inconcludenti negoziazioni con i proprietari in merito ad una riduzione o dilazione degli affitti nei mesi di chiusura. E anche queste criticità posso immaginare non si risolveranno con un colpo di bacchetta magica una volta riaperto.Con questo non dico che mi sento pessimista: la voglia di ripartire - sia da parte degli esercenti che dei clienti - è tanta, per quanto anche questo ormai sia diventato un luogo comune, e c'è di che credere che nei prossimi mesi i miglioramenti si vedranno. Però sarà necessario fare attenzione ai colpi di coda dell'anno abbondante che ancora ci portiamo addosso.

Chimay lancia la sua nuova birra: la Chimay 150

C'era il tappo rosso, c'era il tappo blu, c'era il tappo bianco, c'era poi la Dorée, e ora ci sarà anche la tappo verde: è la Chimay 150, ultima nata del noto birrificio trappista - per la precisione nel 2012, appunto per i 150 anni del monastero - e presentata oggi per il mercato italiano (dove sarà disponibile dal 1 giugno). Lo spessore della notizia può essere intuita dal fatto che Chimay ha lanciato la sua ultima birra nel 1966, la Triple: letteralmente non cosa da tutti i giorni insomma.La "tappo verde" all'epoca era stata prodotta in edizione limitata (150.000 bottiglie) per l'anniversario, e solo nove anni dopo si è arrivati alla commercializzazione al largo: cosa che può apparire strana, ma non nuova a Chimay - la stessa Dorée è stata distribuita solo dal 2013, ma già veniva prodotta da molti anni per il consumo locale dei monaci e dei visitatori (come è appunto tradizione dei monasteri). Oltretutto, è storicamente prassi per i birrifici trappisti produrre birre non distribuite - immagino molti lettori avranno già pensato alla Petite Orval.Si tratta ufficialmente di una Belgian Golden Strong Ale, per quanto - a detta dell'export manager per l'Italia, Alessandro Bonin, rifugga una precisa classificazione in quanto "le birre di Chimay sono nate prima che nascessero gli stili" - da 10 gradi alcolici; e il suoi 20 gradi plato fanno presupporre una notevole corposità. Coerentemente con la tradizione belga, non è il luppolo - Saaz Zatec e Halertau Mittelfruh, quest'ultimo prodotto peraltro localmente - a fare da protagonista (gli Ibu dichiarati sono 27, quindi si tratta di una birra dolce); a distinguerla però, da descrizione, sono i toni balsamici di menta, bergamotto, erbe aromatiche, e le spezie (tra cui una "segreta e preziosa", che Chimay non intende rivelare: per il resto si conoscono zenzero e coriandolo). Naturalmente rimane centrale il lievito, quello proprio di Chimay, e che viene utilizzato per tutte le birre.Siamo quindi alla quinta birra di Chimay; che, per quanto rimanendo nel solco della tradizione, ha l'intenzione dichiarata di porsi in maniera complementare rispetto a quelle già presenti, giocando la carta di queste peculiarità aromatiche - pur rimanendo nel complesso una birra rotonda ed equilibrata, è stato assicurato. Come preannunciato dal distributore Stefano Baldan, inizialmente le forniture saranno limitate, e andranno principalmente al "Club Chimay" (circa 80 locali); ma si aprirà poi, già nel corso del mese, anche ad altri ordini. Per ora sarà disponibile solo in bottiglia (le 0,33 da giugno, e le 0,75 da luglio). Sempre da tradizione la birra sarà accompagnata da un formaggio, disponibile in Italia dal prossimo autunno.Nella conferenza stampa di presentazione non è mancato nemmeno un riferimento alla generale penuria di monaci, che già ha costretto Achel a perdere il logo trappista perché la produzione non può più avvenire sotto la loro supervisione: rischio che si è detto essere scongiurato per Chimay - anche se ricordo che già nella mia visita a Scourmont nel 2015 alcuni monaci mi avevano confidato qualche preoccupazione in questo senso. Certo, da giornalista che si occupa anche dei temi del sociale, non posso che avere un occhio di riguardo anche per il fatto che birra trappista significa anche destinazione degli utili a progetti di sostegno per chi ne ha bisogno, e quindi non posso che aupicare anche sotto questo profilo che nessun monastero cessi la produzione.Naturalmente non è mancato qualche commento sulla pandemia, e su che cosa significhi lanciare una nuova birra in questi frangenti; e in effetti, per quanto questa non sia stata presentata in un'ottica di rilancio della produzione, ma di dare un segnale di ripartenza e speranza, personalmente ho comunque colto la vololtà di proporre qualcosa di "diverso" (pur senza andare a lanciarsi in stili diversi da quelli propri di Chimay), nel solco di quella pressione al rinnovamento che la pandemia e il desiderio di ripartire stanno più o meno consapevolmente ponendo su tutti noi. Per il resto, non posso naturalmente esprimermi su una birra che non ho ancora assaggiato: attendo con fiducia...

