Tra Moretti e Lambrate, la “contaminazione” è – nel bene e nel male – il futuro?

Ha attirato la mia attenzione, alcuni giorni fa, un post di Maurizio Maestrelli - nota firma del giornalismo brassicolo italiano, nonché giudice internazionale. Nel post, Maestrelli riferisce di aver visto alla Birreria Moretti del Mercato Centrale di Milano la birra artigianale del Lambrate alla spina; venduta allo stesso prezzo della Moretti Baffo d'Oro, ossia 5 euro per la 0,40 l. Da lì, ha coinvolto i lettori in una sorta di sondaggio: "Questa cosa potrebbe essere vista come:A. contaminazione/confusioneB. alto tradimentoC. il futuroD. bravi tutti (gestori del locale, Birra Moretti, Birrificio Lambrate)Io voto C e D. Ma con un sorriso amaro sulle labbra pensando a un passato nemmeno troppo lontano". In molti hanno risposto, motivando in maniera anche parecchio argomentata la propria posizione. Si potrebbe dire che, come per tutte le faccende complesse, ciascuno dei punti di vista ha la sua parte di verità. Senz'altro equiparare sia nella collocazione che nel prezzo due prodotti completamente diversi (per tipologia, per costi, volumi e filosofia di produzione, ecc) risulta fuorviante per il consumatore che non li conosca adeguatamente; oltre a porre domande su quali strategie commerciali e quali accordi ci siano dietro ad un prezzo unico di questo tipo - che visto così e senza saperne di più risulterebbe evidentemente penalizzante per un birrificio artigianale, ma che altrettanto evidentemente poi così penalizzante non è se Lambrate ha accettato. Se il punto B è più, definiamolo così, ideologico - e proprio di chi vede in qualsiasi concessione ai birrifici industriali una resa inaccettabile -, il punto C fa riferimento a quello che è ormai da anni un auspicio e un timore al tempo stesso: che le birre artigianali escano da quella che è vista da molti come una "riserva indiana", per accostarsi ad altri prodotti di più largo consumo e quindi al largo pubblico - con gli inevitabili pro e contro del caso. Il punto D è, se vogliamo, una conclusione che se ne può trarre: bravi tutti se riescono a trovare un modo che avvantaggi ciascuna delle parti in causa per tenere insieme due mondi percepiti come separati.Come dicevo, le opinioni sono state variegate; ma ha attirato in particolare la mia attenzione il fatto che la più gettonata sia stata la C, in quanto scelta sia da chi ha votato l'accoppiata C e D sia A e C. Insomma: sia chi lo vede come un fatto positivo (per quanto magari con disincanto, come il commento finale di Maestrelli stesso lascia intendere) sia chi viceversa non lo vede di buon occhio, ritiene che è ad una convivenza tra proposta di birre artigianali e industriali - con le conseguenti, se non omologazioni, quantomeno forti convergenze anche in termini di prezzo - che si arriverà. Nodo chiave, sostengono in molti, è quindi la comunicazione che ciascun marchio deve fare per trasmettere la propria differenza - o, usando un termine molto caro alla narrativa aziendale, unicità.Niente di nuovo, intendiamoci: della necessità di uscire dalla nicchia - perché il 3,5% dei consumi è una nicchia -, di come farlo e della conseguente necessità di comunicazione corretta si parla da anni; per quanto esista anche una componente che sostiene viceversa l'inconsistenza dell'imperativo della crescita a tutti i costi, e propende piuttosto per una sostenibilità aziendale basata su una piccola scala cucita su misura alle proprie necessità in quanto a capacità produttiva, tipologia di prodotto e modello distributivo. Mi ha sorpresa tuttavia questa convergenza, vista da alcuni come obiettivo da raggiungere e da altri come ineluttabilità; e mi sono chiesta come la pandemia possa aver influito anche su questi modelli.Non è ignorabile, infatti, che dopo ormai quasi due anni di chiusure e aperture a singhiozzo i birrifici abbiano bisogno, come qualsiasi altra azienda, di tornare a vendere i loro prodotti; e possibilmente di farlo con significative crescite (come quelle che in effetti si sono registrate con le riaperture), così da tamponare - letteralmente, verrebbe da dire con amara ironia - i danni patiti. Non solo: ma anche di avere una certa garanzia di stabilità in questa crescita, così evitare da un lato di avere la birra che langue in magazzino nei mesi invernali - soggetti a chiusure più o meno improvvise in base all'andamento dei contagi, e quindi allo stop agli ordini da parte dei pub - e dall'altro di non riuscire a soddisfare le richieste nei mesi estivi, quando sembra che tutti debbano finalmente recuperare le pinte mancate nella stagione fredda. E questo al netto della spinta data dall'e-commerce, fenomeno nuovo non nella sua esistenza in quanto tale, ma nella dimensione che ha assunto a partire dal 2020 (tanto che diverse ricerche confermano che, per quanto tenda a calare con le riaperture, si mantiene comunque a livelli superiori rispetto al pre-pandemia).In questo senso, avere una piazza come il punto vendita di un birrificio industriale al mercato centrale - che quindi raggiunge una quantità significativa di clienti, in maniera più stabile rispetto ad un pub, e clienti che magari mai si sarebbero accostati ad una birra artigianale (e non sia mai che un domani vadano direttamente al pub di Lambrate per provare anche il resto del parco birre, e disposti a pagarle di più) - offre indubbi vantaggi: maggiori, o quantomeno percepiti come tali, dello svantaggio rappresentato dal vendere ad un prezzo più basso (ma qui va evidentemente capito che accordi commerciali ci sono dietro, quali sono i costi di produzione delle due birre vendute a questo prezzo, e quali sono viceversa le politiche commerciali per tutte le altre birre di Lambrate) e dall'eventuale danno d'immagine (che però, se persino chi non approva riconosce che è lì che si arriverà, è lecito ritenere sia meno impattante di quel che sarebbe stato anche solo pochi anni fa). Considerazioni naturalmente che qui porto per il caso Lambrate perché è quello che ha attirato la mia attenzione, ma che possono valere per qualsiasi altro marchio.Insomma: se davvero riteniamo che questo sia il futuro, probabilmente è come sempre utile lasciare da parte gli estremismi - sia quelli di chi parla di "alto tradimento", sia quelli di chi ritiene che va tutto bene così e sarà la cara vecchia mano invisibile del mercato (a cui ormai non crede più ciecamente nemmeno lo stesso Adam Smith, pace all'anima sua) a fare da sola giustizia in favore della birra di qualità - e fare finalmente davvero un ragionamento più serio e disincantato su nuovi canali di vendita e le necessità comunicative che ne conseguono. Chissà che, tra le tante accelerazioni a processi già in corso che la pandemia ha impresso, ci sia anche questa.

