Birre artigianali per tutte le stagioni: qualche riflessione

Ho avuto il piacere di condurre nella serata del 31 gennaio la degustazione "Birre artigianali per tutte le stagioni", organizzata dall'Associazione Birrai Artigiani Fvg e Confartigianato Udine. Non mi soffermo sulle quattro birre degustate - Pale Ale di Borderline, Dama Bianca di Antica Contea, Straripa di Villa Chazil e Orzobruno di Garlatti Costa - di cui ho già parlato a più riprese nel blog (per chi si fosse perso qualcosa, è sufficiente cliccare sui nomi delle birre in questione), quanto su alcuni spunti di riflessione che la serata di ieri mi ha stimolato.Innanzitutto, la partecipazione: i posti sono andati rapidamente esauriti. E fin qui, direte voi, finché le occasioni sono goderecce e la partecipazione è gratuita potrebbe non essere una grande notizia; ma è comunque significativa se si pensa che i numeri, pur in una serata invernale e di pioggia, sono stati comparabili a quelli registrati in un'occasione simile in una bella serata di inizio settembre. Insomma, per far uscire di casa la gente non basta offrire la birra - come sa bene chi organizza eventi -, bisogna stimolare l'interesse genuino del proprio gruppo di riferimento. E anche a questo proposito ho osservato una cosa che mi ha fatto piacere: una parte significativa degli intervenuti si accostava per la prima volta o quasi alla birra artigianale, e quindi questa poteva dirsi per me e per i birrai presenti - Severino di Garlatti Costa (mi si perdoni il gioco di parole) e Costantino di Antica Contea - l'occasione per fare quella tanto decantata "cultura della birra artigianale" nei confronti del "consumatore medio". Che magari - come hanno dimostrato le numerose e articolate domande rivolteci - di curiosità nei confronti del prodotto ne ha tante, ma non sempre ha a disposizione una fonte attendibile e pertinente per soddisfarle: e sentire persone che sono ai primi approcci con la birra artigianale chiedere quale sia la differenza tra la pale ale e la ipa, i dettagli del processo di lavorazione, i costi che vi stanno dietro, la differenza che la qualità delle materie prime può fare sul prodotto finito, e numerosissime altre questioni, è una bella soddisfazione.Un altro aspetto che mi ha dato da riflettere è stato il fatto che, tra le impressioni raccolte a fine degustazione, non ci sono state soltanto parole di apprezzamento per le birre - con tanto di assicurazioni, da parte di chi non le aveva mai provate, che in futuro vorrà berne ancora -, ma anche per l'attività culturale e di promozione svolta da Confartigianato e l'Associazione Birrai Artigiani. E questo mi fa pensare che, in un contesto in cui si fa un gran parlare di "unirsi per fare la forza", il messaggio che si passa al pubblico sotto questo profilo possa essere più forte e pregnante di quanto non si creda.Si ringrazia Sandro Shultz di Itinerari del Gusto per le fotografie.

Tra Pordenone e…Brooklyn

Venerdì 27 gennaio ho partecipato, al Palagurmé di Pordenone, alla degustazione dell'americana Brooklyn Brewery. Per gli appassionati di birre Usa non ha probabilmente bisogno di alcuna presentazione; per chi invece non la conoscesse, ricordo che è stata fondata nel 1988 a New York dal giornalista Steve Hindy e dal banchiere Tom Potter, a cui si è unito nel 1994 il birraio Garrett Oliver - che è tuttora l'"anima" del birrificio. Tra le curiosità va annoverato il fatto che il logo è stato disegnato da Milton Glaser, giunto alla celebrità per un altro logo, quello di "I love New York": un marchio d'autore, insomma, non solo per le birre ma anche per la grafica.L'incontro è stato interessante in primo luogo perché ha permesso, specie a chi come me non ha mai avuto modo di conoscere in prima persona il mondo birrario americano, di notare la differenza di approccio rispetto a quello a cui siamo abituati in patria. E non sto parlando solo di livello dimensionale (per la legislazione americana un birrificio può definirsi "craft" fino a 6 milioni di barili, oltre 7 milioni di ettolitri - Brooklyn ne ha prodotti 275 mila nel 2015, un "nano" -, e se è controllato per non più del 25% da un'altra società), ma anche a livello di marketing e comunicativo. A presentare il birrificio è stato infatti il "brand ambassador" (una sorta di "rappresentante 2.0", definiamolo così) Tommaso "Tommi" Locatelli, che lavora appunto per Brooklyn e Carlsberg Italia, a cui è affidata la distribuzione. E già qui c'è la prima osservazione da fare, ossia che in quel di New York non giudicano evidentemente lesivo della propria immagine di birrificio artigianale farsi distribuire da un'industria. A ciascuno decidere se essere o meno d'accordo, però è da prenderne nota. In secondo luogo, mi ha colpita l'approccio alla presentazione dell'azienda: una serie di slide, foto e video, che ripercorevano la storia del movimento craft negli Usa prima e del birrificio poi con uno stile molto improntato all'intrattenimento, quasi alla spettacolarizzazione (intesa nel senso di "fare spettacolo", senza accezioni denigratorie), facendo parlare il birraio, il fondatore, e altri ancora in una frizzante sequenza di immagini e musica - in un esempio da manuale del tanto decantato "storytelling" d'azienda. Molto "all'americana" insomma, verrebbe da dire, come è naturale che sia; però mi ha fatto riflettere su quanti birrifici italiani - vuoi per la dimensione più piccola che non consente di destinare molte risorse a questo settore, vuoi per un diverso approccio al marketing a livello culturale - usino sistemi altrettanto in grado di "catturare" il pubblico. Ovvio che se poi la bontà del prodotto non c'è la cosa è aria fritta (e, almeno idealmente, non porterà alcun frutto), però senz'altro ampia la platea di potenziali acquirenti specie tra chi è agli inizi del suo idillio con la birra artigianale. Significativo, del resto, che si decida di usare la figura del "brand ambassador" per portare in giro per l'Italia il marchio: una versione appunto più "evoluta" del classico rappresentante, occupandosi di far diventare ogni presentazione del prodotto un vero e proprio evento. Nulla che già non si faccia da qualche tempo, certo; però la cosa mi ha interpellato rispetto a quali vie i piccoli birrifici italiani intendano percorrere in questo senso.Detto ciò, torniamo a noi. Prima dell'evento ho avuto modo di fare una piacevole chiacchierata con Tommi, in merito alle vie che la promozione di Brooklyn intende percorrere: in particolare quella dell'abbinamento birra-cibo, per quanto un marchio così intrinsecamente americano come Brooklyn incontri non poche difficoltà nell'essere accostato a quelle che sono le tipicità culinarie nostrane. Sono due, per ora, le birre disponibili (su 57 referenze che ho contato nel listino attuale): la Brooklyn Lager e la Brooklyn East Ipa.La prima è definita "American Amber Lager": e in effetti l'anima americana compare già in prima battuta nella luppolatura (con tanto di dry hopping) che tuttavia unisce le due sponde dell'Atlantico (Ahtanum, Cascade, Saphir, Vanguard, Hallertauer Mittelfrueh), e rimane di un agrumato delicato. Ad amalgamarsi bene a livello aromatico ancor prima che gustativo è infatti la componente del malto Vienna, tra il caramellato e il biscotto, per un corpo di moderata intensità; e che dopo la sensazione di dolcezza al palato chiude però su un amaro delicato, con un finale meno secco e netto rispetto alle lager di stampo europeo. Mi sono trovata a commentare che, con una luppolatura un po' più carica, sarebbe quasi potuta passare per una apa, data la componente maltata abbastanza vigorosa - ma che non pregiudica la bevibilità. Nel complesso l'ho trovata gradevole e appunto facile a bersi, nonché originale nel panorama della lager.Siamo poi passati alla East Coast Ipa (da non confondere con le West Coast Ipa, mi raccomando, che gli americani se ne hanno a male: le East Coast hanno una luppolatura che richiama quelle "originarie" inglesi, più resinose, mentre le West Coast più fruttate, autenticamente "del Pacifico"). Sotto la schiuma notevolissima, che addentandola ha rivelato una potente sferzata di amaro resinoso (i luppoli usati sono Summit, Celeia, East Kent Golding, Centennial, Cascade, Amarillo) e fa il paio con l'aroma quasi di pino, si cela anche qui un corpo sui toni tostati e biscottati di intensità medio-alta, che chiude in maniera netta e secca - non gli si darebbero i sette gradi - con un amaro che è meno persistente di quanto la sua intensità potrebbe lasciar supporre. Ho trovato, a onor del vero, un certo retrogusto ferroso; non voglio chiaramente dare giudizi "con l'accetta" al primo assaggio, ma mi limito a constatare che in questo caso e a mio avviso è stato così.Chiudo citando una frase di Tommi che mi è sembrata racchiudere buona parte del senso della presentazione: "La birra deve dare emozioni: quella artigianale ne dà di più". E se si tratta di un "dare emozioni" non solo con il prodotto, ma anche con la maniera in cui lo si presenta, tanto di guadagnato.