Chimay lancia la sua nuova birra: la Chimay 150

C'era il tappo rosso, c'era il tappo blu, c'era il tappo bianco, c'era poi la Dorée, e ora ci sarà anche la tappo verde: è la Chimay 150, ultima nata del noto birrificio trappista - per la precisione nel 2012, appunto per i 150 anni del monastero - e presentata oggi per il mercato italiano (dove sarà disponibile dal 1 giugno). Lo spessore della notizia può essere intuita dal fatto che Chimay ha lanciato la sua ultima birra nel 1966, la Triple: letteralmente non cosa da tutti i giorni insomma.La "tappo verde" all'epoca era stata prodotta in edizione limitata (150.000 bottiglie) per l'anniversario, e solo nove anni dopo si è arrivati alla commercializzazione al largo: cosa che può apparire strana, ma non nuova a Chimay - la stessa Dorée è stata distribuita solo dal 2013, ma già veniva prodotta da molti anni per il consumo locale dei monaci e dei visitatori (come è appunto tradizione dei monasteri). Oltretutto, è storicamente prassi per i birrifici trappisti produrre birre non distribuite - immagino molti lettori avranno già pensato alla Petite Orval.Si tratta ufficialmente di una Belgian Golden Strong Ale, per quanto - a detta dell'export manager per l'Italia, Alessandro Bonin, rifugga una precisa classificazione in quanto "le birre di Chimay sono nate prima che nascessero gli stili" - da 10 gradi alcolici; e il suoi 20 gradi plato fanno presupporre una notevole corposità. Coerentemente con la tradizione belga, non è il luppolo - Saaz Zatec e Halertau Mittelfruh, quest'ultimo prodotto peraltro localmente - a fare da protagonista (gli Ibu dichiarati sono 27, quindi si tratta di una birra dolce); a distinguerla però, da descrizione, sono i toni balsamici di menta, bergamotto, erbe aromatiche, e le spezie (tra cui una "segreta e preziosa", che Chimay non intende rivelare: per il resto si conoscono zenzero e coriandolo). Naturalmente rimane centrale il lievito, quello proprio di Chimay, e che viene utilizzato per tutte le birre.Siamo quindi alla quinta birra di Chimay; che, per quanto rimanendo nel solco della tradizione, ha l'intenzione dichiarata di porsi in maniera complementare rispetto a quelle già presenti, giocando la carta di queste peculiarità aromatiche - pur rimanendo nel complesso una birra rotonda ed equilibrata, è stato assicurato. Come preannunciato dal distributore Stefano Baldan, inizialmente le forniture saranno limitate, e andranno principalmente al "Club Chimay" (circa 80 locali); ma si aprirà poi, già nel corso del mese, anche ad altri ordini. Per ora sarà disponibile solo in bottiglia (le 0,33 da giugno, e le 0,75 da luglio). Sempre da tradizione la birra sarà accompagnata da un formaggio, disponibile in Italia dal prossimo autunno.Nella conferenza stampa di presentazione non è mancato nemmeno un riferimento alla generale penuria di monaci, che già ha costretto Achel a perdere il logo trappista perché la produzione non può più avvenire sotto la loro supervisione: rischio che si è detto essere scongiurato per Chimay - anche se ricordo che già nella mia visita a Scourmont nel 2015 alcuni monaci mi avevano confidato qualche preoccupazione in questo senso. Certo, da giornalista che si occupa anche dei temi del sociale, non posso che avere un occhio di riguardo anche per il fatto che birra trappista significa anche destinazione degli utili a progetti di sostegno per chi ne ha bisogno, e quindi non posso che aupicare anche sotto questo profilo che nessun monastero cessi la produzione.Naturalmente non è mancato qualche commento sulla pandemia, e su che cosa significhi lanciare una nuova birra in questi frangenti; e in effetti, per quanto questa non sia stata presentata in un'ottica di rilancio della produzione, ma di dare un segnale di ripartenza e speranza, personalmente ho comunque colto la vololtà di proporre qualcosa di "diverso" (pur senza andare a lanciarsi in stili diversi da quelli propri di Chimay), nel solco di quella pressione al rinnovamento che la pandemia e il desiderio di ripartire stanno più o meno consapevolmente ponendo su tutti noi. Per il resto, non posso naturalmente esprimermi su una birra che non ho ancora assaggiato: attendo con fiducia...