Tra Moretti e Lambrate, la “contaminazione” è – nel bene e nel male – il futuro?

Ha attirato la mia attenzione, alcuni giorni fa, un post di Maurizio Maestrelli - nota firma del giornalismo brassicolo italiano, nonché giudice internazionale. Nel post, Maestrelli riferisce di aver visto alla Birreria Moretti del Mercato Centrale di Milano la birra artigianale del Lambrate alla spina; venduta allo stesso prezzo della Moretti Baffo d'Oro, ossia 5 euro per la 0,40 l. Da lì, ha coinvolto i lettori in una sorta di sondaggio: "Questa cosa potrebbe essere vista come:A. contaminazione/confusioneB. alto tradimentoC. il futuroD. bravi tutti (gestori del locale, Birra Moretti, Birrificio Lambrate)Io voto C e D. Ma con un sorriso amaro sulle labbra pensando a un passato nemmeno troppo lontano". In molti hanno risposto, motivando in maniera anche parecchio argomentata la propria posizione. Si potrebbe dire che, come per tutte le faccende complesse, ciascuno dei punti di vista ha la sua parte di verità. Senz'altro equiparare sia nella collocazione che nel prezzo due prodotti completamente diversi (per tipologia, per costi, volumi e filosofia di produzione, ecc) risulta fuorviante per il consumatore che non li conosca adeguatamente; oltre a porre domande su quali strategie commerciali e quali accordi ci siano dietro ad un prezzo unico di questo tipo - che visto così e senza saperne di più risulterebbe evidentemente penalizzante per un birrificio artigianale, ma che altrettanto evidentemente poi così penalizzante non è se Lambrate ha accettato. Se il punto B è più, definiamolo così, ideologico - e proprio di chi vede in qualsiasi concessione ai birrifici industriali una resa inaccettabile -, il punto C fa riferimento a quello che è ormai da anni un auspicio e un timore al tempo stesso: che le birre artigianali escano da quella che è vista da molti come una "riserva indiana", per accostarsi ad altri prodotti di più largo consumo e quindi al largo pubblico - con gli inevitabili pro e contro del caso. Il punto D è, se vogliamo, una conclusione che se ne può trarre: bravi tutti se riescono a trovare un modo che avvantaggi ciascuna delle parti in causa per tenere insieme due mondi percepiti come separati.Come dicevo, le opinioni sono state variegate; ma ha attirato in particolare la mia attenzione il fatto che la più gettonata sia stata la C, in quanto scelta sia da chi ha votato l'accoppiata C e D sia A e C. Insomma: sia chi lo vede come un fatto positivo (per quanto magari con disincanto, come il commento finale di Maestrelli stesso lascia intendere) sia chi viceversa non lo vede di buon occhio, ritiene che è ad una convivenza tra proposta di birre artigianali e industriali - con le conseguenti, se non omologazioni, quantomeno forti convergenze anche in termini di prezzo - che si arriverà. Nodo chiave, sostengono in molti, è quindi la comunicazione che ciascun marchio deve fare per trasmettere la propria differenza - o, usando un termine molto caro alla narrativa aziendale, unicità.Niente di nuovo, intendiamoci: della necessità di uscire dalla nicchia - perché il 3,5% dei consumi è una nicchia -, di come farlo e della conseguente necessità di comunicazione corretta si parla da anni; per quanto esista anche una componente che sostiene viceversa l'inconsistenza dell'imperativo della crescita a tutti i costi, e propende piuttosto per una sostenibilità aziendale basata su una piccola scala cucita su misura alle proprie necessità in quanto a capacità produttiva, tipologia di prodotto e modello distributivo. Mi ha sorpresa tuttavia questa convergenza, vista da alcuni come obiettivo da raggiungere e da altri come ineluttabilità; e mi sono chiesta come la pandemia possa aver influito anche su questi modelli.Non è ignorabile, infatti, che dopo ormai quasi due anni di chiusure e aperture a singhiozzo i birrifici abbiano bisogno, come qualsiasi altra azienda, di tornare a vendere i loro prodotti; e possibilmente di farlo con significative crescite (come quelle che in effetti si sono registrate con le riaperture), così da tamponare - letteralmente, verrebbe da dire con amara ironia - i danni patiti. Non solo: ma anche di avere una certa garanzia di stabilità in questa crescita, così evitare da un lato di avere la birra che langue in magazzino nei mesi invernali - soggetti a chiusure più o meno improvvise in base all'andamento dei contagi, e quindi allo stop agli ordini da parte dei pub - e dall'altro di non riuscire a soddisfare le richieste nei mesi estivi, quando sembra che tutti debbano finalmente recuperare le pinte mancate nella stagione fredda. E questo al netto della spinta data dall'e-commerce, fenomeno nuovo non nella sua esistenza in quanto tale, ma nella dimensione che ha assunto a partire dal 2020 (tanto che diverse ricerche confermano che, per quanto tenda a calare con le riaperture, si mantiene comunque a livelli superiori rispetto al pre-pandemia).In questo senso, avere una piazza come il punto vendita di un birrificio industriale al mercato centrale - che quindi raggiunge una quantità significativa di clienti, in maniera più stabile rispetto ad un pub, e clienti che magari mai si sarebbero accostati ad una birra artigianale (e non sia mai che un domani vadano direttamente al pub di Lambrate per provare anche il resto del parco birre, e disposti a pagarle di più) - offre indubbi vantaggi: maggiori, o quantomeno percepiti come tali, dello svantaggio rappresentato dal vendere ad un prezzo più basso (ma qui va evidentemente capito che accordi commerciali ci sono dietro, quali sono i costi di produzione delle due birre vendute a questo prezzo, e quali sono viceversa le politiche commerciali per tutte le altre birre di Lambrate) e dall'eventuale danno d'immagine (che però, se persino chi non approva riconosce che è lì che si arriverà, è lecito ritenere sia meno impattante di quel che sarebbe stato anche solo pochi anni fa). Considerazioni naturalmente che qui porto per il caso Lambrate perché è quello che ha attirato la mia attenzione, ma che possono valere per qualsiasi altro marchio.Insomma: se davvero riteniamo che questo sia il futuro, probabilmente è come sempre utile lasciare da parte gli estremismi - sia quelli di chi parla di "alto tradimento", sia quelli di chi ritiene che va tutto bene così e sarà la cara vecchia mano invisibile del mercato (a cui ormai non crede più ciecamente nemmeno lo stesso Adam Smith, pace all'anima sua) a fare da sola giustizia in favore della birra di qualità - e fare finalmente davvero un ragionamento più serio e disincantato su nuovi canali di vendita e le necessità comunicative che ne conseguono. Chissà che, tra le tante accelerazioni a processi già in corso che la pandemia ha impresso, ci sia anche questa.