Tra Pordenone e…Brooklyn

Venerdì 27 gennaio ho partecipato, al Palagurmé di Pordenone, alla degustazione dell'americana Brooklyn Brewery. Per gli appassionati di birre Usa non ha probabilmente bisogno di alcuna presentazione; per chi invece non la conoscesse, ricordo che è stata fondata nel 1987 a New York dal giornalista Steve Hindy e dal banchiere Tom Potter, a cui si è unito nel 1994 il birraio Garrett Oliver - che è tuttora l'"anima" del birrificio. Tra le curiosità va annoverato il fatto che il logo è stato disegnato da Milton Glaser, giunto alla celebrità per un altro logo, quello di "I love New York": un marchio d'autore, insomma, non solo per le birre ma anche per la grafica.L'incontro è stato interessante in primo luogo perché ha permesso, specie a chi come me non ha mai avuto modo di conoscere in prima persona il mondo birrario americano, di notare la differenza di approccio rispetto a quello a cui siamo abituati in patria. E non sto parlando solo di livello dimensionale (per la legislazione americana un birrificio può definirsi "craft" fino a 6 milioni di barili, oltre 7 milioni di ettolitri - Brooklyn ne produce 120 mila, un "nano" -, e se è controllato per non più del 25% da un'altra società), ma anche a livello di marketing e comunicativo. A presentare il birrificio è stato infatti il "brand ambassador" (una sorta di "rappresentante 2.0", definiamolo così) Tommaso "Tommi" Locatelli, che lavora appunto per Brooklyn e Carlsberg Italia, a cui è affidata la distribuzione. E già qui c'è la prima osservazione da fare, ossia che in quel di New York non giudicano evidentemente lesivo della propria immagine di birrificio artigianale farsi distribuire da un'industria. A ciascuno decidere se essere o meno d'accordo, però è da prenderne nota. In secondo luogo, mi ha colpita l'approccio alla presentazione dell'azienda: una serie di slide, foto e video, che ripercorevano la storia del movimento craft negli Usa prima e del birrificio poi con uno stile molto improntato all'intrattenimento, quasi alla spettacolarizzazione (intesa nel senso di "fare spettacolo", senza accezioni denigratorie), facendo parlare il birraio, il fondatore, e altri ancora in una frizzante sequenza di immagini e musica - in un esempio da manuale del tanto decantato "storytelling" d'azienda. Molto "all'americana" insomma, verrebbe da dire, come è naturale che sia; però mi ha fatto riflettere su quanti birrifici italiani - vuoi per la dimensione più piccola che non consente di destinare molte risorse a questo settore, vuoi per un diverso approccio al marketing a livello culturale - usino sistemi altrettanto in grado di "catturare" il pubblico. Ovvio che se poi la bontà del prodotto non c'è la cosa è aria fritta (e, almeno idealmente, non porterà alcun frutto), però senz'altro ampia la platea di potenziali acquirenti specie tra chi è agli inizi del suo idillio con la birra artigianale. Significativo, del resto, che si decida di usare la figura del "brand ambassador" per portare in giro per l'Italia il marchio: una versione appunto più "evoluta" del classico rappresentante, occupandosi di far diventare ogni presentazione del prodotto un vero e proprio evento. Nulla che già non si faccia da qualche tempo, certo; però la cosa mi ha interpellato rispetto a quali vie i piccoli birrifici italiani intendano percorrere in questo senso.Detto ciò, torniamo a noi. Prima dell'evento ho avuto modo di fare una piacevole chiacchierata con Tommi, in merito alle vie che la promozione di Brooklyn intende percorrere: in particolare quella dell'abbinamento birra-cibo, per quanto un marchio così intrinsecamente americano come Brooklyn incontri non poche difficoltà nell'essere accostato a quelle che sono le tipicità culinarie nostrane. Sono due, per ora, le birre disponibili (su 57 referenze che ho contato nel listino attuale): la Brooklyn Lager e la Brooklyn East Ipa.La prima è definita "American Amber Lager": e in effetti l'anima americana compare già in prima battuta nella luppolatura (con tanto di dry hopping) che tuttavia unisce le due sponde dell'Atlantico (Ahtanum, Cascade, Saphir, Vanguard, Hallertauer Mittelfrueh), e rimane di un agrumato delicato. Ad amalgamarsi bene a livello aromatico ancor prima che gustativo è infatti la componente del malto Vienna, tra il caramellato e il biscotto, per un corpo di moderata intensità; e che dopo la sensazione di dolcezza al palato chiude però su un amaro delicato, con un finale meno secco e netto rispetto alle lager di stampo europeo. Mi sono trovata a commentare che, con una luppolatura un po' più carica, sarebbe quasi potuta passare per una apa, data la componente maltata abbastanza vigorosa - ma che non pregiudica la bevibilità. Nel complesso l'ho trovata gradevole e appunto facile a bersi, nonché originale nel panorama della lager.Siamo poi passati alla East Coast Ipa (da non confondere con le West Coast Ipa, mi raccomando, che gli americani se ne hanno a male: le East Coast hanno una luppolatura che richiama quelle "originarie" inglesi, più resinose, mentre le West Coast più fruttate, autenticamente "del Pacifico"). Sotto la schiuma notevolissima, che addentandola ha rivelato una potente sferzata di amaro resinoso (i luppoli usati sono Summit, Celeia, East Kent Golding, Centennial, Cascade, Amarillo) e fa il paio con l'aroma quasi di pino, si cela anche qui un corpo sui toni tostati e biscottati di intensità medio-alta, che chiude in maniera netta e secca - non gli si darebbero i sette gradi - con un amaro che è meno persistente di quanto la sua intensità potrebbe lasciar supporre. Ho trovato, a onor del vero, un certo retrogusto ferroso; non voglio chiaramente dare giudizi "con l'accetta" al primo assaggio, ma mi limito a constatare che in questo caso e a mio avviso è stato così.Chiudo citando una frase di Tommi che mi è sembrata racchiudere buona parte del senso della presentazione: "La birra deve dare emozioni: quella artigianale ne dà di più". E se si tratta di un "dare emozioni" non solo con il prodotto, ma anche con la maniera in cui lo si presenta, tanto di guadagnato.

