Birra italiana, filiera e ripresa del settore: che cosa significa il legame con il territorio?

Ho seguito alcuni giorni giorni fa un seminario online promosso da Unionbirrai  e Cia (di cui trovate il comunicato stampa di resoconto qui) sul tema “La birra indipendente artigianale e la filiera brassicola in Italia: il difficile presente, le azioni a supporto, le sfide del 2021”. Al di là degli aspetti "tecnici" (numeri del settore, richieste al legislatore in merito alla questione del codice Ateco, ecc), su cui si sofferma appunto il comunicato stampa, l'incontro mi ha stimolato alcune riflessioni (peccato non fosse attivo un sistema per poter rivolgere domande ai relatori tramite chat, come si usa ad esempio nelle conferenze stampa online: non è detto che ci sia il tempo di rispondere a tutte subito né che non si possa rispedire al mittente quelle inopportune, ma almeno le si raccoglie e le si "evade" poi, per quanto possibile).Essendo un incontro promosso in collaborazione con la Confederazione degli agricoltori, è stato incentrato sul tema della filiera agricola in campo brassicolo: un tema particolarmente sentito in questi ultimi anni e che sta dando risultati tangibili (ho scritto più volte in passato sul tema degli agribirrifici e della loro crescita, ad esempio qui). Si è molto parlato delle ricadute positive della filiera anche sul resto del territorio, con collaborazioni tra birrifici e aziende agricole che vedono il loro orzo meglio valorizzato; degli investimenti necessari nella coltivazione del luppolo, e dell'opportunità di registrare varietà italiane; del legame tra filiera e turismo brassicolo, e del legame con il territorio come via principale per il rilancio.Tutte considerazioni condivisibili e nate già in tempi pre-Covid, che ora trovano una nuova e ancor più cruciale declinazione in vista della ripartenza - e bene fanno quindi Unionbirrai e Cia a parlarne e ad agire di conseguenza; mi è rimasta però, a fine conferenza, una sorta di dubbio (che ho peraltro provato a porre tramite altri mezzi, ma purtroppo senza riuscirci, a due dei relatori intervenuti).  Dai ragionamenti fatti è emersa, dicevamo, la centralità del legame tra birra e territorio, sia in termini di utilizzo delle materie prime locali (proprie nel caso degli agribirrifici, o di altri coltivatori) che di promozione del turismo. Mi chiedo però: in questo percorso di valorizzazione, che ruolo hanno quei birrifici che non utilizzano materie prime locali o italiane (e ce ne sono anche di noti e rinomati)? Dal dibattito ho infatti ricavato la sensazione che il processo di valorizzazione per la ripartenza della birra artigianale italiana debba necessariamente passare attraverso un legame con il territorio espresso dalla materia prima. Sarà che era appunto il tema dell'incontro e quindi il discorso ha per forza di cose preso questa piega specifica, che riguarda un numero sempre più ampio di produttori (come avevo scritto già lo scorso anno, nell'articolo linkato sopra); però appunto mi chiedevo che ruolo ci possa essere in quest'ottica per le realtà di altro tipo, che appunto non rientrano nel tema trattato nel seminario.Certo nulla impedisce di trovare un modo diverso dalle materie prime di esprimere il proprio legame con il territorio, ed esempi in questo senso già ce ne sono: chi punta sul solo fattore acqua (e magari a ragion veduta, dato che è pur sempre l'ingrediente di partenza); chi esprime nei nomi e nella presentazione delle birre alcuni specifici aspetti culturali del territorio; chi utilizza "adjuncts" (i prodotti diversi dalle materie prime di base, ndr) tipici del territorio in questione; chi si inserisce, in quanto impresa locale, nelle reti di promozione del turismo e dei prodotti di quella zona. Una strada percorribile più facilmente da birrifici già affermati e con una certa storia alle spalle, per i quali già il semplice fatto di essere "il birrificio storico del paese X" (anche se "storico" significa dieci anni di attività) dà titolo per essere espressione del territorio stesso. Per i nuovi, se davvero - come si afferma nel sondaggio citato nell'incontro - quasi l'80% dei consumatori afferma di fare attenzione alla provenienza del prodotto, l'espressione del radicamento sul territorio appare più legata al fattore materie prime - non necessariamente coltivate in proprio, peraltro.Ripropongo, tuttavia, la riflessione con cui avevo chiuso il post citato sopra un anno e mezzo fa. L'attenzione alla filiera locale, osservavo, "la vedrei rientrare non tanto nella promozione della birra artigianale in sé (che come tale può essere di ottima qualità anche con materie prime acquistate altrove), quanto nella promozione dei prodotti agricoli locali: se le due cose vanno di pari passo, ben venga (e anzi ci sono diversi esempi virtuosi in questo senso), ma credo sia bene tenere presente che non sono del tutto sovrapponibili. Anzi, tenere insieme questi due aspetti richiede un'ancora maggiore consapevolezza da parte dei birrai: se rifornirsi di materie prime locali implica, per forza di cose, limitare la varietà di malti e di luppoli a cui si ha accesso, è necessario lavorare di conseguenza - se non altro per l'ovvia ragione di non arrivare alla forzatura di utilizzare luppoli autoprodotti di qualità scadente a causa delle condizioni ambientali inadeguate a quella specifica varietà, o a non usare le tipologie di malto più appropriate per un certo stile semplicemente perché queste non rientrano tra quelle prodotte con il proprio orzo. Insomma, come tutte le cose la filiera locale va usata con consapevolezza, perché sia funzionale allo sviluppo dell'azienda e non le tarpi le ali per la scarsa qualità o la scelta limitata delle materie prime". La consapevolezza di questa tematica c'è, o almeno si è colta dai discorsi fatti non solo in sede di questo incontro: da tempo ormai si parla della necessità di crescita della filiera in termini quantitativi e qualitativi, della sua integrazione in un processo più ampio di promozione territoriale, e le iniziative in questo senso ci sono. Resta però a mio avviso il fatto che, pur dando per assodato che la birra prodotta con materie prime locali abbia qualcosa di più da raccontare - e "raccontare" è un termine chiave nel mercato attuale - al consumatore e possa fare da volano di sviluppo territoriale, non sia possibile (o sia quantomeno riduttivo) pensare ad una strategia di rilancio post Covid imperniata esclusivamente su questo: sarà pur vero che "la birra è terra", ma è altrettanto vero che questa non è una via percorsa (e percorribile, dati gli investimenti necessari) da molti birrifici, e per i motivi più svariati - chi per semplici ragioni logistiche e di costi, chi perché tiene ad avere materie prime di un certo tipo che in patria non potrebbe avere. E chiarire che posto occupano queste imprese nella visione proposte nel seminario è utile e necessario, perché non si può pensare ad una ripresa che coinvolga solo una parte del settore.