Donne e birra, diffusa la nuova ricerca di Doxa: qualche riflessione

È stata diffusa ieri, confermando la continuità in questo tipo di analisi (ne erano infatti state condotte di analoghe gli scorsi anni), l'indagine di Doxa per Assobirra sul rapporto tra le donne e questa bevanda.In primo luogo, si conferma sia la diffusione del consumo - 2 donne su 3 affermano di bere birra, e 1 su 2 almeno 2-3 volte a settimana - e la preferenza a farlo a pasto - il 59% delle intervistate; nonché l'attenzione per la bassa gradazione alcolica, citata da un'interpellata su due. Per quanto Doxa affermi che "cresce la popolarità delle birre analcoliche" tra la popolazione femminile - e sicuramente ci sono in ballo questioni salutistiche: al di là del grasso in eccesso, basti pensare che la condizione per eccellenza in cui non si possono bere alcolici è la gravidanza -, è però anche vero che una donna su tre afferma di non averne nemmeno sentito parlare (cosa che personalmente non avrei creduto); e che, sebbene la metà delle intervistate affermi che "certamente" o probabilmente" berrà birra analcolica, c'è comunque una propensione a preferire la birra "classica". Insomma, va bene il poco alcolico o l'analcolico, ma occhio a cadere nello stereotipo per cui le donne rifuggono l'alcol in toto.La ricerca rileva poi che il 70% delle intervistate, "consumatrici e non, considera l’aumentata presenza delle donne nel settore una risorsa importante. Soprattutto perché, secondo le appassionate di birra, “le donne riescono a trovare nuove idee e sono uno stimolo per il settore” (45%)". E qui francamente credo ci sia da lavorare sotto il profilo culturale: perché se il 30% delle donne interpellate (che, va detto, non erano moltissime: poco meno di 600) non ritiene rilevante la presenza femminile in un settore a forte prevalenza maschile, significa non tanto che manca solidarietà di genere - di cui francamente mi interessa ben poco -, ma che c'è ancora una concezione piuttosto stereotipata di quelle che sono le dinamiche di genere nel mondo del lavoro.E questo solleva anche questioni ulteriori rispetto all'effettiva praticabilità per una donna del lavoro in questo settore. Personalmente non mi sono mai sentita discriminata in quanto donna quando vado ad occuparmi di servizi giornalistici, degustazioni e affini; però, in tempi in cui tanto si parla di contrasto alla denatalità, non si può dimenticare che diventare mamma per una professionista della birra può essere davvero difficile. Posto che è impensabile che una birraia metta in commercio le proprie birre senza averle nemmeno assaggiate, o che una giornalista o biersommelière le recensisca o conduca una degustazione senza averle bevute, o che una publican non verifichi di persona la qualità di ciò che serve ai suoi clienti, ciò significa che nove mesi di gravidanza più fino a due anni di allattamento (sì, fino a due anni: siamo noi frenetici occidentali a togliere i bambini dal seno a forza prima perché "sennò si vizia", ma i piccoli arrivano naturalmente ad alternare cibi solidi e latte materno almeno fino all'anno di vita e spesso oltre) diventano assai ardui da conciliare con il lavoro. Il tutto tenendo conto che la quasi totalità delle donne che fanno questi lavori sono libere professioniste, e quindi hanno generalmente accesso (se ce l'hanno) solo ad un forfait di poche migliaia di euro dalla propria cassa previdenziale a copertura di un periodo indefinito di astensione (o pesante riduzione, perché alla fine quello tocca fare per mettere comunque qualcosa in tavola) dal lavoro. Tante birraie e biersommelière hanno figli, e tutte sanno che difficoltà hanno passato per farcela. Insomma, se davvero - come afferma anche Assobirra - si vuole promuovere l'imprenditoria femminile nel settore, e soprattutto quella giovane, bisognerà mettere mano anche agli strumenti previdenziali. Perché anche in questo settore, come in nessun altro, ci si dovrebbe trovare a dover scegliere tra lavoro e famiglia.Infine, da socia, non posso che rallegrarmi del fatto che il 40% delle consumatrici di birra conosca l'Associazione Le Donne della Birra (che è intervenuta, tramite la presidente Elvira Ackermann, nel commentare la ricerca): un segnale non solo che l'attività dell'associazione ha il suo peso, ma anche che si sta sempre più formando quella cultura su donne e birra a cui facevo riferimento prima.