Birrai, birre e birrifici dell’anno

Domenica 22 gennaio sono stati annunciati i vincitori del premio Birraio dell'Anno, promosso dal 2009 da Fermento Birra. Al di là delle dovute congratulazioni ai vincitori delle due categorie - Marco Valeriani del Birrificio Hammer per la categoria senior, e Connor Gallagher Deeks di Hilltop per gli emergenti - come per ogni premio sono da subito corse sui social, se non le polemiche, quantomeno le "osservazioni": cito qui, semplicemente per averla vista comparire sulla mia bacheca di Facebook, la discussione nata su Accademia delle Birre in risposta alla proposta del fondatore, Paolo Erne, di rivedere i meccanismi con cui il premio viene assegnato - così da compensare gli squilibri di rappresentatività che alcune regioni a suo avviso patiscono, e quelli che si creano tra birrifici molto piccoli e quelli più grandi.Non entro qui nel merito della discussione, che peraltro è stata costruttiva nella misura in cui ha stimolato una serie di proposte - dalla giuria popolare, ad una giuria di birrai, ad un sistema misto di voto popolare, dei birrai e di altri esperti; certo è che per tutti i concorsi, non solo per Birraio dell'Anno, si pone non solo l'esigenza di rimanere "al passo con i tempi" - un regolamento "disegnato" su quella che era le realtà birraria anni fa potrebbe non essere più adatto a quella attuale - ma anche di mantenere il giusto equilibrio tra l'essere una bella manifestazione che riunisce operatori ed appassionati nel segno di una buona bevuta - il "bevi e un rompe er cazzo" di cui alcuni hanno fatto la propria linea guida - e l'andare a scandagliare in maniera tecnica la produzione dei birrifici. Senza contare la serie di "stilettate" che sempre segue l'assegnazione di un premio (perché, si sa, essere tutti d'accordo è difficile): dal ritenere che avrebbe dovuto vincere un birraio (o un birrificio, o una birra) piuttosto che un altro, alle critiche rivolte ad alcuni premi di essere diventati fenomeni "di cassetta" e macchine da soldi, in cui si vince se e solo se si riesce ad investire sia nella partecipazione in senso stretto (alcuni concorsi hanno quote di iscrizione non proprio modiche) che in distribuzione e marketing, o se si hanno certe conoscenze. Di qui la domanda: ma vale davvero la pena "accapigliarsi" per questi concorsi? Un titolo è davvero in grado di fare la differenza per un birrificio?Ho avuto modo di parlarne con Simone Dal Cortivo de Il Birrone, Birraio dell'Anno 2014 (oltre che titolare di diversi altri riconoscimenti ottenuti per le singole birre). "Molto dipende da come l'azienda è posizionata - ha affermato Simone -. Nel mio caso, si può dire che è arrivato nel momento giusto: avevamo appena investito per rinnovare il birrificio, e questo ha dato una buona mano a spingere avanti e a consolidare la posizione. Certo è difficile dire quanto sia stato dovuto al premio e quanto alle innovazioni che abbiamo portato, però i risultati ci sono stati appunto perché il riconoscimento ha sostenuto il percorso che già avevamo avviato". Secondo Simone il premio è quindi uno strumento, e come tale dipende da come viene utilizzato: "La chiave è essere un minimo strutturati come azienda, sia sotto il profilo produttivo che distributivo, per essere presente sul mercato. Ho visto birrai vincere premi anche prestigiosi, e magari ritornare poco dopo ad un profilo più basso appunto per questo motivo". Insomma, benissimo i premi, ma quando arrivano bisogna essere pronti a cogliere l'opportunità che questi offrono; altrimenti costituiscono sì una gratificazione importante, ma con risvolti pratici limitati.Un altro habitué dei podi è Gino Perissutti di Foglie d'Erba, Birraio dell'Anno 2011, e presenza stabile nel medagliere di numerosi concorsi; che, interpellato sulla questione, ha dimostrato di avere una quantità di cose da dire inversamente proporzionale ai suoi peli sulla lingua (si sa, i montanari sono gente che non la manda dire). "Ogni concorso va preso per quello che è, con pregi e difetti - ha affermato -. Non val certo la pena di stracciarsi le vesti se non premiati, ma se iscriviamo le birre ai concorsi un motivo ci sarà: da un lato la volontà e curiosità di far valutare i propri prodotti da degustatori qualificati, dall'altro l'innegabile piacere di ricevere un premio". In quanto al caso specifico di Birraio dell'Anno, Gino lo definisce "un concorso a sé, atipico e con diverse contraddizioni. Non nego il piacere di aver ricevuto tale riconoscimento e tanto meno la gioia nel vivere un week-end coi colleghi (ed amici!) in occasione delle premiazioni. Ma prendiamolo con le molle: se vinci non significa che tu sia per forza il più bravo. Ci sono davvero molti birrai altrettanto capaci ed innovativi che non riescono ad emergere, magari perché lavorano in birrifici microscopici con scarsissima distribuzione e non li conosce nessuno. Diciamo che è inevitabilmente un concorso che scende a molti compromessi e che, se non fosse stato trasformato in un vero e proprio evento, sarebbe probabilmente nel dimenticatoio. La mia premiazione è avvenuta in un noto locale romano di fronte a sì e no 30 persone, metà delle quali continuavano a bere la propira birra incuranti del tutto. L'anno successivo arrivai quinto, e in un noto locale milanese gli astanti saranno stati un centinaio. Ora il tutto si è trasformato in evento, organizzato molto bene, al Teatro Obihall di Firenze, e la premiazione avviene davanti a migliaia di persone. Direi che rende l'idea".Se quindi gli organizzatori hanno avuto, onore a loro, la capacità di far crescere il premio, il vero problema a detta di Gino è "la solita dietrologia italica che spunta ogni volta: se non vendi a Roma o Milano non vinci, se non sei amico del tale blogger non ti fila nessuno, se non hai le birre al tal pub o al tal evento sei fuori. No, semplicemente o fai birre buone con una certa continuità o non le fai. O sei creativo o non lo sei, o hai un certo comportamento con colleghi, addetti ai lavori, pubblico, o non ce l'hai. Per il resto, se accetti i meccanismi che fanno il premio in sé, ok, altrimenti liberissimi di non darvi peso. E' anche un premio difficilmente migliorabile: è e sarà sempre inevitabile che publican, degustatori, blogger o quant'altro vengano influenzati dalle simpatie verso un birraio col quale negli anni si instaura un certo feeling o dallo scarso feeling con qualcun altro. Com'è pressoché impossibile che le birre della gran parte dei birrifici vengano assaggiate nei pub i cui gestori hanno diritto di voto per più volte nell'anno, e con buona diffusione sul territorio nazionale. Dunque, premio importante e gran bell'evento, ma non diamogli troppa importanza". Anche riguardo ad altri concorsi, tra cui Gino cita Birra dell'Anno, "bella atmosfera e bel concorso, anche qui con dei limiti. Se vinci non significa che la tua birra sia la migliore d'Italia: semplicemente lo è stata per quel lotto, per quella giuria, in quella settimana. Sarebbe bello e giusto che venissero valutati lotti diversi, prodotti in momenti diversi dell'anno. Macome si fa? Appunto: compromessi, tutto bello e tutto migliorabile. Sta al singolo accettarlo e partecipare o non darci peso. Basta non scadere in bassezze tipo quelle di chi sosteneva che lo scorso anno ha vinto un birrificio del centro Italia solo perchè la birraia è donna ed era giusto inalzare le quote rosa in un mondo comunque piuttosto maschile e maschilista, perchè davvero mi vien da ridere. Le birre parlano: che sia davanti al cliente "x" che non ne sa e non ne vuole sapere nulla, che sia al banco del miglior pub d'Italia, o che sia altavolo di un giudice ad un concorso, o la birra è buona e piace o non lo è. Tutto qui".Anche riguardo alle vendite, un premio "certo aiuta per qualche mese. Poi, è sempre il mercato a determinarle. Conosco publican che se ne fregano alla grande dei premi, e anzi ne diffidano forse giustamente. Come ne conosco altri che ti comprano solo per quello, convinti di non sbagliare. Opinioni, scelte, idee. Tutto rispettabile. Per me è e dev'essere sempre il prodotto a parlare, a prescindere da qualunque riconoscimento".Da ultimo, un invito (al quale accosto, a titolo di buon auspicio, una foto di Gino con altri due birrai, Severino Garlatti Costa del birrificio omonimo e Costantino Tosoratti di Antica Contea): "Ora più che mai, piuttosto che cercare complotti, fantomatiche caste o logge della birra artigianale, disegni atti a creare nuove galassie luppolate ed abbattere mostri sacri divenuti scomodi, porporrei piuttosto due cose: remiamo tutti verso il riconoscimento della vera birra italiana di qualità, che esiste ed è realtà concreta. Uniamoci, piuttosto che dividere il poco che abbiamo costruito in questi anni. Va bene Birraio dell'Anno, va bene Birra dell'anno, va benissimo Unionbirrai. Partiamo da qui e facciamo capire chi siamo e cosa facciamo. Di bello, etico e pulito. E, per finire, godiamoci le nostre birre italiane senza darci troppo peso o importanza. Relax, dont'worry and support you local (Italian) Brewery!".