Birra, si riapre: ma con il rischio di un dialogo tra sordi

Domani nella maggior parte d'Italia si potrà tornare - almeno in parte, posto che non tutti i locali sono nelle condizioni di offrire spazi all'esterno - a bere una birra al pub. "Traguardo" atteso da tempo da molti posto che la modalità di consegna a domicilio o di eventi online, che nel primo lockdown aveva funzionato bene, ha poi dimostrato una certa stanchezza con la seconda e terza ondata; e che in ogni caso publican e birrifici hanno bisogno di "tornare in presenza" per fare davvero il proprio lavoro, sia sotto il profilo del far quadrare i conti economicamente che sotto quello di un'adeguata promozione dei prodotti e servizio ai clienti.Al di là della grafica fatta circolare da Unionbirrai e qui riportata, che offre senz'altro utili spunti, mi è sorta qualche riflessione; congiuntamente al comunicato che sempre Unionbirrai ha fatto circolare qualche giorno fa, e che trovate qui sotto.  NO ALLA "SUPERLEGA" DELLA BIRRA ARTIGIANALE ITALIANALe notizie che ci giungono da Roma sono a dir poco preoccupanti. In quest’anno di pandemia i birrifici artigianali sono stati sistematicamente esclusi da ogni tipo di ristoro a causa dei meccanismi legislativi più disparati.In questo contesto drammatico ci viene confermato che gli unici provvedimenti di natura finanziaria relativi alla birra artigianale che verranno discussi in Parlamento prevedono l’innalzamento del limite per l’applicazione dello sconto del 40% sulle accise dagli attuali 10000hl a 50000hl. Tale provvedimento prevede una dotazione finanziaria di 1 milione di Euro e, per quanto di nostra conoscenza, riguarderebbe solo 8 birrifici italiani, ovvero meno del 1% dei produttori presenti sul territorio nazionale.Unionbirrai ha sempre sostenuto la necessità di avere uno sgravio sulle accise anche per i birrifici aventi produzione superiore a 10000hl, ma con una logica di progressività fiscale, che in questo provvedimento sarebbe totalmente assente.Un milione di Euro di certo non risolleverebbe le sorti del nostro comparto, ma potrebbe essere una grande boccata di ossigeno per decine di piccole aziende produttrici. Distribuirli a pochi e grossi costituirebbe un messaggio tragico per tantissimi piccoli imprenditori.  Partiamo dall'inizio: domani, dicevamo, si riapre. E spiace vedere che non c'è molto spazio alla gioia per la buona notizia, quanto disappunto per una riapertura che è percepita come non risolutiva per diverse ragioni - non tutti i pub e tap room dispongono di spazi all'aperto, possibilmente coperti per tutelarsi dal maltempo; esistono ancora pesanti limiti d'orario; la riapertura è stata comunicata poco più di una settimana prima, con conseguenti problemi di approvvigionamento e organizzazione; senza contare chi si chiede se a conti fatti non convenga incassare un pur misero ristoro (per chi l'ha incassato), piuttosto che tenere aperto a queste condizioni.Mi ha dato molto da riflettere il botta e risposta avvenuto alla trasmissione di La7 L'aria che tira tra il microbiologo Andrea Crisanti - probabilmente il più esposto mediaticamente in tutta la pandemia - e un ristoratore, che a fronte della contrarietà del primo alle riaperture ha ribattuto "Allora mi dia 200.000 euro, perché tanti ne ho persi quest'anno"; ricevendo in tutta risposta la replica "Mi spiace, non