Donne e birra, diffusa la nuova ricerca di Doxa: qualche riflessione

È stata diffusa ieri, confermando la continuità in questo tipo di analisi (ne erano infatti state condotte di analoghe gli scorsi anni), l'indagine di Doxa per Assobirra sul rapporto tra le donne e questa bevanda.In primo luogo, si conferma sia la diffusione del consumo - 2 donne su 3 affermano di bere birra, e 1 su 2 almeno 2-3 volte a settimana - e la preferenza a farlo a pasto - il 59% delle intervistate; nonché l'attenzione per la bassa gradazione alcolica, citata da un'interpellata su due. Per quanto Doxa affermi che "cresce la popolarità delle birre analcoliche" tra la popolazione femminile - e sicuramente ci sono in ballo questioni salutistiche: al di là del grasso in eccesso, basti pensare che la condizione per eccellenza in cui non si possono bere alcolici è la gravidanza -, è però anche vero che una donna su tre afferma di non averne nemmeno sentito parlare (cosa che personalmente non avrei creduto); e che, sebbene la metà delle intervistate affermi che "certamente" o probabilmente" berrà birra analcolica, c'è comunque una propensione a preferire la birra "classica". Insomma, va bene il poco alcolico o l'analcolico, ma occhio a cadere nello stereotipo per cui le donne rifuggono l'alcol in toto.La ricerca rileva poi che il 70% delle intervistate, "consumatrici e non, considera l’aumentata presenza delle donne nel settore una risorsa importante. Soprattutto perché, secondo le appassionate di birra, “le donne riescono a trovare nuove idee e sono uno stimolo per il settore” (45%)". E qui francamente credo ci sia da lavorare sotto il profilo culturale: perché se il 30% delle donne interpellate (che, va detto, non erano moltissime: poco meno di 600) non ritiene rilevante la presenza femminile in un settore a forte prevalenza maschile, significa non tanto che manca solidarietà di genere - di cui francamente mi interessa ben poco -, ma che c'è ancora una concezione piuttosto stereotipata di quelle che sono le dinamiche di genere nel mondo del lavoro.E questo solleva anche questioni ulteriori rispetto all'effettiva praticabilità per una donna del lavoro in questo settore. Personalmente non mi sono mai sentita discriminata in quanto donna quando vado ad occuparmi di servizi giornalistici, degustazioni e affini; però, in tempi in cui tanto si parla di contrasto alla denatalità, non si può dimenticare che diventare mamma per una professionista della birra può essere davvero difficile. Posto che è impensabile che una birraia metta in commercio le proprie birre senza averle nemmeno assaggiate, o che una giornalista o biersommelière le recensisca o conduca una degustazione senza averle bevute, o che una publican non verifichi di persona la qualità di ciò che serve ai suoi clienti, ciò significa che nove mesi di gravidanza più fino a due anni di allattamento (sì, fino a due anni: siamo noi frenetici occidentali a togliere i bambini dal seno a forza prima perché "sennò si vizia", ma i piccoli arrivano naturalmente ad alternare cibi solidi e latte materno almeno fino all'anno di vita e spesso oltre) diventano assai ardui da conciliare con il lavoro. Il tutto tenendo conto che la quasi totalità delle donne che fanno questi lavori sono libere professioniste, e quindi hanno generalmente accesso (se ce l'hanno) solo ad un forfait di poche migliaia di euro dalla propria cassa previdenziale a copertura di un periodo indefinito di astensione (o pesante riduzione, perché alla fine quello tocca fare per mettere comunque qualcosa in tavola) dal lavoro. Tante birraie e biersommelière hanno figli, e tutte sanno che difficoltà hanno passato per farcela. Insomma, se davvero - come afferma anche Assobirra - si vuole promuovere l'imprenditoria femminile nel settore, e soprattutto quella giovane, bisognerà mettere mano anche agli strumenti previdenziali. Perché anche in questo settore, come in nessun altro, ci si dovrebbe trovare a dover scegliere tra lavoro e famiglia.Infine, da socia, non posso che rallegrarmi del fatto che il 40% delle consumatrici di birra conosca l'Associazione Le Donne della Birra (che è intervenuta, tramite la presidente Elvira Ackermann, nel commentare la ricerca): un segnale non solo che l'attività dell'associazione ha il suo peso, ma anche che si sta sempre più formando quella cultura su donne e birra a cui facevo riferimento prima.

La “Iga” è solo “Ga”: sparita la dicitura “Italian” dal Bjcp

Come avevo già spiegato in questo post, lo scorso aprile Gianriccardo Corbo aveva reso noto che il Bjcp intendeva non promuovere, come ci si sarebbe aspettati, l'Italian Grape Ale tra gli stili ufficialmente riconosciuti; ma viceversa togliere l'aggettivo Italian (lasciando quindi solo Grape Ale) così da salvaguardare la possibilità che venissero utilizzati anche vitigni non italiani per la produzione di queste birre. Motivazione apparsa da subito contraddittoria in quanto in tutti gli altri stili classificati nel Bjcp l'aggettivo di nazionalità non sta ad indicare il luogo in cui una birra è prodotta o quello di provenienza delle materie prime, ma quello che ha dato paternità allo stile. Ne era nato un vivace movimento di opinione, che ha anche raccolto alcune migliaia di firme in una petizione online.A quanto pare, però, la cosa non è servita: tramite la propria newsletter, rilanciata oggi appunto da Corbo, il Bjcp ha annunciato che "l'Italian Grape Ale è stata rinominata Grape ale, per consentire varietà non italiane, e spostata tra le birre alla frutta (per quanto rimanga come stile locale)". La nuova guida non è in realtà ancora disponibile, ma questo annuncio conferma che si persevera nella contraddizione senza aver prestato ascolto alle voci giunte dall'Italia (e non solo). Corbo riferisce di aver già scritto al presidente del Bjcp, Gordon Strong, per esprimere il suo disappunto contro quello che definisce un fatto "inaccettabile per il movimento birrario Italiano"; ed invita altri a fare altrettanto.Naturalmente c'è da chiedersi le ragioni di una tale irremovibilità (rispetto alla quale sarebbe auspicabile che il Bjcp desse motivazioni più articolate di queste poche righe, in cui si limita a ripetere la posizione già oggetto di contestazione). Nel mio precedente post avevo fatto riferimento alle battaglie di territorialità che sempre spuntano quando si parla di vino, e rimango della mia idea che possano aver avuto il loro peso; però c'è di che domandarsi chi mai abbia fatto così tanta pressione all'interno del Bjcp stesso. Sicuramente, guardando all'interno degli Usa (visto che il Bjcp è americano), ci sono delle aree in cui gli intrecci tra produzione brassicola e vinicola sono tali da configurare un interesse a "scalzare" l'aggettivo Italian a beneficio delle produzioni locali: basti pensare alla californiana Napa Valley, terra di vini pregiati, e allo stesso tempo all'interno dello Stato che ha fatto da culla al movimento birrario artigianale americano. Sia chiaro, la mia è un'ipotesi: non conosco le dinamiche interne del Bjcp, e quindi - ripeto - auspicherei dal Bjcp stesso argomentazioni più articolate (e visto che non sono mai arrivate dalla primavera ad oggi, nonostante i solleciti da parte italiana, sarebbe quantomai opportuno). Però la chiarezza aiuta anche a non alimentare dietrologie in merito agli interessi dei produttori non italiani.In ogni caso, si tratta di un pesante colpo per il movimento birrario italiano: che, sono certa, si farà sentire - anche considerato il discreto numero di giudici Bjcp che abbiamo in patria.