Birrai, birre e birrifici dell’anno

Domenica 22 gennaio sono stati annunciati i vincitori del premio Birraio dell'Anno, promosso dal 2009 da Fermento Birra. Al di là delle dovute congratulazioni ai vincitori delle due categorie - Marco Valeriani del Birrificio Hammer per la categoria senior, e Connor Gallagher Deeks di Hilltop per gli emergenti - come per ogni premio sono da subito corse sui social, se non le polemiche, quantomeno le "osservazioni": cito qui, semplicemente per averla vista comparire sulla mia bacheca di Facebook, la discussione nata su Accademia delle Birre in risposta alla proposta del fondatore, Paolo Erne, di rivedere i meccanismi con cui il premio viene assegnato - così da compensare gli squilibri di rappresentatività che alcune regioni a suo avviso patiscono, e quelli che si creano tra birrifici molto piccoli e quelli più grandi.Non entro qui nel merito della discussione, che peraltro è stata costruttiva nella misura in cui ha stimolato una serie di proposte - dalla giuria popolare, ad una giuria di birrai, ad un sistema misto di voto popolare, dei birrai e di altri esperti; certo è che per tutti i concorsi, non solo per Birraio dell'Anno, si pone non solo l'esigenza di rimanere "al passo con i tempi" - un regolamento "disegnato" su quella che era le realtà birraria anni fa potrebbe non essere più adatto a quella attuale - ma anche di mantenere il giusto equilibrio tra l'essere una bella manifestazione che riunisce operatori ed appassionati nel segno di una buona bevuta - il "bevi e un rompe er cazzo" di cui alcuni hanno fatto la propria linea guida - e l'andare a scandagliare in maniera tecnica la produzione dei birrifici. Senza contare la serie di "stilettate" che sempre segue l'assegnazione di un premio (perché, si sa, essere tutti d'accordo è difficile): dal ritenere che avrebbe dovuto vincere un birraio (o un birrificio, o una birra) piuttosto che un altro, alle critiche rivolte ad alcuni premi di essere diventati fenomeni "di cassetta" e macchine da soldi, in cui si vince se e solo se si riesce ad investire sia nella partecipazione in senso stretto (alcuni concorsi hanno quote di iscrizione non proprio modiche) che in distribuzione e marketing, o se si hanno certe conoscenze. Di qui la domanda: ma vale davvero la pena "accapigliarsi" per questi concorsi? Un titolo è davvero in grado di fare la differenza per un birrificio?Ho avuto modo di parlarne con Simone Dal Cortivo de Il Birrone, Birraio dell'Anno 2014 (oltre che titolare di diversi altri riconoscimenti ottenuti per le singole birre). "Molto dipende da come l'azienda è posizionata - ha affermato Simone -. Nel mio caso, si può dire che è arrivato nel momento giusto: avevamo appena investito per rinnovare il birrificio, e questo ha dato una buona mano a spingere avanti e a consolidare la posizione. Certo è difficile dire quanto sia stato dovuto al premio e quanto alle innovazioni che abbiamo portato, però i risultati ci sono stati appunto perché il riconoscimento ha sostenuto il percorso che già avevamo avviato". Secondo Simone il premio è quindi uno strumento, e come tale dipende da come viene utilizzato: "La chiave è essere un minimo strutturati come azienda, sia sotto il profilo produttivo che distributivo, per essere presente sul mercato. Ho visto birrai vincere premi anche prestigiosi, e magari ritornare poco dopo ad un profilo più basso appunto per questo motivo". Insomma, benissimo i premi, ma quando arrivano bisogna essere pronti a cogliere l'opportunità che questi offrono; altrimenti costituiscono sì una gratificazione importante, ma con risvolti pratici limitati.Un altro habitué dei podi è Gino Perissutti di Foglie d'Erba, Birraio dell'Anno 2011, e presenza stabile nel medagliere di numerosi concorsi; che, interpellato sulla questione, ha dimostrato di avere una quantità di cose da dire inversamente proporzionale ai suoi peli sulla lingua (si sa, i montanari sono gente che non la manda dire). "Ogni concorso va preso per quello che è, con pregi e difetti - ha affermato -. Non val certo la pena di stracciarsi le vesti se non premiati, ma se iscriviamo le birre ai concorsi un motivo ci sarà: da un lato la volontà e curiosità di far valutare i propri prodotti da degustatori qualificati, dall'altro l'innegabile piacere di ricevere un premio". In quanto al caso specifico di Birraio dell'Anno, Gino lo definisce "un concorso a sé, atipico e con diverse contraddizioni. Non nego il piacere di aver ricevuto tale riconoscimento e tanto meno la gioia nel vivere un week-end coi colleghi (ed amici!) in occasione delle premiazioni. Ma prendiamolo con le molle: se vinci non significa che tu sia per forza il più bravo. Ci sono davvero molti birrai altrettanto capaci ed innovativi che non riescono ad emergere, magari perché lavorano in birrifici microscopici con scarsissima distribuzione e non li conosce nessuno. Diciamo che è inevitabilmente un concorso che scende a molti compromessi e che, se non fosse stato trasformato in un vero e proprio evento, sarebbe probabilmente nel dimenticatoio. La mia premiazione è avvenuta in un noto locale romano di fronte a sì e no 30 persone, metà delle quali continuavano a bere la propira birra incuranti del tutto. L'anno successivo arrivai quinto, e in un noto locale milanese gli astanti saranno stati un centinaio. Ora il tutto si è trasformato in evento, organizzato molto bene, al Teatro Obihall di Firenze, e la premiazione avviene davanti a migliaia di persone. Direi che rende l'idea".Se quindi gli organizzatori hanno avuto, onore a loro, la capacità di far crescere il premio, il vero problema a detta di Gino è "la solita dietrologia italica che spunta ogni volta: se non vendi a Roma o Milano non vinci, se non sei amico del tale blogger non ti fila nessuno, se non hai le birre al tal pub o al tal evento sei fuori. No, semplicemente o fai birre buone con una certa continuità o non le fai. O sei creativo o non lo sei, o hai un certo comportamento con colleghi, addetti ai lavori, pubblico, o non ce l'hai. Per il resto, se accetti i meccanismi che fanno il premio in sé, ok, altrimenti liberissimi di non darvi peso. E' anche un premio difficilmente migliorabile: è e sarà sempre inevitabile che publican, degustatori, blogger o quant'altro vengano influenzati dalle simpatie verso un birraio col quale negli anni si instaura un certo feeling o dallo scarso feeling con qualcun altro. Com'è pressoché impossibile che le birre della gran parte dei birrifici vengano assaggiate nei pub i cui gestori hanno diritto di voto per più volte nell'anno, e con buona diffusione sul territorio nazionale. Dunque, premio importante e gran bell'evento, ma non diamogli troppa importanza". Anche riguardo ad altri concorsi, tra cui Gino cita Birra dell'Anno, "bella atmosfera e bel concorso, anche qui con dei limiti. Se vinci non significa che la tua birra sia la migliore d'Italia: semplicemente lo è stata per quel lotto, per quella giuria, in quella settimana. Sarebbe bello e giusto che venissero valutati lotti diversi, prodotti in momenti diversi dell'anno. Macome si fa? Appunto: compromessi, tutto bello e tutto migliorabile. Sta al singolo accettarlo e partecipare o non darci peso. Basta non scadere in bassezze tipo quelle di chi sosteneva che lo scorso anno ha vinto un birrificio del centro Italia solo perchè la birraia è donna ed era giusto inalzare le quote rosa in un mondo comunque piuttosto maschile e maschilista, perchè davvero mi vien da ridere. Le birre parlano: che sia davanti al cliente "x" che non ne sa e non ne vuole sapere nulla, che sia al banco del miglior pub d'Italia, o che sia altavolo di un giudice ad un concorso, o la birra è buona e piace o non lo è. Tutto qui".Anche riguardo alle vendite, un premio "certo aiuta per qualche mese. Poi, è sempre il mercato a determinarle. Conosco publican che se ne fregano alla grande dei premi, e anzi ne diffidano forse giustamente. Come ne conosco altri che ti comprano solo per quello, convinti di non sbagliare. Opinioni, scelte, idee. Tutto rispettabile. Per me è e dev'essere sempre il prodotto a parlare, a prescindere da qualunque riconoscimento".Da ultimo, un invito (al quale accosto, a titolo di buon auspicio, una foto di Gino con altri due birrai, Severino Garlatti Costa del birrificio omonimo e Costantino Tosoratti di Antica Contea): "Ora più che mai, piuttosto che cercare complotti, fantomatiche caste o logge della birra artigianale, disegni atti a creare nuove galassie luppolate ed abbattere mostri sacri divenuti scomodi, porporrei piuttosto due cose: remiamo tutti verso il riconoscimento della vera birra italiana di qualità, che esiste ed è realtà concreta. Uniamoci, piuttosto che dividere il poco che abbiamo costruito in questi anni. Va bene Birraio dell'Anno, va bene Birra dell'anno, va benissimo Unionbirrai. Partiamo da qui e facciamo capire chi siamo e cosa facciamo. Di bello, etico e pulito. E, per finire, godiamoci le nostre birre italiane senza darci troppo peso o importanza. Relax, dont'worry and support you local (Italian) Brewery!".