Birra italiana, filiera e ripresa del settore: che cosa significa il legame con il territorio?

Ho seguito alcuni giorni giorni fa un seminario online promosso da Unionbirrai  e Cia (di cui trovate il comunicato stampa di resoconto qui) sul tema “La birra indipendente artigianale e la filiera brassicola in Italia: il difficile presente, le azioni a supporto, le sfide del 2021”. Al di là degli aspetti "tecnici" (numeri del settore, richieste al legislatore in merito alla questione del codice Ateco, ecc), su cui si sofferma appunto il comunicato stampa, l'incontro mi ha stimolato alcune riflessioni (peccato non fosse attivo un sistema per poter rivolgere domande ai relatori tramite chat, come si usa ad esempio nelle conferenze stampa online: non è detto che ci sia il tempo di rispondere a tutte subito né che non si possa rispedire al mittente quelle inopportune, ma almeno le si raccoglie e le si "evade" poi, per quanto possibile).Essendo un incontro promosso in collaborazione con la Confederazione degli agricoltori, è stato incentrato sul tema della filiera agricola in campo brassicolo: un tema particolarmente sentito in questi ultimi anni e che sta dando risultati tangibili (ho scritto più volte in passato sul tema degli agribirrifici e della loro crescita, ad esempio qui). Si è molto parlato delle ricadute positive della filiera anche sul resto del territorio, con collaborazioni tra birrifici e aziende agricole che vedono il loro orzo meglio valorizzato; degli investimenti necessari nella coltivazione del luppolo, e dell'opportunità di registrare varietà italiane; del legame tra filiera e turismo brassicolo, e del legame con il territorio come via principale per il rilancio.Tutte considerazioni condivisibili e nate già in tempi pre-Covid, che ora trovano una nuova e ancor più cruciale declinazione in vista della ripartenza - e bene fanno quindi Unionbirrai e Cia a parlarne e ad agire di conseguenza; mi è rimasta però, a fine conferenza, una sorta di dubbio (che ho peraltro provato a porre tramite altri mezzi, ma purtroppo senza riuscirci, a due dei relatori intervenuti).  Dai ragionamenti fatti è emersa, dicevamo, la centralità del legame tra birra e territorio, sia in termini di utilizzo delle materie prime locali (proprie nel caso degli agribirrifici, o di altri coltivatori) che di promozione del turismo. Mi chiedo però: in questo percorso di valorizzazione, che ruolo hanno quei birrifici che non utilizzano materie prime locali o italiane (e ce ne sono anche di noti e rinomati)? Dal dibattito ho infatti ricavato la sensazione che il processo di valorizzazione per la ripartenza della birra artigianale italiana debba necessariamente passare attraverso un legame con il territorio espresso dalla materia prima. Sarà che era appunto il tema dell'incontro e quindi il discorso ha per forza di cose preso questa piega specifica, che riguarda un numero sempre più ampio di produttori (come avevo scritto già lo scorso anno, nell'articolo linkato sopra); però appunto mi chiedevo che ruolo ci possa essere in quest'ottica per le realtà di altro tipo, che appunto non rientrano nel tema trattato nel seminario.Certo nulla impedisce di trovare un modo diverso dalle materie prime di esprimere il proprio legame con il territorio, ed esempi in questo senso già ce ne sono: chi punta sul solo fattore acqua (e magari a ragion veduta, dato che è pur sempre l'ingrediente di partenza); chi esprime nei nomi e nella presentazione delle birre alcuni specifici aspetti culturali del territorio; chi utilizza "adjuncts" (i prodotti diversi dalle materie prime di base, ndr) tipici del territorio in questione; chi si inserisce, in quanto impresa locale, nelle reti di promozione del turismo e dei prodotti di quella zona. Una strada percorribile più facilmente da birrifici già affermati e con una certa storia alle spalle, per i quali già il semplice fatto di essere "il birrificio storico del paese X" (anche se "storico" significa dieci anni di attività) dà titolo per essere espressione del territorio stesso. Per i nuovi, se davvero - come si afferma nel sondaggio citato nell'incontro - quasi l'80% dei consumatori afferma di fare attenzione alla provenienza del prodotto, l'espressione del radicamento sul territorio appare più legata al fattore materie prime - non necessariamente coltivate in proprio, peraltro.Ripropongo, tuttavia, la riflessione con cui avevo chiuso il post citato sopra un anno e mezzo fa. L'attenzione alla filiera locale, osservavo, "la vedrei rientrare non tanto nella promozione della birra artigianale in sé (che come tale può essere di ottima qualità anche con materie prime acquistate altrove), quanto nella promozione dei prodotti agricoli locali: se le due cose vanno di pari passo, ben venga (e anzi ci sono diversi esempi virtuosi in questo senso), ma credo sia bene tenere presente che non sono del tutto sovrapponibili. Anzi, tenere insieme questi due aspetti richiede un'ancora maggiore consapevolezza da parte dei birrai: se rifornirsi di materie prime locali implica, per forza di cose, limitare la varietà di malti e di luppoli a cui si ha accesso, è necessario lavorare di conseguenza - se non altro per l'ovvia ragione di non arrivare alla forzatura di utilizzare luppoli autoprodotti di qualità scadente a causa delle condizioni ambientali inadeguate a quella specifica varietà, o a non usare le tipologie di malto più appropriate per un certo stile semplicemente perché queste non rientrano tra quelle prodotte con il proprio orzo. Insomma, come tutte le cose la filiera locale va usata con consapevolezza, perché sia funzionale allo sviluppo dell'azienda e non le tarpi le ali per la scarsa qualità o la scelta limitata delle materie prime". La consapevolezza di questa tematica c'è, o almeno si è colta dai discorsi fatti non solo in sede di questo incontro: da tempo ormai si parla della necessità di crescita della filiera in termini quantitativi e qualitativi, della sua integrazione in un processo più ampio di promozione territoriale, e le iniziative in questo senso ci sono. Resta però a mio avviso il fatto che, pur dando per assodato che la birra prodotta con materie prime locali abbia qualcosa di più da raccontare - e "raccontare" è un termine chiave nel mercato attuale - al consumatore e possa fare da volano di sviluppo territoriale, non sia possibile (o sia quantomeno riduttivo) pensare ad una strategia di rilancio post Covid imperniata esclusivamente su questo: sarà pur vero che "la birra è terra", ma è altrettanto vero che questa non è una via percorsa (e percorribile, dati gli investimenti necessari) da molti birrifici, e per i motivi più svariati - chi per semplici ragioni logistiche e di costi, chi perché tiene ad avere materie prime di un certo tipo che in patria non potrebbe avere. E chiarire che posto occupano queste imprese nella visione proposte nel seminario è utile e necessario, perché non si può pensare ad una ripresa che coinvolga solo una parte del settore.