sono abituato a questo genere di discorsi, se lei avesse ricevuto i ristori non saremmo qui a parlarne". Ecco, credo che nel "non sono abituato a questi discorsi" stia il nocciolo della questione: è ormai un anno che il dialogo tra operatori economici, politica e scienziati (peraltro spesso additati di avere opinioni contraddittorie, più sul piano mediatico che su quello strettamente scientifico a dire il vero) appare sempre più un dialogo tra sordi. Gli uni paiono "non essere abituati" ai discorsi degli altri, finendo per non capire e non farsi capire, rendendo impossibile trovare una conciliazione almeno parziale tra posizioni inconciliabili. Difficile spiegare a chi vede il mondo dal punto di vista della circolazione virale, potendo contare al tempo stesso su uno stipendio, che non è solo questione di ristori, ma anche della dignità del poter lavorare; così come chi si è più che legittimamente sentito preso in giro da una serie di provvedimenti contraddittori, che hanno imposto requisiti stringenti prima di costringere comunque alla chiusura e senza adeguati sostegni, sarà disposto a dare fiducia a chi dice che è necessario attendere ancora. Non so se queste riaperture potranno costituire l'occasione per tornare a parlarsi trovando un nuovo equilibrio tra gli opposti, per quanto me lo auguri; sicuramente costituiranno un momento delicato per tutti, consumatori compresi, dato che il fattore tempo - perché la voglia di bere c'è ed è tanta, il problema è quando lo si potrà fare davvero, perché potrebbe essere troppo tardi per pub, birrifici e affini - è dirimente. In questo si inserisce anche il comunicato di Unionbirrai, in quanto legato agli aiuti previsti per fronteggiare il calo di fatturato dovuto alla pandemia. Ora, chi ha un po' di dimestichezza con l'ambiente potrà facilmente fare quello che gli inglesi chiamano educated guess su chi siano almeno i più noti tra questi otto; peraltro, tra quelli che io personalmente ho individuato, nessuno risulta essere socio Unionbirrai (stando all'elenco pubblicato nel sito dell'associazione). Il che, più che a fare inutile dietrologia su una vera o presunta volontà di Unionbirrai di tutelare i piccoli facendo guerra ai "grandi", porta semplicemente a ipotizzare che effettivamente ci siano esigenze diverse tra i birrifici più piccoli e quelli più grandi di questa soglia, portando a scegliere forme diverse per farsi rappresentare.  Anche qui pare di essere di fronte ad un altro caso di dialogo tra sordi: Unionbirrai era infatti sempre stata chiara su questo punto, come esplicitato nel comunicato; e, a meno di non ipotizzare retroscena di strane pressioni da parte di qualcuno degli otto birrifici interessati (cosa che non ho elementi per fare, e sarebbe davvero notevole se un qualche birrificio in Italia avesse tale peso politico), non si vede ragione diversa rispetto al voler includere qualcuno in più (ben otto imprese, signori!) nella platea di chi riceve un qualche beneficio - poi bisognerebbe naturalmente vedere caso per caso quanto effettivamente questo sconto incida per gli otto "grandi", per capire se questo finisca per essere di fatto un inefficace aiuto a pioggia.È un messaggio tragico? Tragico non lo so, grave sicuramente sì, perché c'è di che ritenere che i grandi abbiano in generale comunque avuto più strumenti per far fronte alla pandemia: in buona parte sono presenti nella gdo (dove le vendite sono cresciute), sono più strutturati per l'e-commerce; oltre a non essere di fatto imprese familiari, come molti piccoli birrifici sono, con un impatto più pesante sotto il profilo sociale oltre che economico sulle famiglie coinvolte. Investire di più su tante piccole imprese, piuttosto che su poche più grandi, avrebbe sicuramente avuto un ritorno maggiore.