Incontri in quel di Cittavecchia

E rieccomi, dopo un lungo periodo di assenza tra vacanze di Natale e dintorni.Uno dei miei primi appuntamenti dell'anno nuovo è stato la visita al birrificio Cittavecchia, in quel di Sgonico (Trieste), che già conoscevo ma dove non mi ero mai recata di persona. Si imponeva quindi una visita, anche per fare due chiacchiere in merito al cambiamento intervenuto con il cambio di proprietà l'estate scorsa, quando l'enologo Giulio Ceschin con alcuni soci ha rilevato il birrificio. Non mi soffermo qui sui dettagli della chiacchierata con loro sulla storia del birrificio, sulle ragioni della cessione e sui progetti futuri - che anticipo già saranno oggetto di un articolo a sé, rimanete sintonizzati; quanto piuttosto su alcune riflessioni che suddetta chiacchierata mi ha stimolato.In primo luogo ci sono quelle legate all'aspetto "pionieristico" di Cittavecchia, che ha aperto nel 1999, tra i primi birrifici artigianali in Italia, ispirato - ancor più che da Baladin o dal Birrificio Italiano, realtà relativamente lontane - da esperienze come quella del Mastro Birraio di San Giovanni al Natisone (il primo ad aprire, nel 1991). La stessa generazione di Zahre, giusto per citarne uno di cui ho parlato spesso, che ha aperto pochi mesi dopo. E in effetti si possono riconoscere caratteristiche comuni: sono entrambi partiti con birre a bassa fermentazione, nel solco della tradizione tedesca - dopotutto qui ha sventolato bandiera austroungarica fino a cent'anni fa -, semplici a bersi e di poche tipologie - quattro quelle "storiche" per entrambi - e per anni hanno mantenuto la loro offerta invariata. I tempi dei birrifici e delle nuove birre che spuntano ogni giorno, nonché delle esuberanti luppolature americane, erano ben al di là da venire; e questi due birrifici hanno avuto evidentemente modo di crearsi un loro pubblico su pochi prodotti consolidati, che non sono stati "scalfiti" nemmeno dagli ultimi sviluppi del mercato birrario che sembrerebbero imporre novità costanti. Certo, i due non sono rimasti fermi: Cittavecchia, partita con Chiara, Rossa e Weizen, ha con il tempo introdotto la strong ale Formidable, la stout Karnera, la natalizia San Nicolò, fino "cedere" alle lusinghe del luppolo con la ipa Lipa; e Zahre, dopo i "cavalli di battaglia" Pilsen, Rossa, Affumicata e Canapa (che ha conosciuto peraltro significative evoluzioni), ha fatto prima qualche sperimentazione con la ipa Primavera e la Coffea al caffè, fino a consolidare la apa Ouber Zahre. Ma il loro nome rimane comunque legato alle birre storiche, che sembrano non patire troppo l'arrivo di sorelle minori - anche perché, azzardo a dire, in virtù della loro semplicità sono appetibili ad un pubblico più vasto.Chi ha iniziato prima, dunque, fa tuttora della semplicità e della costanza il suo punto di forza? Osservazione certo non generalizzabile - basti pensare appunto al già citato Baladin, che ha invece scelto altre strategie - però i pionieri appaiono più di altri aver puntare su questa via: se da anni fanno quelle quattro birre, e le fanno bene, non sentono evidentemente il bisogno di fare i fuochi d'artificio per dimostrare di sapere il fatto loro - al più perfezionano, perché non si smette mai di imparare, e innovano magari sul fronte del marketing o dei serivizi offerti.La seconda riflessione è legata al cambiamento di mentalità e del modo di operare nel campo della birra artigianale. Come spiegherò più dettagliatamente nell'intervista, una delle ragioni dietro al passaggio di proprietà è stata la constatazione da parte di Michele (a sinistra nella foto) che i tempi sono cambiati: fare buona birra artigianale è condizione necessaria ma non sufficiente, servono capacità commerciali e di marketing - con relativo personale dedicato, possibilmente - che fino a pochi anni fa non venivano nemmeno prese in considerazione. Di qui la volontà di passare la mano a qualcuno che meglio "masticasse" questi temi, e con cui ritrovarsi su un progetto condiviso di crescita per il birrificio.E fino a qui, niente di rivoluzionario. Mi hanno però colpito alcune osservazioni in proposito di Giulio, che definendosi "esterno" proveniente dal mondo del vino, si pone da un punto di osservazione diverso da quello dei mastri birrai. "Nel mondo del vino mi sono trovato in un ambiente dove già c'è una cultura e formazione consolidata, dalle scuole di enologia ai sommelier; e devo dire che mi ha sopreso vedere invece come, nel mondo della birra artigianale, molti si siano invece fatti da sé". Senza sindacare sulla bontà dei risultati ottenuti da queste persone, Giulio si è quindi trovato a chiedersi se non serva maggior struttura e una diversificazione della squadra di lavoro che consenta di affrontare le mutate condizioni (così come ha fatto Cittavecchia, appunto) portando un termine di confronto che in queste zone è particolarmente pregnante. "Pensiamo al triangolo della sedia. Tanti imprenditori sono partiti da poveri, sono cresciuti con il boom, e quando gli affari hanno cominciato ad andare male hanno continuato a lavorare come prima e più di prima senza però dare una vera svolta, finendo per ritornare poveri senza nemmeno accorgersi di essere stati ricchi". Se davvero, come alcuni sostengono, nel settore della birra artigianale vedremo un calo dopo il boom, "Non vorrei che succedesse la stessa cosa per mancanza di capacità di capire che, se le cose vanno male, devi cambiare modo di farle - o fare qualcosa di diverso - prima che sia troppo tardi". Un settore insomma, quello della birra artigianale, che - senza voler scimmiottare il vino a tutti i costi, né sacrificare lo spirito che lo anima sull'altare del business - ha ancora da maturare sotto il profilo strettamente aziendale, condizione per espandersi al di là della minima percentuale di mercato che attualmente occupa.Da ultimo, una menzione sulle birre. Già avevo assaggiato la Chiara e la Lipa, quindi qui riservo due parole alla Formidable, strong ale di ispirazione belga nata come birra di Natale e poi mantenuta come birra a sé. Se al naso il profumo del lievito belga, tra spezie e frutta matura, risalta bene, in bocca mi ha inizialmente ricordato quasi di più le Doppelbock tedesche, con un corpo sì discretamente pieno (ma meno di una strong ale belga "classica"), caldo e maltato, ma senza alcun ulteriore "fronzolo" né reminescenze del lievito di cui sopra - tanto che il finale risultava abbastanza secco e pulito per il genere, con tanto di leggeranota di amaro in seconda battuta. Come c'era da aspettarsi da una birra così, tuttavia, le evoluzioni con la temperatura sono notevoli: e man mano che si scalda si evidenziano di più i profumi, che arrivano a comprendere anche la ciliegia sotto spirito e finanche leggeri toni di legno e di tostato, mentre risalta di più anche la nota alcolica finale - pur non arrivando ad essere eccessiva. Rimane comunque una birra che mi ha dato l'impressione di unire la sensibilità di Michele, più vicino appunto alla tradizione tedesca, con quella belga, volendo mantenere una certa sobrietà pur all'interno dei toni forti.Di nuovo un grazie per l'ospitalità a Michele, Giulio e Federica, e rimanete sintonizzati per il resto del resoconto!