La “Iga” è solo “Ga”: sparita la dicitura “Italian” dal Bjcp

Come avevo già spiegato in questo post, lo scorso aprile Gianriccardo Corbo aveva reso noto che il Bjcp intendeva non promuovere, come ci si sarebbe aspettati, l'Italian Grape Ale tra gli stili ufficialmente riconosciuti; ma viceversa togliere l'aggettivo Italian (lasciando quindi solo Grape Ale) così da salvaguardare la possibilità che venissero utilizzati anche vitigni non italiani per la produzione di queste birre. Motivazione apparsa da subito contraddittoria in quanto in tutti gli altri stili classificati nel Bjcp l'aggettivo di nazionalità non sta ad indicare il luogo in cui una birra è prodotta o quello di provenienza delle materie prime, ma quello che ha dato paternità allo stile. Ne era nato un vivace movimento di opinione, che ha anche raccolto alcune migliaia di firme in una petizione online.A quanto pare, però, la cosa non è servita: tramite la propria newsletter, rilanciata oggi appunto da Corbo, il Bjcp ha annunciato che "l'Italian Grape Ale è stata rinominata Grape ale, per consentire varietà non italiane, e spostata tra le birre alla frutta (per quanto rimanga come stile locale)". La nuova guida non è in realtà ancora disponibile, ma questo annuncio conferma che si persevera nella contraddizione senza aver prestato ascolto alle voci giunte dall'Italia (e non solo). Corbo riferisce di aver già scritto al presidente del Bjcp, Gordon Strong, per esprimere il suo disappunto contro quello che definisce un fatto "inaccettabile per il movimento birrario Italiano"; ed invita altri a fare altrettanto.Naturalmente c'è da chiedersi le ragioni di una tale irremovibilità (rispetto alla quale sarebbe auspicabile che il Bjcp desse motivazioni più articolate di queste poche righe, in cui si limita a ripetere la posizione già oggetto di contestazione). Nel mio precedente post avevo fatto riferimento alle battaglie di territorialità che sempre spuntano quando si parla di vino, e rimango della mia idea che possano aver avuto il loro peso; però c'è di che domandarsi chi mai abbia fatto così tanta pressione all'interno del Bjcp stesso. Sicuramente, guardando all'interno degli Usa (visto che il Bjcp è americano), ci sono delle aree in cui gli intrecci tra produzione brassicola e vinicola sono tali da configurare un interesse a "scalzare" l'aggettivo Italian a beneficio delle produzioni locali: basti pensare alla californiana Napa Valley, terra di vini pregiati, e allo stesso tempo all'interno dello Stato che ha fatto da culla al movimento birrario artigianale americano. Sia chiaro, la mia è un'ipotesi: non conosco le dinamiche interne del Bjcp, e quindi - ripeto - auspicherei dal Bjcp stesso argomentazioni più articolate (e visto che non sono mai arrivate dalla primavera ad oggi, nonostante i solleciti da parte italiana, sarebbe quantomai opportuno). Però la chiarezza aiuta anche a non alimentare dietrologie in merito agli interessi dei produttori non italiani.In ogni caso, si tratta di un pesante colpo per il movimento birrario italiano: che, sono certa, si farà sentire - anche considerato il discreto numero di giudici Bjcp che abbiamo in patria.

Alla premiazione dell’Iga Beer Challenge

Fa sempre piacere essere invitata ad assistere di persona a qualcosa che rappresenta una "première" nel mondo birrario italiano: e tale può definirsi la premiazione del primo IGA Beer Challenge, che si è tenuta sabato 13 novembre presso la sede di Gai Macchine Imbottigliatrici a Ceresole d'Alba (nella foto Marco Jorio, che ha presentato l'evento insieme ad Andrea Camaschella).Il concorso è stato lanciato nell'ambito del progetto Italiano Grape Ale (www.italiangrapeale.org) promosso da Guido Palazzo insieme a numerosi collaboratori e partner; e che prevede tra le altre cose una mappatura in costante aggiornamento sul sito delle birre prodotte secondo questo stile e dei relativi birrifici, al fine di promuovere e sviluppare ulteriormente questa peculiarità birraria italiana.Sono stati 66 i birrifici partecipanti, per 123 birre; giudicate da una squadra internazionale di 18 giudici, scelti per competenze sia in campo birrario che vinicolo.Vi rimando per praticità a questo link per la lista completa dei vincitori nelle quattro categorie; tra cui come vedrete spiccano Opperbacco con tre riconoscimenti (tutti per le birre della serie Nature Terra) e Crak e Alveria con due (quest'ultimo, peraltro, per la stessa birra, che ha ricevuto anche il premio per la miglior valorizzazione del vitigno autoctono).A livello generale, il dettaglio che ho trovato interessante è stato il fatto che, accanto a nomi già noti e blasonati, siano salite sul podio anche realtà esordienti sia in senso assoluto - come il vicentino Sorio, attivo da sei mesi - che rispetto allo stile - come Alveria, alla sua prima IGA; e, come prevedibile, con progetti di esplorare ulteriormente questo terreno - Sorio, che già dichiara il 90% di materie prime provenienti dall'azienda agricola da cui il birrificio ha avuto origine, intende produrre altre IGA usando mosto e vino della casa; mentre Alveria progetta di proseguire la collaborazione con la locale cantina ampliando la gamma fino ad avere una vera e propria bottaia, anche come testimonianza di collaborazione tra aziende nel siracusano. Insomma, una prova non solo della vitalità del settore birrario italiano, ma anche di questo stile nello specifico; e delle crescenti competenze e conoscenze che i birrai stanno accumulando in merito.Altro spunto di riflessione interessante mi è arrivato da una chiacchierata con lo staff di Opperbacco, che mi ha riferito - alla luce dell'ampia gamma di birre prodotte - di come le IGA non solo costituiscano (come prevedibile, e come connaturato al fatto che si tratta spesso di produzioni fattibili solo su piccola scala) una percentuale minima del mercato, ma di come il birrificio abbia deciso di non esportarle più (pur avendolo fatto in numerosi Paesi): scelta motivata con una domanda estremamente incostante, che rendeva difficile e in ultima analisi non remunerativo seguire questi mercati. Più costante viceversa, per quanto appunto contenuto, il mercato italiano. Se le IGA dunque - come è auspicato ed auspicabile - mirano a porsi come ambasciatrici del made in Italy all'estero, è lecito chiedersi come raggiungere una sostenibile stabilità di mercato.Merita una citazione anche il fatto che l'ad dell'azienda, Guglielmo Gai, mi abbia dato conferma nel mio dialogo con lui di alcune tendenze in atto nel mondo dei birrifici artigianali: la sempre maggior preparazione tecnica e consapevolezza da parte dei birrai quando si tratta di imbottigliamento (e quindi conseguente cura della distribuzione e vendita), e sempre maggior richiesta di macchine lattinatrici anche adatte alle esigenze di piccole realtà - con conseguente risposta delle aziende a questa domanda. Due tendenze su cui continuare porre senz'altro l'attenzione.Non è stato possibile degustare in loco le birre premiate, ma non siamo ad ogni modo rimasti a bocca asciutta dato che la premiazione si è conclusa con un pranzo accompagnato dalla birra. A fare da aperitivo è stato un classico come la Tibir di Montegioco, IGA con Timorasso il cui punto di forza si conferma l'aroma floreale - geranio in particolare - che va ad ingentilire un'acidità tra il citrico e l'acetico comunque non invasiva - ed evidente solo all'aroma e in chiusura, assai meno al palato, dove scorre un cereale decisamente snello. Interessante l'accostamento con focaccia e giardiniera sott'aceto, la cui acidità era al tempo stesso accompagnata e ingentilita dalla birra.In seconda battuta la dark mild Macclesfield di Shire Brewing, ad accompagnare gli antipasti - un flan di zucca con amaretti, e un'insalata di finocchio con toma, castagne e aceto balsamico. Aroma intenso di cioccolato al caramello, ben integrato con i profumi erbacei del luppolo Fuggle; a cui segue un corpo di fave di cacao tostate, che - se sembra sparire appena deglutito - ritorna poi per un finale corto e secco in cui si uniscono l'amaro del malto tostato e l'amaricatura del luppolo. Indovinato l'accostamento nel primo caso, dove conferiva in bocca una sensazione di zucca arrostita; ma ancor di più nel secondo, in cui la cremosità e sapidità del formaggio si amalgamavano perfettamente con i toni di cioccolato tostato.Ad accompagnare il risotto al radicchio e pancetta è stata la Kaiser Hopfen, Imperial Pils del birrificio La Piazza. Aromi ben riconoscibili ma non pervasivi di luppoli nobili, su una base che ricorda il pane spalmato col miele; un sapore che si ritrova al palato, dove la birra si presenta avvolgente e corposa nonostante la scorrevolezza complessiva, prima di un finale - a mio avviso meno secco di quanto atteso - in cui miele e amaricatura giocano un po' a tiro alla fune. Per quanto questo gioco fosse funzionale ad accompagnare e contrastare al tempo stesso l'amaro del radicchio, e l'accostamento sia stato quindi ben congegnato, avrei forse trovato più indicata una birra dai toni di caramello nel corpo così da accostarsi meglio anche alla pancetta.Infine, con la torta di nocciole e zabaione, la Baltic Porter sempre de La Piazza: aromi intensi di liquirizia, uniti ad una luppolatura su toni balsamici, aprono ad un corpo avvolgente di liquirizia pura in cui l'amaro dei malti tostati si fa sentire in tutta la sua forza, fino al finale persistente. Giusto l'accostamento tra tostato e nocciole, anche se deve piacere appunto l'amaro perché la frutta secca tende ad evidenziare questa componente.Nel complesso un pranzo ben costruito, sia per la qualità di birre e cibo - nota di merito va doverosamente alla cucina - che per la cura degli abbinamenti.Un ringraziamento agli organizzatori dell'Iga Beer Challenge - in particolare a Giudo e Diego -, alla Gai e - permettetemi, perché è doveroso - a mio padre che mi ha fatto da autista per gli oltre 900 km tra andata e ritorno in giornata!