Tra session ale e birre natalizie

In virtù del ritorno del Friuli Venezia Giulia in zona gialla già da una settimana, ho potuto, dopo diverso tempo, tornare a pranzo in uno dei pub che frequento d'abitudine - la birreria Brasserie di Tricesimo; che domenica 13 aveva peraltro preparato un menù ad hoc, in occasione della presentazione della session ale Refrain di Birrra Garlatti Costa - che il realtà avrebbe dovuto tenersi già qualche tempo fa, e che poi era saltata con l'ingresso del Fvg in zona arancione. A dire il vero avevo già avuto occasione di provare questa birra direttamente in birrificio, ma naturalmente non mi è dispiaciuto provarla di nuovo; anche perché questa volta ho avuto occasione di farlo con abbinamento gastronomico - un bis di focacce, l'una con bacon, gorgonzola e radicchio, e l'altra con ricotta, spinaci e salsiccia. Al di là dei complimenti alla cucina, dato che ho trovato le focacce davvero molto buone, la cosa che più si è imposta all'attenzione è stata la versatilità di questa birra a tavola: data la semplicità, non invasività e pulizia dell'insieme, si è a mio avviso dimostrata adatta ad accompagnare anche due farciture molto diverse come erano quelle in questione - andando semplicemente a fare da "rinfrescante", senza imporsi in alcun modo sui sapori decisi.In quanto alla birra in sé e per sé, non posso che ribadire quanto già affermato nella scorsa degustazione: peculiare aroma di uva spina, frutta acidula e agrumi - pompelmo e mandarino su tutti -, elegante ma sufficientemente robusto da celare le note del lievito belga caro a Severino - che emerge leggermente al salire della temperatura, ma molto ben amalgamato con il fruttato della luppolatura; corpo estremamente snello come da manuale, finale fresco, secco e corto.In più questa volta ho notato, complici forse i sapori del cibo, quasi una sorta di "sapidità" in chiusura, come se la componente speziata del lievito belga andasse a "giocare" con la luppolatura in amaro e apputo ciò che stava nel piatto.A mo' di dolce sono poi passata alla Olaf-Some people are worth melting for (anche qui il nome è una citazione cinematografica, come per tutte le altre birre della casa) del Birrificio Bondai: una natalizia, la prima del birrificio in questione, che è nato lo scorso aprile. Aroma di cannella e scorza d'arancia - le due aromatizzazioni utilizzate - ben percepibili all'aroma, insieme alla speziatura del lievito, che lasciano poi spazio ad un corpo robusto, clado e avvolgente sui toni del biscotto e dello zucchero candito; e chiudere nuovamente con un richiamo a cannella e arancia, che tuttavia non cancellano la persistenza dolce. Una birra che definirei "semplice", pur nella complessità organolettica, nella misura in cui si coglie che non è fatta per stupire, ma intende rientrare nei canoni delle birre stagionali dell'inverno senza pregiudicare la bevibilità di fondo.Chiudo con un ringraziamento a Maltilde, sempre publican di spessore, e a Severino Garlatti Costa, presente alla giornata.