Incontri in quel di Cittavecchia

E rieccomi, dopo un lungo periodo di assenza tra vacanze di Natale e dintorni.Uno dei miei primi appuntamenti dell'anno nuovo è stato la visita al birrificio Cittavecchia, in quel di Sgonico (Trieste), che già conoscevo ma dove non mi ero mai recata di persona. Si imponeva quindi una visita, anche per fare due chiacchiere in merito al cambiamento intervenuto con il cambio di proprietà l'estate scorsa, quando l'enologo Giulio Ceschin con alcuni soci ha rilevato il birrificio. Non mi soffermo qui sui dettagli della chiacchierata con loro sulla storia del birrificio, sulle ragioni della cessione e sui progetti futuri - che anticipo già saranno oggetto di un articolo a sé, rimanete sintonizzati; quanto piuttosto su alcune riflessioni che suddetta chiacchierata mi ha stimolato.In primo luogo ci sono quelle legate all'aspetto "pionieristico" di Cittavecchia, che ha aperto nel 1999, tra i primi birrifici artigianali in Italia, ispirato - ancor più che da Baladin o dal Birrificio Italiano, realtà relativamente lontane - da esperienze come quella del Mastro Birraio di San Giovanni al Natisone (il primo ad aprire, nel 1991). La stessa generazione di Zahre, giusto per citarne uno di cui ho parlato spesso, che ha aperto pochi mesi dopo. E in effetti si possono riconoscere caratteristiche comuni: sono entrambi partiti con birre a bassa fermentazione, nel solco della tradizione tedesca - dopotutto qui ha sventolato bandiera austroungarica fino a cent'anni fa -, semplici a bersi e di poche tipologie - quattro quelle "storiche" per entrambi - e per anni hanno mantenuto la loro offerta invariata. I tempi dei birrifici e delle nuove birre che spuntano ogni giorno, nonché delle esuberanti luppolature americane, erano ben al di là da venire; e questi due birrifici hanno avuto evidentemente modo di crearsi un loro pubblico su pochi prodotti consolidati, che non sono stati "scalfiti" nemmeno dagli ultimi sviluppi del mercato birrario che sembrerebbero imporre novità costanti. Certo, i due non sono rimasti fermi: Cittavecchia, partita con Chiara, Rossa e Weizen, ha con il tempo introdotto la strong ale Formidable, la stout Karnera, la natalizia San Nicolò, fino "cedere" alle lusinghe del luppolo con la ipa Lipa; e Zahre, dopo i "cavalli di battaglia" Pilsen, Rossa, Affumicata e Canapa (che ha conosciuto peraltro significative evoluzioni), ha fatto prima qualche sperimentazione con la ipa Primavera e la Coffea al caffè, fino a consolidare la apa Ouber Zahre. Ma il loro nome rimane comunque legato alle birre storiche, che sembrano non patire troppo l'arrivo di sorelle minori - anche perché, azzardo a dire, in virtù della loro semplicità sono appetibili ad un pubblico più vasto.Chi ha iniziato prima, dunque, fa tuttora della semplicità e della costanza il suo punto di forza? Osservazione certo non generalizzabile - basti pensare appunto al già citato Baladin, che ha invece scelto altre strategie - però i pionieri appaiono più di altri aver puntare su questa via: se da anni fanno quelle quattro birre, e le fanno bene, non sentono evidentemente il bisogno di fare i fuochi d'artificio per dimostrare di sapere il fatto loro - al più perfezionano, perché non si smette mai di imparare, e innovano magari sul fronte del marketing o dei serivizi offerti.La seconda riflessione è legata al cambiamento di mentalità e del modo di operare nel campo della birra artigianale. Come spiegherò più dettagliatamente nell'intervista, una delle ragioni dietro al passaggio di proprietà è stata la constatazione da parte di Michele (a sinistra nella foto) che i tempi sono cambiati: fare buona birra artigianale è condizione necessaria ma non sufficiente, servono capacità commerciali e di marketing - con relativo personale dedicato, possibilmente - che fino a pochi anni fa non venivano nemmeno prese in considerazione. Di qui la volontà di passare la mano a qualcuno che meglio "masticasse" questi temi, e con cui ritrovarsi su un progetto condiviso di crescita per il birrificio.E fino a qui, niente di rivoluzionario. Mi hanno però colpito alcune osservazioni in proposito di Giulio, che definendosi "esterno" proveniente dal mondo del vino, si pone da un punto di osservazione diverso da quello dei mastri birrai. "Nel mondo del vino mi sono trovato in un ambiente dove già c'è una cultura e formazione consolidata, dalle scuole di enologia ai sommelier; e devo dire che mi ha sopreso vedere invece come, nel mondo della birra artigianale, molti si siano invece fatti da sé". Senza sindacare sulla bontà dei risultati ottenuti da queste persone, Giulio si è quindi trovato a chiedersi se non serva maggior struttura e una diversificazione della squadra di lavoro che consenta di affrontare le mutate condizioni (così come ha fatto Cittavecchia, appunto) portando un termine di confronto che in queste zone è particolarmente pregnante. "Pensiamo al triangolo della sedia. Tanti imprenditori sono partiti da poveri, sono cresciuti con il boom, e quando gli affari hanno cominciato ad andare male hanno continuato a lavorare come prima e più di prima senza però dare una vera svolta, finendo per ritornare poveri senza nemmeno accorgersi di essere stati ricchi". Se davvero, come alcuni sostengono, nel settore della birra artigianale vedremo un calo dopo il boom, "Non vorrei che succedesse la stessa cosa per mancanza di capacità di capire che, se le cose vanno male, devi cambiare modo di farle - o fare qualcosa di diverso - prima che sia troppo tardi". Un settore insomma, quello della birra artigianale, che - senza voler scimmiottare il vino a tutti i costi, né sacrificare lo spirito che lo anima sull'altare del business - ha ancora da maturare sotto il profilo strettamente aziendale, condizione per espandersi al di là della minima percentuale di mercato che attualmente occupa.Da ultimo, una menzione sulle birre. Già avevo assaggiato la Chiara e la Lipa, quindi qui riservo due parole alla Formidable, strong ale di ispirazione belga nata come birra di Natale e poi mantenuta come birra a sé. Se al naso il profumo del lievito belga, tra spezie e frutta matura, risalta bene, in bocca mi ha inizialmente ricordato quasi di più le Doppelbock tedesche, con un corpo sì discretamente pieno (ma meno di una strong ale belga "classica"), caldo e maltato, ma senza alcun ulteriore "fronzolo" né reminescenze del lievito di cui sopra - tanto che il finale risultava abbastanza secco e pulito per il genere, con tanto di leggeranota di amaro in seconda battuta. Come c'era da aspettarsi da una birra così, tuttavia, le evoluzioni con la temperatura sono notevoli: e man mano che si scalda si evidenziano di più i profumi, che arrivano a comprendere anche la ciliegia sotto spirito e finanche leggeri toni di legno e di tostato, mentre risalta di più anche la nota alcolica finale - pur non arrivando ad essere eccessiva. Rimane comunque una birra che mi ha dato l'impressione di unire la sensibilità di Michele, più vicino appunto alla tradizione tedesca, con quella belga, volendo mantenere una certa sobrietà pur all'interno dei toni forti.Di nuovo un grazie per l'ospitalità a Michele, Giulio e Federica, e rimanete sintonizzati per il resto del resoconto!