Birra, si riapre: ma con il rischio di un dialogo tra sordi

Domani nella maggior parte d'Italia si potrà tornare - almeno in parte, posto che non tutti i locali sono nelle condizioni di offrire spazi all'esterno - a bere una birra al pub. "Traguardo" atteso da tempo da molti posto che la modalità di consegna a domicilio o di eventi online, che nel primo lockdown aveva funzionato bene, ha poi dimostrato una certa stanchezza con la seconda e terza ondata; e che in ogni caso publican e birrifici hanno bisogno di "tornare in presenza" per fare davvero il proprio lavoro, sia sotto il profilo del far quadrare i conti economicamente che sotto quello di un'adeguata promozione dei prodotti e servizio ai clienti.Al di là della grafica fatta circolare da Unionbirrai e qui riportata, che offre senz'altro utili spunti, mi è sorta qualche riflessione; congiuntamente al comunicato che sempre Unionbirrai ha fatto circolare qualche giorno fa, e che trovate qui sotto.  NO ALLA "SUPERLEGA" DELLA BIRRA ARTIGIANALE ITALIANALe notizie che ci giungono da Roma sono a dir poco preoccupanti. In quest’anno di pandemia i birrifici artigianali sono stati sistematicamente esclusi da ogni tipo di ristoro a causa dei meccanismi legislativi più disparati.In questo contesto drammatico ci viene confermato che gli unici provvedimenti di natura finanziaria relativi alla birra artigianale che verranno discussi in Parlamento prevedono l’innalzamento del limite per l’applicazione dello sconto del 40% sulle accise dagli attuali 10000hl a 50000hl. Tale provvedimento prevede una dotazione finanziaria di 1 milione di Euro e, per quanto di nostra conoscenza, riguarderebbe solo 8 birrifici italiani, ovvero meno del 1% dei produttori presenti sul territorio nazionale.Unionbirrai ha sempre sostenuto la necessità di avere uno sgravio sulle accise anche per i birrifici aventi produzione superiore a 10000hl, ma con una logica di progressività fiscale, che in questo provvedimento sarebbe totalmente assente.Un milione di Euro di certo non risolleverebbe le sorti del nostro comparto, ma potrebbe essere una grande boccata di ossigeno per decine di piccole aziende produttrici. Distribuirli a pochi e grossi costituirebbe un messaggio tragico per tantissimi piccoli imprenditori.  Partiamo dall'inizio: domani, dicevamo, si riapre. E spiace vedere che non c'è molto spazio alla gioia per la buona notizia, quanto disappunto per una riapertura che è percepita come non risolutiva per diverse ragioni - non tutti i pub e tap room dispongono di spazi all'aperto, possibilmente coperti per tutelarsi dal maltempo; esistono ancora pesanti limiti d'orario; la riapertura è stata comunicata poco più di una settimana prima, con conseguenti problemi di approvvigionamento e organizzazione; senza contare chi si chiede se a conti fatti non convenga incassare un pur misero ristoro (per chi l'ha incassato), piuttosto che tenere aperto a queste condizioni.Mi ha dato molto da riflettere il botta e risposta avvenuto alla trasmissione di La7 L'aria che tira tra il microbiologo Andrea Crisanti - probabilmente il più esposto mediaticamente in tutta la pandemia - e un ristoratore, che a fronte della contrarietà del primo alle riaperture ha ribattuto "Allora mi dia 200.000 euro, perché tanti ne ho persi quest'anno"; ricevendo in tutta risposta la replica "Mi spiace, non sono abituato a questo genere di discorsi, se lei avesse ricevuto i ristori non saremmo qui a parlarne". Ecco, credo che nel "non sono abituato a questi discorsi" stia il nocciolo della questione: è ormai un anno