Alla premiazione dell’Iga Beer Challenge

Fa sempre piacere essere invitata ad assistere di persona a qualcosa che rappresenta una "première" nel mondo birrario italiano: e tale può definirsi la premiazione del primo IGA Beer Challenge, che si è tenuta sabato 13 novembre presso la sede di Gai Macchine Imbottigliatrici a Ceresole d'Alba (nella foto Marco Jorio, che ha presentato l'evento insieme ad Andrea Camaschella).Il concorso è stato lanciato nell'ambito del progetto Italiano Grape Ale (www.italiangrapeale.org) promosso da Guido Palazzo insieme a numerosi collaboratori e partner; e che prevede tra le altre cose una mappatura in costante aggiornamento sul sito delle birre prodotte secondo questo stile e dei relativi birrifici, al fine di promuovere e sviluppare ulteriormente questa peculiarità birraria italiana.Sono stati 66 i birrifici partecipanti, per 123 birre; giudicate da una squadra internazionale di 18 giudici, scelti per competenze sia in campo birrario che vinicolo.Vi rimando per praticità a questo link per la lista completa dei vincitori nelle quattro categorie; tra cui come vedrete spiccano Opperbacco con tre riconoscimenti (tutti per le birre della serie Nature Terra) e Crak e Alveria con due (quest'ultimo, peraltro, per la stessa birra, che ha ricevuto anche il premio per la miglior valorizzazione del vitigno autoctono).A livello generale, il dettaglio che ho trovato interessante è stato il fatto che, accanto a nomi già noti e blasonati, siano salite sul podio anche realtà esordienti sia in senso assoluto - come il vicentino Sorio, attivo da sei mesi - che rispetto allo stile - come Alveria, alla sua prima IGA; e, come prevedibile, con progetti di esplorare ulteriormente questo terreno - Sorio, che già dichiara il 90% di materie prime provenienti dall'azienda agricola da cui il birrificio ha avuto origine, intende produrre altre IGA usando mosto e vino della casa; mentre Alveria progetta di proseguire la collaborazione con la locale cantina ampliando la gamma fino ad avere una vera e propria bottaia, anche come testimonianza di collaborazione tra aziende nel siracusano. Insomma, una prova non solo della vitalità del settore birrario italiano, ma anche di questo stile nello specifico; e delle crescenti competenze e conoscenze che i birrai stanno accumulando in merito.Altro spunto di riflessione interessante mi è arrivato da una chiacchierata con lo staff di Opperbacco, che mi ha riferito - alla luce dell'ampia gamma di birre prodotte - di come le IGA non solo costituiscano (come prevedibile, e come connaturato al fatto che si tratta spesso di produzioni fattibili solo su piccola scala) una percentuale minima del mercato, ma di come il birrificio abbia deciso di non esportarle più (pur avendolo fatto in numerosi Paesi): scelta motivata con una domanda estremamente incostante, che rendeva difficile e in ultima analisi non remunerativo seguire questi mercati. Più costante viceversa, per quanto appunto contenuto, il mercato italiano. Se le IGA dunque - come è auspicato ed auspicabile - mirano a porsi come ambasciatrici del made in Italy all'estero, è lecito chiedersi come raggiungere una sostenibile stabilità di mercato.Merita una citazione anche il fatto che l'ad dell'azienda, Guglielmo Gai, mi abbia dato conferma nel mio dialogo con lui di alcune tendenze in atto nel mondo dei birrifici artigianali: la sempre maggior preparazione tecnica e consapevolezza da parte dei birrai quando si tratta di imbottigliamento (e quindi conseguente cura della distribuzione e vendita), e sempre maggior richiesta di macchine lattinatrici anche adatte alle esigenze di piccole realtà - con conseguente risposta delle aziende a questa domanda. Due tendenze su cui continuare porre senz'altro l'attenzione.Non è stato possibile degustare in loco le birre premiate, ma non siamo ad ogni modo rimasti a bocca asciutta dato che la premiazione si è conclusa con un pranzo accompagnato dalla birra. A fare da aperitivo è stato un classico come la Tibir di Montegioco, IGA con Timorasso il cui punto di forza si conferma l'aroma floreale - geranio in particolare - che va ad ingentilire un'acidità tra il citrico e l'acetico comunque non invasiva - ed evidente solo all'aroma e in chiusura, assai meno al palato, dove scorre un cereale decisamente snello. Interessante l'accostamento con focaccia e giardiniera sott'aceto, la cui acidità era al tempo stesso accompagnata e ingentilita dalla birra.In seconda battuta la dark mild Macclesfield di Shire Brewing, ad accompagnare gli antipasti - un flan di zucca con amaretti, e un'insalata di finocchio con toma, castagne e aceto balsamico. Aroma intenso di cioccolato al caramello, ben integrato con i profumi erbacei del luppolo Fuggle; a cui segue un corpo di fave di cacao tostate, che - se sembra sparire appena deglutito - ritorna poi per un finale corto e secco in cui si uniscono l'amaro del malto tostato e l'amaricatura del luppolo. Indovinato l'accostamento nel primo caso, dove conferiva in bocca una sensazione di zucca arrostita; ma ancor di più nel secondo, in cui la cremosità e sapidità del formaggio si amalgamavano perfettamente con i toni di cioccolato tostato.Ad accompagnare il risotto al radicchio e pancetta è stata la Kaiser Hopfen, Imperial Pils del birrificio La Piazza. Aromi ben riconoscibili ma non pervasivi di luppoli nobili, su una base che ricorda il pane spalmato col miele; un sapore che si ritrova al palato, dove la birra si presenta avvolgente e corposa nonostante la scorrevolezza complessiva, prima di un finale - a mio avviso meno secco di quanto atteso - in cui miele e amaricatura giocano un po' a tiro alla fune. Per quanto questo gioco fosse funzionale ad accompagnare e contrastare al tempo stesso l'amaro del radicchio, e l'accostamento sia stato quindi ben congegnato, avrei forse trovato più indicata una birra dai toni di caramello nel corpo così da accostarsi meglio anche alla pancetta.Infine, con la torta di nocciole e zabaione, la Baltic Porter sempre de La Piazza: aromi intensi di liquirizia, uniti ad una luppolatura su toni balsamici, aprono ad un corpo avvolgente di liquirizia pura in cui l'amaro dei malti tostati si fa sentire in tutta la sua forza, fino al finale persistente. Giusto l'accostamento tra tostato e nocciole, anche se deve piacere appunto l'amaro perché la frutta secca tende ad evidenziare questa componente.Nel complesso un pranzo ben costruito, sia per la qualità di birre e cibo - nota di merito va doverosamente alla cucina - che per la cura degli abbinamenti.Un ringraziamento agli organizzatori dell'Iga Beer Challenge - in particolare a Guido e Diego -, alla Gai e - permettetemi, perché è doveroso - a mio padre che mi ha fatto da autista per gli oltre 900 km tra andata e ritorno in giornata!