Birrai Artigiani Friuli Venezia Giulia: l’intervista al presidente Severino Garlatti Costa

In questo ultimo giorno dell'anno, riporto qui sotto l'intervista a Severino Garlatti Costa pubblicata ieri a mia firma su Il Giornale della Birra. Buona lettura e buon anno!Una delle criticità che più spesso è stata lamentata dai birrai artigiani è l’assenza di una vera e propria associazione di categoria: e infatti in alcune Regioni ci si è mossi in questo senso, spesso grazie anche al sostegno di Confartigianato. Tra queste c’è il Friuli Venezia Giulia, dove nel luglio del 2015 è stata fondata l’Associazione Birrai Artigiani Fvg: i suoi scopi, come specificato dallo statuto, vanno dalla consulenza in campo formativo, legale e fiscale, alla promozione di eventi e iniziative di vario genere e dei contatti tra birrai, alla sensibilizzazione del consumatore e degli enti pubblici, alla creazione di sorta di “gruppi di acquisto solidale” per le materie prime. Il Giornale della Birra ha incontrato Severino Garlatti Costa, titolare del birrificio Garlatti Costa di Forgaria, e presidente dell’Associazione – che oggi conta una quindicina di soci, su una trentina tra birrifici e beerfirm presenti in Regione.Quali sono stati i principali traguardi raggiunti dall’Associazione in questo primo anno di vita?Il risultato più immediatamente “visibile” è stato l’essere riusciti ad organizzare numerosi eventi insieme, da Friulidoc, all’Artigiano in Fiera; e fondamentali sono state in questo senso le collaborazioni con Ersa (l’Ente Regionale per lo Sviluppo Rurale) e Confartigianato. Ma è stata proficua anche la collaborazione con le istituzioni, che già da tempo spingevano per avere un interlocutore unico: oggi abbiamo un rapporto continuativo con diversi consiglieri regionali, che ci consente di far presente le necessità del settore – dalle normative agricole alla promozione del prodotto – e devo dire che abbiamo trovato ascolto. Inoltre la Regione può porsi come mediatore tra noi e altre istituzioni, come l’Agenzia delle Dogane.Quali sono state invece le principali difficoltà?Innanzitutto il fatto che ciascun birrificio, essendo tutti di piccola dimensione, ha poco tempo da dedicare a mettere a frutto tutte le possibilità che l’Associazione apre: senz’altro servirebbero altre persone per sviluppare i vari progetti. Inoltre, ma non è certo un problema dei soli birrifici, non tutti capiscono l’importanza del mettersi insieme e fare massa critica: come singoli siamo inascoltati.Ci sono delle specificità della Regione che possono essere utilmente messe a frutto da voi birrai artigiani?Il fatto di essere tutti di piccola dimensione, e almeno per ora non numerosissimi, pur essendo per certi versi un limite ci consente di avere più agevolmente contatti diretti tra di noi. Inoltre siamo la Regione è è partita per prima nel campo della divulgazione culturale nel settore birrario, con la preziosa opera del prof. Buiatti dell’Università di Udine. Altre Regioni, come la Lombardia e il Veneto, ci hanno poi superati sotto questo profilo e mi rammarico che non si sia cresciuti con lo stesso entusiasmo; ma rimane comunque come punto di forza e come stimolo a dare nuovo slancio il “vantaggio d’immagine” di essere partiti per primi.Quali sono i progetti e prospettive per il futuro?Senz’altro il lavoro da fare per crescere come Associazione non manca. Alla Regione abbiamo proposto la costituzione di un tavolo permanente con il nostro settore, e di farci conoscere attraverso le manifestazioni a cui la Regione partecipa all’estero: il mondo del vino già è presente, per cui possiamo esserlo anche noi. Tra i progetti che ci sono cari c’è poi la creazione di una piccola malteria, dando seguito alle sperimentazioni già fatte all’Università.Come vedi invece, più al largo, il futuro del settore in Italia?Dalle ultime analisi uscite è emerso ciò che già da qualche tempo noi operatori avevamo visto “sul campo”, ossia che esistono tre tipologie di birrifici artigianali: i piccoli e i brewpub, che lavorando su piccola scala e a livello locale fanno del poter vendere direttamente l’intera produzione il loro punto di forza; i “grandi”, che vogliono investire per crescere pur rimanendo artigianali, e devono strutturarsi in maniera adeguata per poter sfruttare le economie di scala; e in mezzo i “medi”, che hanno costi fissi paragonabili a quelli dei grandi, ma non riescono a sfruttare quelle stesse economie di scala né a basarsi solo sulla vendita diretta come i piccoli. Per i primi vedo un buon futuro, anche a fronte della crescita vertiginosa del numero di birrifici artigianali, grazie al loro radicamento sul territorio; così come sono ottimista per i secondi, purché a condurli ci sia qualcuno che ha una visione imprenditoriale. Per i terzi, invece, vedo una situazione più critica.

Birrai Artigiani Friuli Venezia Giulia: l’intervista al presidente Severino Garlatti Costa

In questo ultimo giorno dell'anno, riporto qui sotto l'intervista a Severino Garlatti Costa pubblicata ieri a mia firma su Il Giornale della Birra. Buona lettura e buon anno!Una delle criticità che più spesso è stata lamentata dai birrai artigiani è l’assenza di una vera e propria associazione di categoria: e infatti in alcune Regioni ci si è mossi in questo senso, spesso grazie anche al sostegno di Confartigianato. Tra queste c’è il Friuli Venezia Giulia, dove nel luglio del 2015 è stata fondata l’Associazione Birrai Artigiani Fvg: i suoi scopi, come specificato dallo statuto, vanno dalla consulenza in campo formativo, legale e fiscale, alla promozione di eventi e iniziative di vario genere e dei contatti tra birrai, alla sensibilizzazione del consumatore e degli enti pubblici, alla creazione di sorta di “gruppi di acquisto solidale” per le materie prime. Il Giornale della Birra ha incontrato Severino Garlatti Costa, titolare del birrificio Garlatti Costa di Forgaria, e presidente dell’Associazione – che oggi conta una quindicina di soci, su una trentina tra birrifici e beerfirm presenti in Regione.Quali sono stati i principali traguardi raggiunti dall’Associazione in questo primo anno di vita?Il risultato più immediatamente “visibile” è stato l’essere riusciti ad organizzare numerosi eventi insieme, da Friulidoc, all’Artigiano in Fiera; e fondamentali sono state in questo senso le collaborazioni con Ersa (l’Ente Regionale per lo Sviluppo Rurale) e Confartigianato. Ma è stata proficua anche la collaborazione con le istituzioni, che già da tempo spingevano per avere un interlocutore unico: oggi abbiamo un rapporto continuativo con diversi consiglieri regionali, che ci consente di far presente le necessità del settore – dalle normative agricole alla promozione del prodotto – e devo dire che abbiamo trovato ascolto. Inoltre la Regione può porsi come mediatore tra noi e altre istituzioni, come l’Agenzia delle Dogane.Quali sono state invece le principali difficoltà?Innanzitutto il fatto che ciascun birrificio, essendo tutti di piccola dimensione, ha poco tempo da dedicare a mettere a frutto tutte le possibilità che l’Associazione apre: senz’altro servirebbero altre persone per sviluppare i vari progetti. Inoltre, ma non è certo un problema dei soli birrifici, non tutti capiscono l’importanza del mettersi insieme e fare massa critica: come singoli siamo inascoltati.Ci sono delle specificità della Regione che possono essere utilmente messe a frutto da voi birrai artigiani?Il fatto di essere tutti di piccola dimensione, e almeno per ora non numerosissimi, pur essendo per certi versi un limite ci consente di avere più agevolmente contatti diretti tra di noi. Inoltre siamo la Regione è è partita per prima nel campo della divulgazione culturale nel settore birrario, con la preziosa opera del prof. Buiatti dell’Università di Udine. Altre Regioni, come la Lombardia e il Veneto, ci hanno poi superati sotto questo profilo e mi rammarico che non si sia cresciuti con lo stesso entusiasmo; ma rimane comunque come punto di forza e come stimolo a dare nuovo slancio il “vantaggio d’immagine” di essere partiti per primi.Quali sono i progetti e prospettive per il futuro?Senz’altro il lavoro da fare per crescere come Associazione non manca. Alla Regione abbiamo proposto la costituzione di un tavolo permanente con il nostro settore, e di farci conoscere attraverso le manifestazioni a cui la Regione partecipa all’estero: il mondo del vino già è presente, per cui possiamo esserlo anche noi. Tra i progetti che ci sono cari c’è poi la creazione di una piccola malteria, dando seguito alle sperimentazioni già fatte all’Università.Come vedi invece, più al largo, il futuro del settore in Italia?Dalle ultime analisi uscite è emerso ciò che già da qualche tempo noi operatori avevamo visto “sul campo”, ossia che esistono tre tipologie di birrifici artigianali: i piccoli e i brewpub, che lavorando su piccola scala e a livello locale fanno del poter vendere direttamente l’intera produzione il loro punto di forza; i “grandi”, che vogliono investire per crescere pur rimanendo artigianali, e devono strutturarsi in maniera adeguata per poter sfruttare le economie di scala; e in mezzo i “medi”, che hanno costi fissi paragonabili a quelli dei grandi, ma non riescono a sfruttare quelle stesse economie di scala né a basarsi solo sulla vendita diretta come i piccoli. Per i primi vedo un buon futuro, anche a fronte della crescita vertiginosa del numero di birrifici artigianali, grazie al loro radicamento sul territorio; così come sono ottimista per i secondi, purché a condurli ci sia qualcuno che ha una visione imprenditoriale. Per i terzi, invece, vedo una situazione più critica.