che il dialogo tra operatori economici, politica e scienziati (peraltro spesso additati di avere opinioni contraddittorie, più sul piano mediatico che su quello strettamente scientifico a dire il vero) appare sempre più un dialogo tra sordi. Gli uni paiono "non essere abituati" ai discorsi degli altri, finendo per non capire e non farsi capire, rendendo impossibile trovare una conciliazione almeno parziale tra posizioni inconciliabili. Difficile spiegare a chi vede il mondo dal punto di vista della circolazione virale, potendo contare al tempo stesso su uno stipendio, che non è solo questione di ristori, ma anche della dignità del poter lavorare; così come chi si è più che legittimamente sentito preso in giro da una serie di provvedimenti contraddittori, che hanno imposto requisiti stringenti prima di costringere comunque alla chiusura e senza adeguati sostegni, sarà disposto a dare fiducia a chi dice che è necessario attendere ancora. Non so se queste riaperture potranno costituire l'occasione per tornare a parlarsi trovando un nuovo equilibrio tra gli opposti, per quanto me lo auguri; sicuramente costituiranno un momento delicato per tutti, consumatori compresi, dato che il fattore tempo - perché la voglia di bere c'è ed è tanta, il problema è quando lo si potrà fare davvero, perché potrebbe essere troppo tardi per pub, birrifici e affini - è dirimente. In questo si inserisce anche il comunicato di Unionbirrai, in quanto legato agli aiuti previsti per fronteggiare il calo di fatturato dovuto alla pandemia. Ora, chi ha un po' di dimestichezza con l'ambiente potrà facilmente fare quello che gli inglesi chiamano educated guess su chi siano almeno i più noti tra questi otto; peraltro, tra quelli che io personalmente ho individuato, nessuno risulta essere socio Unionbirrai (stando all'elenco pubblicato nel sito dell'associazione). Il che, più che a fare inutile dietrologia su una vera o presunta volontà di Unionbirrai di tutelare i piccoli facendo guerra ai "grandi", porta semplicemente a ipotizzare che effettivamente ci siano esigenze diverse tra i birrifici più piccoli e quelli più grandi di questa soglia, portando a scegliere forme diverse per farsi rappresentare.  Anche qui pare di essere di fronte ad un altro caso di dialogo tra sordi: Unionbirrai era infatti sempre stata chiara su questo punto, come esplicitato nel comunicato; e, a meno di non ipotizzare retroscena di strane pressioni da parte di qualcuno degli otto birrifici interessati (cosa che non ho elementi per fare, e sarebbe davvero notevole se un qualche birrificio in Italia avesse tale peso politico), non si vede ragione diversa rispetto al voler includere qualcuno in più (ben otto imprese, signori!) nella platea di chi riceve un qualche beneficio - poi bisognerebbe naturalmente vedere caso per caso quanto effettivamente questo sconto incida per gli otto "grandi", per capire se questo finisca per essere di fatto un inefficace aiuto a pioggia.È un messaggio tragico? Tragico non lo so, grave sicuramente sì, perché c'è di che ritenere che i grandi abbiano in generale comunque avuto più strumenti per far fronte alla pandemia: in buona parte sono presenti nella gdo (dove le vendite sono cresciute), sono più strutturati per l'e-commerce; oltre a non essere di fatto imprese familiari, come molti piccoli birrifici sono, con un impatto più pesante sotto il profilo sociale oltre che economico sulle famiglie coinvolte. Investire di più su tante piccole imprese, piuttosto che su poche più grandi, avrebbe sicuramente avuto un ritorno maggiore.