Sei birre per due sorelle

Avevo già presentato, per il Giornale della Birra, il birrificio agricolo cuneese Due Sorelle (qui e qui potete leggere gli articoli): una realtà nata nel 2014 da un cascinale acquistato tre anni prima, e in cui le due giovani sorelle Federica ed Elisa Toso hanno preso in mano l'attività insieme al resto della famiglia - già attiva nel settore agricolo e delle bevande. All'epoca - parliamo di alcuni mesi fa - avevo assaggiato le loro birre; e recentemente ho avuto modo di farlo di nuovo, facendomene un'idea più precisa.Per ragioni di stile ho iniziato dalla Naif, l'unica lager del repertorio, definita come Zwickelbier. Non aspettatevi, però, qualcosa di assimilabile a ciò che assaggereste in Germania sotto questo nome: la rifermentazione in bottiglia (che mi è stato riferito venire effettuata) fa sì che il lievito dia un ulteriore contributo agli aromi tra lo speziato e l'agrumato del luppolo, strizzando quasi l'occhio a certe Session Ale invece che allo stile di riferimento. Rimane comunque fedele alla sua volontà di essere una birra fresca e dissetante, dal corpo snello e ben carbonato, con una nota di pane spalmato di miele e una chiusura che taglia le persistenze dolci grazie ad un'amaricatura sobria. Puristi astenersi, da provare se invece vi intriga l'idea di una lager chiara che si ibrida con altre tradizioni brassicole.Sono poi passata alla Wahida, una Blanche; ed è proprio la tradizione belga quella a cui si ispira principalmente il birrificio - e che arriva ad influenzare anche le produzioni che fanno riferimento ad altri stili, in particolare per quanto riguarda la tendenza a sfruttare gli esteri del lievito a fini di aromatizzazione. Si tratta di una birra fondamentalmente in stile, dai canonici profumi speziati, agrumati e di coriandolo, e l'acidulo da frumento al palato; ho tuttavia notato un leggero ritorno alcolico caldo a fine bevuta, unica "sbavatura" rispetto ai parametri di riferimento.Decisamente sui generis la Special, sulla carta una Saison, che alla classica rosa di aromi speziati dati dal lievito - ho colto in particolare il pepe - unisce toni decisamente caldi sul fronte del malto, dal miele di castagno al caramello; che arrivano quasi a coprire i luppoli tedeschi usati in aroma. Finale anche qui caldo, con una nota speziata.Sempre a questa famiglia stilistica fa capo anche la prima birra brassata dal birrificio, la Sister Ale, definita come una Farmhouse Ale. Al di là delle dispute sulla classificazione dello stile - chi lo vorrebbe come una definizione che tenga sotto di sé Saison, Blanche e Bière de Garde; chi lo vorrebbe come uno stile a sé, più fedele a quelle che dovevano essere le versioni più "selvagge" delle birre brassate nelle fattorie belghe - c'è da dire che anche qui le due sorelle e il birraio hanno voluto una volta di più non focalizzarsi sul nome dello stile ma sul risultato finale che volevano ottenere (una birra fresca e di facile bevuta): e infatti al naso risaltano anche qui per prima cosa i profumi tra lo speziato e il fruttato del lievito belga, con un lieve accenno acidulo solo sullo sfondo - e che comunque amalgama l'agrumato da luppolo con accenno sour vero e proprio; che ritorna poi, altrettanto leggero, a chiudere un corpo incentrato sui sapori di costa di pane. Niente aromi e sapori brettati né "funky", dunque: personalmente la farei rientrare tra le Grisette, che alcuni classificano infatti tra le Farmhouse Ales.E appunto la Bière de Garde a questo punto non poteva mancare, la Amber Ale (battezzata così, mi è stato riferito, semplicemente perché messa in contrapposizione all'unica altra birra allora prodotta, la Sister Ale, che invece è chiara). Qui ci riavviciniamo allo stile, con un ricco aroma maltato, tra il tostato e il caramello - finanche un tocco di whiskey - incorniciato dagli esteri del lievito. Anche in bocca torna una certa nota liquorosa, con un accenno di legno e frutta sotto spirito; fino ad un finale che rimane dolce e moderatamente persistente.Chiude il quadro scostandosi dal Belgio la Hella Hop, una Ipa: anche qui un connubio sui generis tra la luppolatura americana - dalla frutta tropicale, agli agrumi, alla frutta a pasta gialla - e gli esteri del lievito, confermando la tendenza ad ibridare i vari stili con l'anima belga.Nel complesso, birre piacevoli a bersi e senza difetti palesi - se non appunto la sbavatura che personalmente ho rilevato nella Blanche; e in cui è ben riconoscibile il marchio di fabbrica della passione per le "lievitazioni alla belga", se così le vogliamo scherzosamente chiamare. Il che, se ad alcuni potrebbe far apparire queste birre un po' monocordi, agli amanti del genere potrebbe risultare un interessante filo conduttore anche verso gli stili che belgi non sono.