Che anno è

Ebbene sì, anch'io sono caduta nel vizio: fine anno è tempo di bilanci, e guardando al mio blog ho sentito anch'io l'istinto a fare il punto su un anno che, almeno sotto il profilo birrario, per me si è rivelato assai più ricco dei precedenti. Per ogni mese ho individuato una birra e un birrificio che ritengo significativi - permettendomi in alcuni casi anche qualche citazione in più, se necessario. Chiedo scusa se, per ovvi motivi, non nominerò tutti: l'intenzione non è assolutamente quella di sminuire, ma le ragioni di spazio mi impongono una scelta. Vi invito quindi a seguirmi in questo mio diario del 2016.Gennaio è stato il mese della mia trasferta al birrificio Jeb: una due giorni alla scoperta non solo della birra ma anche della gastronomia locale - per la quale ringrazio Chiara Baù - e coronata da una fugace ma piacevole sosta sul Lago di Garda a salutare gli amici del Benaco 70. Come birra del mese ne scelgo però una che non fa parte di questi viaggi, la Orodorzo di Garlatti Costa.Febbraio è stato il mese segnato dalla conduzione delle quattro degustazioni al Cucinare in Fiera a Pordenone. Diventa difficile, tra i tanti birrifici presenti, nominare una sola birra: scelgo la Qirat, la stout alla carruba del Birrificio Tarì, che mi ha colpita per la sua originalità e "pulizia tecnica" al tempo stesso. Non posso poi non citare il Beer Attraction, all'interno del quale nomino birrificio del mese tra le nuove conoscenze il Birrificio del Doge.Marzo ha visto tra i nuovi amici Sebastian Sauer di Freigeist Bierkultur ai Mastri d'Arme di Trieste; come birra del mese identifico però la Pat at a Tap di Antica Contea, la loro nuova oatmeal stout presentata in occasione della festa di San Patrizio.Aprile mi ha vista presa dalla Fiera della Birra Artigianale di Santa Lucia di Piave. Anche qui scegliere diventa arduo: dopo numerosi ripensamenti ho quindi deciso di nominare birra del mese la Mutta Affumiada del Birrificio di Cagliari, una rauch alle bacche di mirto. Mi permetto però in questo caso di nominare anche il birrificio del mese, ossia il Diciottozerouno, consciuto in quella occasione: e che si era distinto in tale sede per come aveva saputo presentarsi e valorizzare la qualità complessiva dell'offerta.Di Maggio ricordo la visita al Cooper's di Usago, piacevole sia sotto il profilo gastronomico che sotto quello birrario; e nomino di conseguenza birra del mese la loro bionda, una Helles sui generis che si pone come marchio di fabbrica del brewpub.Giugno è stato il mese dell'Arrogant Sour Festival, e capirete come nominare una birra del mese diventi impossibile: giocoforza, ma proprio giocoforza, sceglierei la Irish Heather Sour Ale del birrificio irlandese The White Hag, ma è un proforma. Aggiungo però il birrificio del mese, il Maniago, giovane promessa a cui non posso che augurare un futuro ricco di soddisfazioni.Luglio è stato segnato dalla conoscenza del Birrificio di Pejo; e come birra del mese mi trovo a scegliere la loro dark ale Aquila, originalissima ricetta ispirata ai vini rossi. Anche qui però devo nominare il birrificio del mese, The Lure, che si aggiudica la menzione per la qualità complessiva delle birre.Agosto mi ha vista sconfinare fino in Svezia per la piacevolissima visita al birrificio Nils Oscar, occasione per conoscere non solo l'azienda ma anche il territorio (e anche qui continuo a ringraziare Kjell); e come birra del mese scelgo - non senza difficoltà - la Rokporter, per la maniera in cui sa unire due stili diversi (rauch e porter) senza creare pasticci ma pervenendo anzi ad un risultato originale.Settembre è il mese di Friulidoc, che mi ha vista condurre la degustazione di apertura per Confartigianato; ma è stato in generale un mese intensissimo, con Gusti di Frontiera, il BeVe, e l'apertura di Urban Farmhouse. Come birra del mese devo però identificare la Thomas Hardy's Ale, al cui ri-debutto ho assistito alla Milano Beer Week: e non perché sia stata quella che più ho apprezzato (e non voglio con questo far torto a chi l'ha rilanciata, ma semplicemente esprimere una mia opinione), ma perché senz'altro è stata quella che più si è imposta all'attenzione grazie al lavoro di comunicazione che è stato fatto. Nomino però il birrificio del mese in quanto a presentazione e qualità complessiva dell'offerta il Couture, conosciuto al BeVe.Anche Ottobre è stato ricchissimo di eventi, con Nonsolobirra, la Fiera della Birra Artigianale di Pordenone, e degustazioni al Palagurmé. Fare delle scelte diventa quindi anche qui difficile. Come birra del mese, dopo numerose ed attente valutazioni, nomino la Sour all'Amarone del Mastino; e come birrificio del mese, se la palma di qualità complessiva rimane appannaggio del Il Birrone a Nonsolobirra, non posso comunque non riservare una mezione a una delle nuove conoscenze, il San Giovanni, per la maniera lodevole in cui ha saputo presentarsi e valorizzare al meglio la produzione al Palagurmé.A Novembre è proseguito Mastro Birraio, e diversi locali hanno organizzato eventi e degustazioni. Come birra del mese, dato che rivedendo i post l'ho nominata coome "una di quelle da assaggiare una volta nella vita", nomino la Maan di Galassia; mentre come birrificio del mese cito la Brasseria della Fonte, conosciuta a Pordenone, altra ottima giovane promessa che mi auguro faccia strada.Infine, a Dicembre, la birra del mese non può che essere una natalizia ossia la xmaStrong di B2O (che ho finalmente avuto il piacere di visitare); ma non posso non citare la visita al Birrificio San Gabriel e all'Osteria della Birra, nonché la partecipazione con il titolare Gabriele Tonon e altri collaboratori alla trasmissione tv La Zanzega.Come dicevo, sono molti gli eventi, i birrifici, le birre e le persone che ho dovuto tralasciare e che avrebbero meritato una menzione e un ringraziamento: dallo staff di Post Editori con cui ho lavorato alla Guida a Tavola delle Venezie per la sezione birrifici, a quello del Palagurmé e The Good Beer Society - con cui si apre un 2017 ricco di progetti, su tutti il corso di degustazione Beer Lover -, a locali come La Brasserie, il Monsieur D e lo Yardie che si sono impegnati con passione nella promozione della birra artigianale. Il pensiero va poi a tanti altri birrifici che non si sono imposti all'attenzione di queste righe solo perché lo stesso mese c'erano stati altri eventi o birre che per qualche motivo sono stati per me più significativi, o perché hanno lavorato "sottotraccia" ma non per questo meno bene dei birrifici citati - penso ad esempio a Zahre, al Campestre, al Legnone, a Meni o a Sognandobirra.Per il 2017 ci sono tante idee che frullano per la testa e tanti progetti in campo: prenderanno forma man mano...per ora mi limito ad augurarvi buon anno!