Tra session ale e birre natalizie

In virtù del ritorno del Friuli Venezia Giulia in zona gialla già da una settimana, ho potuto, dopo diverso tempo, tornare a pranzo in uno dei pub che frequento d'abitudine - la birreria Brasserie di Tricesimo; che domenica 13 aveva peraltro preparato un menù ad hoc, in occasione della presentazione della session ale Refrain di Birrra Garlatti Costa - che il realtà avrebbe dovuto tenersi già qualche tempo fa, e che poi era saltata con l'ingresso del Fvg in zona arancione. A dire il vero avevo già avuto occasione di provare questa birra direttamente in birrificio, ma naturalmente non mi è dispiaciuto provarla di nuovo; anche perché questa volta ho avuto occasione di farlo con abbinamento gastronomico - un bis di focacce, l'una con bacon, gorgonzola e radicchio, e l'altra con ricotta, spinaci e salsiccia. Al di là dei complimenti alla cucina, dato che ho trovato le focacce davvero molto buone, la cosa che più si è imposta all'attenzione è stata la versatilità di questa birra a tavola: data la semplicità, non invasività e pulizia dell'insieme, si è a mio avviso dimostrata adatta ad accompagnare anche due farciture molto diverse come erano quelle in questione - andando semplicemente a fare da "rinfrescante", senza imporsi in alcun modo sui sapori decisi.In quanto alla birra in sé e per sé, non posso che ribadire quanto già affermato nella scorsa degustazione: peculiare aroma di uva spina, frutta acidula e agrumi - pompelmo e mandarino su tutti -, elegante ma sufficientemente robusto da celare le note del lievito belga caro a Severino - che emerge leggermente al salire della temperatura, ma molto ben amalgamato con il fruttato della luppolatura; corpo estremamente snello come da manuale, finale fresco, secco e corto.In più questa volta ho notato, complici forse i sapori del cibo, quasi una sorta di "sapidità" in chiusura, come se la componente speziata del lievito belga andasse a "giocare" con la luppolatura in amaro e apputo ciò che stava nel piatto.A mo' di dolce sono poi passata alla Olaf-Some people are worth melting for (anche qui il nome è una citazione cinematografica, come per tutte le altre birre della casa) del Birrificio Bondai: una natalizia, la prima del birrificio in questione, che è nato lo scorso aprile. Aroma di cannella e scorza d'arancia - le due aromatizzazioni utilizzate - ben percepibili all'aroma, insieme alla speziatura del lievito, che lasciano poi spazio ad un corpo robusto, clado e avvolgente sui toni del biscotto e dello zucchero candito; e chiudere nuovamente con un richiamo a cannella e arancia, che tuttavia non cancellano la persistenza dolce. Una birra che definirei "semplice", pur nella complessità organolettica, nella misura in cui si coglie che non è fatta per stupire, ma intende rientrare nei canoni delle birre stagionali dell'inverno senza pregiudicare la bevibilità di fondo.Chiudo con un ringraziamento a Maltilde, sempre publican di spessore, e a Severino Garlatti Costa, presente alla giornata.