Sei birre per due sorelle

Avevo già presentato, per il Giornale della Birra, il birrificio agricolo cuneese Due Sorelle (qui e qui potete leggere gli articoli): una realtà nata nel 2014 da un cascinale acquistato tre anni prima, e in cui le due giovani sorelle Federica ed Elisa Toso hanno preso in mano l'attività insieme al resto della famiglia - già attiva nel settore agricolo e delle bevande. All'epoca - parliamo di alcuni mesi fa - avevo assaggiato le loro birre; e recentemente ho avuto modo di farlo di nuovo, facendomene un'idea più precisa.Per ragioni di stile ho iniziato dalla Naif, l'unica lager del repertorio, definita come Zwickelbier. Non aspettatevi, però, qualcosa di assimilabile a ciò che assaggereste in Germania sotto questo nome: la rifermentazione in bottiglia (che mi è stato riferito venire effettuata) fa sì che il lievito dia un ulteriore contributo agli aromi tra lo speziato e l'agrumato del luppolo, strizzando quasi l'occhio a certe Session Ale invece che allo stile di riferimento. Rimane comunque fedele alla sua volontà di essere una birra fresca e dissetante, dal corpo snello e ben carbonato, con una nota di pane spalmato di miele e una chiusura che taglia le persistenze dolci grazie ad un'amaricatura sobria. Puristi astenersi, da provare se invece vi intriga l'idea di una lager chiara che si ibrida con altre tradizioni brassicole.Sono poi passata alla Wahida, una Blanche; ed è proprio la tradizione belga quella a cui si ispira principalmente il birrificio - e che arriva ad influenzare anche le produzioni che fanno riferimento ad altri stili, in particolare per quanto riguarda la tendenza a sfruttare gli esteri del lievito a fini di aromatizzazione. Si tratta di una birra fondamentalmente in stile, dai canonici profumi speziati, agrumati e di coriandolo, e l'acidulo da frumento al palato; ho tuttavia notato un leggero ritorno alcolico caldo a fine bevuta, unica "sbavatura" rispetto ai parametri di riferimento.Decisamente sui generis la Special, sulla carta una Saison, che alla classica rosa di aromi speziati dati dal lievito - ho colto in particolare il pepe - unisce toni decisamente caldi sul fronte del malto, dal miele di castagno al caramello; che arrivano quasi a coprire i luppoli tedeschi usati in aroma. Finale anche qui caldo, con una nota speziata.Sempre a questa famiglia stilistica fa capo anche la prima birra brassata dal birrificio, la Sister Ale, definita come una Farmhouse Ale. Al di là delle dispute sulla classificazione dello stile - chi lo vorrebbe come una definizione che tenga sotto di sé Saison, Blanche e Bière de Garde; chi lo vorrebbe come uno stile a sé, più fedele a quelle che dovevano essere le versioni più "selvagge" delle birre brassate nelle fattorie belghe - c'è da dire che anche qui le due sorelle e il birraio hanno voluto una volta di più non focalizzarsi sul nome dello stile ma sul risultato finale che volevano ottenere (una birra fresca e di facile bevuta): e infatti al naso risaltano anche qui per prima cosa i profumi tra lo speziato e il fruttato del lievito belga, con un lieve accenno acidulo solo sullo sfondo - e che comunque amalgama l'agrumato da luppolo con accenno sour vero e proprio; che ritorna poi, altrettanto leggero, a chiudere un corpo incentrato sui sapori di costa di pane. Niente aromi e sapori brettati né "funky", dunque: personalmente la farei rientrare tra le Grisette, che alcuni classificano infatti tra le Farmhouse Ales.E appunto la Bière de Garde a questo punto non poteva mancare, la Amber Ale (battezzata così, mi è stato riferito, semplicemente perché messa in contrapposizione all'unica altra birra allora prodotta, la Sister Ale, che invece è chiara). Qui ci riavviciniamo allo stile, con un ricco aroma maltato, tra il tostato e il caramello - finanche un tocco di whiskey - incorniciato dagli esteri del lievito. Anche in bocca torna una certa nota liquorosa, con un accenno di legno e frutta sotto spirito; fino ad un finale che rimane dolce e moderatamente persistente.Chiude il quadro scostandosi dal Belgio la Hella Hop, una Ipa: anche qui un connubio sui generis tra la luppolatura americana - dalla frutta tropicale, agli agrumi, alla frutta a pasta gialla - e gli esteri del lievito, confermando la tendenza ad ibridare i vari stili con l'anima belga.Nel complesso, birre piacevoli a bersi e senza difetti palesi - se non appunto la sbavatura che personalmente ho rilevato nella Blanche; e in cui è ben riconoscibile il marchio di fabbrica della passione per le "lievitazioni alla belga", se così le vogliamo scherzosamente chiamare. Il che, se ad alcuni potrebbe far apparire queste birre un po' monocordi, agli amanti del genere potrebbe risultare un interessante filo conduttore anche verso gli stili che belgi non sono.