Novità sotto l’albero

Con il mese di dicembre arrivano anche le birre di Natale: e quest’anno se ne conta una di nuova sotto l’albero, la Lugh del Birrificio Foràn.La prima cosa che personalmente mi ha incuriosita è stato il nome: “Volevo qualcosa che richiamasse il periodo di fine anno – ha spiegato il birraio, Ivano Mondini –; ma allo stesso tempo evitare riferimenti espliciti al Natale o al Capodanno, perché già esistono un sacco di birre con nomi così. Ho pensato allora che il Natale si festeggia in quei giorni perché già popolazioni pre-cristiane, e in particolare i Celti, usavano celebrare il fatto che le giornate tornano ad allungarsi dopo il solstizio d’inverno: e appunto una divinità celtica è Lugh, associato al sole”.Detto ciò, va ricordato che il Birrificio Foràn, che ha aperto a novembre 2019, si misura per la prima volta con quello che non è di fatto uno stile, ma piuttosto un’intenzione insita nel pensare una ricetta – quella di essere appunto bevuta per le feste, nella stagione fredda, e in occasioni conviviali (vabbè, quest’anno ridotte, ma ciò non implica che non si possa brindare alla reciproca salute); e ha scelto di farlo mettendo insieme la tradizione di speziare le birre natalizie con il filone delle Honey Ale.Si tratta infatti appunto di una ale con miele di castagno, fornito da un produttore locale; che all’aroma risalta subito in forze, con i suoi toni tra il dolce e il balsamico. A questo si accompagnano i profumi della cannella e delle bucce di limone, ben amalgamati nell’insieme.  Al palato continua a predominare il filone dolce – complice biscottato-caramellato del malto Vienna, che conferisce anche il caratteristico colore – prima di far risaltare nuovamente la speziatura sul finale. Un corpo caldo ma al tempo stesso snello, tanto da risultare di facile beva e non far supporre gli otto gradi alcolici. Va detto che, se fossimo ad un corso di degustazione, userei questa birra per far capire l'importanza della corretta temperatura di servizio. Se bevuta appena tolta dal frigo, risulta infatti del tutto monocorde sui temi del dolce del miele, con una lunga persistenza, che risulta finanche stucchevole; mentre alla temperatura corretta, ossia non meno di 10-12 gradi, emerge il caratteristico taglio amaro-balsamico dato dal miele di castagno che va a chiudere la bevuta (per quanto rimanga comunque una birra decisamente dolce nell'insieme), e che si intuisce essere nelle intenzioni di chi ha creato la ricetta. Insomma, uno di quei casi da manuale in cui è evidente come la temperatura sbagliata arrivi anche a snaturare del tutto una birra.Da segnalare, tra le novità - anche se meno novità, in quanto in commercio già dal qualche mese - di Foràn, la Ipa "Hops my passion": un esempio fondamentalmente semplice dello stile, incentrato sugli aromi tra il floreale e l'agrumato intensi ma non volti a stupire, corpo fresco nonostante i toni biscottati sullo sfondo - anche qui non si intuirebbero gli oltre sei gradi alcolici - e taglio amaro finale netto, citrico e non troppo persistente.

Novità sotto l’albero

Con il mese di dicembre arrivano anche le birre di Natale: e quest’anno se ne conta una di nuova sotto l’albero, la Lugh del Birrificio Foràn.La prima cosa che personalmente mi ha incuriosita è stato il nome: “Volevo qualcosa che richiamasse il periodo di fine anno – ha spiegato il birraio, Ivano Mondini –; ma allo stesso tempo evitare riferimenti espliciti al Natale o al Capodanno, perché già esistono un sacco di birre con nomi così. Ho pensato allora che il Natale si festeggia in quei giorni perché già popolazioni pre-cristiane, e in particolare i Celti, usavano celebrare il fatto che le giornate tornano ad allungarsi dopo il solstizio d’inverno: e appunto una divinità celtica è Lugh, associato al sole”.Detto ciò, va ricordato che il Birrificio Foràn, che ha aperto a novembre 2019, si misura per la prima volta con quello che non è di fatto uno stile, ma piuttosto un’intenzione insita nel pensare una ricetta – quella di essere appunto bevuta per le feste, nella stagione fredda, e in occasioni conviviali (vabbè, quest’anno ridotte, ma ciò non implica che non si possa brindare alla reciproca salute); e ha scelto di farlo mettendo insieme la tradizione di speziare le birre natalizie con il filone delle Honey Ale.Si tratta infatti appunto di una ale con miele di castagno, fornito da un produttore locale; che all’aroma risalta subito in forze, con i suoi toni tra il dolce e il balsamico. A questo si accompagnano i profumi della cannella e delle bucce di limone, ben amalgamati nell’insieme.  Al palato continua a predominare il filone dolce – complice biscottato-caramellato del malto Vienna, che conferisce anche il caratteristico colore – prima di far risaltare nuovamente la speziatura sul finale. Un corpo caldo ma al tempo stesso snello, tanto da risultare di facile beva e non far supporre gli otto gradi alcolici. Va detto che, se fossimo ad un corso di degustazione, userei questa birra per far capire l'importanza della corretta temperatura di servizio. Se bevuta appena tolta dal frigo, risulta infatti del tutto monocorde sui temi del dolce del miele, con una lunga persistenza, che risulta finanche stucchevole; mentre alla temperatura corretta, ossia non meno di 10-12 gradi, emerge il caratteristico taglio amaro-balsamico dato dal miele di castagno che va a chiudere la bevuta (per quanto rimanga comunque una birra decisamente dolce nell'insieme), e che si intuisce essere nelle intenzioni di chi ha creato la ricetta. Insomma, uno di quei casi da manuale in cui è evidente come la temperatura sbagliata arrivi anche a snaturare del tutto una birra.Da segnalare, tra le novità - anche se meno novità, in quanto in commercio già dal qualche mese - di Foràn, la Ipa "Hops my passion": un esempio fondamentalmente semplice dello stile, incentrato sugli aromi tra il floreale e l'agrumato intensi ma non volti a stupire, corpo fresco nonostante i toni biscottati sullo sfondo - anche qui non si intuirebbero gli oltre sei gradi alcolici - e taglio amaro finale netto, citrico e non troppo persistente.

Una birra dalla zona arancione

Anche in Friuli Venezia Giulia, come in altre zone d'Italia, stiamo vivendo una fase di serrata; quella che, come già segnalato dalla Confederazione Italiana Agricoltori, sta costando al settore birrario fino al 90% del fatturato - spingendo alla richiesta di inserimento dei birrifici tra i codici Ateco che hanno diritto a ristori, dato che nel primo non vi erano compresi. Ok, questa è la stima più pessimistica tra le diverse che ho trovato; comunque anche la più ottimistica parla di un -40%, non noccioline.Tralasciamo sulla maniera in cui la zona arancione è "piovuta" sulla Regione - appena prima di un weekend in cui numerosi operatori si erano già organizzati per riuscire a lavorare in sicurezza e salvare almeno parte del fatturato, alla luce delle rassicurazioni ricevute soltanto il giorno prima - e che, al di là di ogni valutazione sulla necessità di queste misure, pone il problema della rottura del rapporto di fiducia tra cittadini (operatori economici soprattutto) e istituzioni; fatto sta che più o meno tutte le realtà del mondo birrario si sono, meritoriamente e con fantasia, attrezzate per affrontare al meglio il momento tra asporto, delivery, e iniziative che possano suscitare la curiosità di un pubblico anch'esso - ahimé - ormai stanco di vivere la propria passione per la birra solo nel chiuso di casa e davanti ad un computer.Appena prima della serrata sono riuscita ad accordarmi con il birrificio Zahre per andare a procurarmi una bottiglia della loro ultima creatura, la Weiss (ovviamente quando si va a Sauris è sempre d'obbligo la levataccia all'alba, per poter approfittare di una camminata in questi luoghi spettacolari prima di darsi al duro lavoro). Accolta con il solito calore nonostante il distanziamento sociale (leggi: tre tavoli di distanza tra l'uno e l'altro nello spazio all'aperto fuori del birrificio) da Sandro e Slavica, mi sono quindi fatta raccontare un po' di questa birra.Che in realtà, tecnicamente, non è una Weiss. La cosa è nata infatti (come spesso accade) casualmente, da un errore nell'etichettatura da parte del produttore di una confezione di lievito; facendo finire quello appunto da Weiss nel mash della loro Pilsen. Passato il primo momento di perplessità (e anche di ira funesta, oso immaginare, davanti alla concreta prospettiva che toccasse buttare via tutto), in casa Petris hanno comuqnue assaggiato e concluso che l'idea di mettere il lievito da Weiss nella ricetta della Pilsen non era poi così male - per quanto ai limiti dell'eresia; e così, con gli opportuni aggiustamenti, è nata questa sui generis.Non si tratta appunto di una birra di frumento: e questo lo testimonia già l'esame visivo, data la limpidezza; e la schiuma, che tradisce appunto l'assenza di questo cereale nel risultare meno pannosa e più opaca. L'aroma evidenzia viceversa i profumi tipici del lievito da Weizen, tra la banana e il chiodo di garofano; senza che tuttavia risultino invasivi, per lasciare spazio alla base di malto d'orzo sui toni della crosta di pane fresco che rivela la base Pilsen. Al palato è appunto questa componente a risaltare di più, con una bevuta fresca e scorrevole; con poi un ritorno dei toni del lievito Weizen sul finale, che - specie al salire della temperatura - se la giocano con la luppolatura in amaro (che sarebbe viceversa sostanzialmente non percepibile in una Weiss).Una creazione del tutto particolare, dunque, di cui mi verrebbe da dire: non bevetela se siete dei patiti delle Weiss "ortodosse". Però sicuramente può risultare di gradimento a chi cerca una birra appunto fuori dagli schemi, ma allo stesso tempo all'interno di quella semplicità ed equilibrio d'insieme e facilità di beva tipica della filosofia di Zahre.Un grazie a Sandro, Slavica e tutto lo staff!

Una birra dalla zona arancione

Anche in Friuli Venezia Giulia, come in altre zone d'Italia, stiamo vivendo una fase di serrata; quella che, come già segnalato dalla Confederazione Italiana Agricoltori, sta costando al settore birrario fino al 90% del fatturato - spingendo alla richiesta di inserimento dei birrifici tra i codici Ateco che hanno diritto a ristori, dato che nel primo non vi erano compresi. Ok, questa è la stima più pessimistica tra le diverse che ho trovato; comunque anche la più ottimistica parla di un -40%, non noccioline.Tralasciamo sulla maniera in cui la zona arancione è "piovuta" sulla Regione - appena prima di un weekend in cui numerosi operatori si erano già organizzati per riuscire a lavorare in sicurezza e salvare almeno parte del fatturato, alla luce delle rassicurazioni ricevute soltanto il giorno prima - e che, al di là di ogni valutazione sulla necessità di queste misure, pone il problema della rottura del rapporto di fiducia tra cittadini (operatori economici soprattutto) e istituzioni; fatto sta che più o meno tutte le realtà del mondo birrario si sono, meritoriamente e con fantasia, attrezzate per affrontare al meglio il momento tra asporto, delivery, e iniziative che possano suscitare la curiosità di un pubblico anch'esso - ahimé - ormai stanco di vivere la propria passione per la birra solo nel chiuso di casa e davanti ad un computer.Appena prima della serrata sono riuscita ad accordarmi con il birrificio Zahre per andare a procurarmi una bottiglia della loro ultima creatura, la Weiss (ovviamente quando si va a Sauris è sempre d'obbligo la levataccia all'alba, per poter approfittare di una camminata in questi luoghi spettacolari prima di darsi al duro lavoro). Accolta con il solito calore nonostante il distanziamento sociale (leggi: tre tavoli di distanza tra l'uno e l'altro nello spazio all'aperto fuori del birrificio) da Sandro e Slavica, mi sono quindi fatta raccontare un po' di questa birra.Che in realtà, tecnicamente, non è una Weiss. La cosa è nata infatti (come spesso accade) casualmente, da un errore nell'etichettatura da parte del produttore di una confezione di lievito; facendo finire quello appunto da Weiss nel mash della loro Pilsen. Passato il primo momento di perplessità (e anche di ira funesta, oso immaginare, davanti alla concreta prospettiva che toccasse buttare via tutto), in casa Petris hanno comuqnue assaggiato e concluso che l'idea di mettere il lievito da Weiss nella ricetta della Pilsen non era poi così male - per quanto ai limiti dell'eresia; e così, con gli opportuni aggiustamenti, è nata questa sui generis.Non si tratta appunto di una birra di frumento: e questo lo testimonia già l'esame visivo, data la limpidezza; e la schiuma, che tradisce appunto l'assenza di questo cereale nel risultare meno pannosa e più opaca. L'aroma evidenzia viceversa i profumi tipici del lievito da Weizen, tra la banana e il chiodo di garofano; senza che tuttavia risultino invasivi, per lasciare spazio alla base di malto d'orzo sui toni della crosta di pane fresco che rivela la base Pilsen. Al palato è appunto questa componente a risaltare di più, con una bevuta fresca e scorrevole; con poi un ritorno dei toni del lievito Weizen sul finale, che - specie al salire della temperatura - se la giocano con la luppolatura in amaro (che sarebbe viceversa sostanzialmente non percepibile in una Weiss).Una creazione del tutto particolare, dunque, di cui mi verrebbe da dire: non bevetela se siete dei patiti delle Weiss "ortodosse". Però sicuramente può risultare di gradimento a chi cerca una birra appunto fuori dagli schemi, ma allo stesso tempo all'interno di quella semplicità ed equilibrio d'insieme e facilità di beva tipica della filosofia di Zahre.Un grazie a Sandro, Slavica e tutto lo staff!

Covid, settore birrario e chiusure: siamo a un punto di rottura?

Risulta difficile dire qualcosa che non sia già stato detto in merito alle misure previste nel nuovo Dpcm, e in particolare sull'obbligo di chiusura alle 18 per bar e ristoranti - che colpisce in modo particolare il settore birrario, significando la chiusura totale per i pub (eccetto per i pochi che aprono anche a pranzo, però è da vedere se converrà loro rimanere aperti o meno a fronte della riduzione degli introiti).Il sentirsi presi in giro, trovandosi costretti a chiudere dopo tanti investimenti in tempo e denaro nell’adeguarsi ai protocolli (non parliamo delle palestre, che non più tardi di una settimana fa si erano sentite dire di avere una settimana per adeguarsi); il farlo pur in assenza di dati che provino il legame tra la diffusione del virus e l’apertura di questi luoghi; il fatto che il peso delle chiusure ricada sempre sulle stesse categorie; il fatto che è ormai chiaro che, da parte delle istituzioni, non tutto ciò che doveva essere fatto per affrontare questa seconda ondata è stato fatto; l’irresponsabilità di alcuni – perché inutile negare che i comportamenti irresponsabili ci siano stati, sia da parte dei ristoratori e publican che da parte degli avventori – che ricade su tutti. Tutto contribuisce agli sfoghi di rabbia che si vedono in queste ore, e che sicuramente uscirà – auspicabilmente in forme civili – dai confini dei social.Intendiamoci: ogni luogo di aggregazione è, di per sé, fonte potenziale di rischio – compresi i centri commerciali, che però non sono stati chiusi. E onestamente non me la sento di condividere, o almeno non in toto, la narrativa “innocentista” secondo cui in pub e affini non si sono mai verificati episodi di mancato rispetto delle regole (se non altro perché ne ho visti con i miei occhi). Però è evidente che chiudere i luoghi di aggregazione dopo le 18 – nonché quelli con più rigidi protocolli di sicurezza come palestre e piscine – per poi lasciare mezzi pubblici affollati, centri commerciali aperti, e un sistema in cui l’esito di un tampone spesso arriva così tardi da essere ormai inefficace ai fini del contenimento, è inutile oltre che ingiusto.Per quanto riguarda il settore birrario nello specifico, credo che l’ipotesi di un mantenimento della consegna a domicilio che avevo avanzato in questo post, e inizialmente smentita dai fatti (molti birrai mi avevano detto di averla molto ridotta o del tutto abbandonata a fine lockdown) tornerà in auge: chiusi i principali canali distributivi di pub e ristoranti non resta che la vendita diretta, o in birrificio o in delivery. C’è da augurarsi che anche questa volta la risposta del pubblico sia buona. Non so però se davvero tutti i birrifici si reingegneranno, anche questa volta, per trovare una soluzione.Perché temo che con questa seconda stretta si sia davvero giunti ad un punto di rottura. E non solo perché ci saranno aziende (non solo birrifici e pub) che non reggeranno il colpo, con relative conseguenze sull’occupazione. Ma anche perché la rabbia, per definizione, è distruttiva, non costruttiva. E quindi rende difficile ingegnarsi per sfangarla in qualche modo, stringere i denti a fronte di un beneficio comune come è la salute pubblica, facendo preferire piuttosto gettare la spugna e sfogare il proprio risentimento. Mi auguro di sbagliarmi, ma temo di no. p { margin-bottom: 0.25cm; direction: ltr; color: #000000; line-height: 115%; orphans: 2; widows: 2 } p.western { font-family: "Liberation Serif", "Times New Roman", serif; font-size: 12pt; so-language: it-IT } p.cjk { font-family: "Noto Sans CJK SC"; font-size: 12pt; so-language: zh-CN } p.ctl { font-family: "Lohit Devanagari"; font-size: 12pt; so-language: hi-IN } a:link { so-language: zxx }

Covid, settore birrario e chiusure: siamo a un punto di rottura?

Risulta difficile dire qualcosa che non sia già stato detto in merito alle misure previste nel nuovo Dpcm, e in particolare sull'obbligo di chiusura alle 18 per bar e ristoranti - che colpisce in modo particolare il settore birrario, significando la chiusura totale per i pub (eccetto per i pochi che aprono anche a pranzo, però è da vedere se converrà loro rimanere aperti o meno a fronte della riduzione degli introiti).Il sentirsi presi in giro, trovandosi costretti a chiudere dopo tanti investimenti in tempo e denaro nell’adeguarsi ai protocolli (non parliamo delle palestre, che non più tardi di una settimana fa si erano sentite dire di avere una settimana per adeguarsi); il farlo pur in assenza di dati che provino il legame tra la diffusione del virus e l’apertura di questi luoghi; il fatto che il peso delle chiusure ricada sempre sulle stesse categorie; il fatto che è ormai chiaro che, da parte delle istituzioni, non tutto ciò che doveva essere fatto per affrontare questa seconda ondata è stato fatto; l’irresponsabilità di alcuni – perché inutile negare che i comportamenti irresponsabili ci siano stati, sia da parte dei ristoratori e publican che da parte degli avventori – che ricade su tutti. Tutto contribuisce agli sfoghi di rabbia che si vedono in queste ore, e che sicuramente uscirà – auspicabilmente in forme civili – dai confini dei social.Intendiamoci: ogni luogo di aggregazione è, di per sé, fonte potenziale di rischio – compresi i centri commerciali, che però non sono stati chiusi. E onestamente non me la sento di condividere, o almeno non in toto, la narrativa “innocentista” secondo cui in pub e affini non si sono mai verificati episodi di mancato rispetto delle regole (se non altro perché ne ho visti con i miei occhi). Però è evidente che chiudere i luoghi di aggregazione dopo le 18 – nonché quelli con più rigidi protocolli di sicurezza come palestre e piscine – per poi lasciare mezzi pubblici affollati, centri commerciali aperti, e un sistema in cui l’esito di un tampone spesso arriva così tardi da essere ormai inefficace ai fini del contenimento, è inutile oltre che ingiusto.Per quanto riguarda il settore birrario nello specifico, credo che l’ipotesi di un mantenimento della consegna a domicilio che avevo avanzato in questo post, e inizialmente smentita dai fatti (molti birrai mi avevano detto di averla molto ridotta o del tutto abbandonata a fine lockdown) tornerà in auge: chiusi i principali canali distributivi di pub e ristoranti non resta che la vendita diretta, o in birrificio o in delivery. C’è da augurarsi che anche questa volta la risposta del pubblico sia buona. Non so però se davvero tutti i birrifici si reingegneranno, anche questa volta, per trovare una soluzione.Perché temo che con questa seconda stretta si sia davvero giunti ad un punto di rottura. E non solo perché ci saranno aziende (non solo birrifici e pub) che non reggeranno il colpo, con relative conseguenze sull’occupazione. Ma anche perché la rabbia, per definizione, è distruttiva, non costruttiva. E quindi rende difficile ingegnarsi per sfangarla in qualche modo, stringere i denti a fronte di un beneficio comune come è la salute pubblica, facendo preferire piuttosto gettare la spugna e sfogare il proprio risentimento. Mi auguro di sbagliarmi, ma temo di no. p { margin-bottom: 0.25cm; direction: ltr; color: #000000; line-height: 115%; orphans: 2; widows: 2 } p.western { font-family: "Liberation Serif", "Times New Roman", serif; font-size: 12pt; so-language: it-IT } p.cjk { font-family: "Noto Sans CJK SC"; font-size: 12pt; so-language: zh-CN } p.ctl { font-family: "Lohit Devanagari"; font-size: 12pt; so-language: hi-IN } a:link { so-language: zxx }