Un assaggio di Reservoir Dogs

Dopo un periodo di latitanza, sono tornata a bazzicare anche dalle parti dell'Associazione Homebrewers Fvg. L'occasione è stata la cena alla Birreria Brasserie accompagnata dalle birre di Reservoir Dogs, birrificio di Nova Gorica divenuto in breve tra i più noti della Slovenia - e che da tempo mi riprometto di visitare, accogliendo il gentile invito di Uros e soci. Il birrificio è peraltro conosciuto per la creatività sia nel battezzare le proprie birre che nella grafica delle etichette, motivo in più di curiosità.La serata si è aperta con una gose, la Cum Grano Salis. All'aroma si avvertono i toni pungenti dell'acidità lattica e del frumento, come da manuale; ma al corpo risulta decisamente snella e delicata per il genere, per chiudere su una salatura molto sobria, così come lo è l'acidità. Fresca, delicata e dissetante, adatta anche a chi si accosta per la prima volta allo stile.A seguire la session ale Conqueror: aromi di pompelmo puro, corpo scorrevole in cui il cereale si avverte appena, per poi tornare sull'amaro acre degli agrumi. Ammetto di aver trovato la luppolatura, sia in amaro che in aroma, un po' troppo robusta rispetto al corpo evanescente; per quanto si capisca, per come è costruita la Conqueror, che questa era l'intenzione di chi l'ha creata.In terza battuta la ipa Lone Wolf, una monoluppolo styrian wolf: aromi intensi di frutta, in particolare uva spina; che aprono la strada ad un corpo questa volta più robusto, in cui la caramellatura del malto di fa sentire, prima di chiudere sugli stessi toni dell'aroma. Più equilibrata, per chi ama sì le ipa, ma fatica a digerire le luppolatura dall'amaro aggressivo.Sale ancora di intensità la ipa Grim Reaper, dalla luppolatura più "classica" - anche qui ho comunque colto l'uva spina in particolare, per quanto accompagnata da una rosa di frutti e di resine più ampia - e dal corpo adatto a supportare una luppolatura di questa forza, con note tostate. Finale di un amaro acre e persistente.Sempre una ipa, ma questa volta una black, la Starvation: luppolatura sempre tra l'agrume e la frutta tropicale, che non farebbe presagire un corpo che invece rivela tutta la forza del tostato, con toni tra il caffè e il cacao, prima di chiudere su un amaro che richiama l'aroma.Di tutt'altro genere invece l'ultima, la imperial stout Batch 50: aromi intensi di liquore al cioccolato, e finanche qualche nota di vaniglia, rivela un corpo caldo e vellutato tendente al caffè. Chiude in maniera piuttosto secca per il genere, su un amaro sempre da caffè, così da non pregiudicare il sorso successivo.Nel complesso, le definirei tutte birre tecnicamente ben fatte, gradevoli, e pensate per una beva facile e al tempo stesso non banale; unica perplessità che solleverei, il fatto che per la maggior parte esibiscano luppolature sul genere fruttato - dando la sensazione di una certa monotematicità sotto questo profilo, per quanto ciò finisca per diventare al tempo stesso una sorta di "marchio di fabbrica" di Reservoir Dogs.Nota finale per la cucina della Brasserie, come sempre ben curata - antipasto di salumi e formaggi misti, crepe agli spinaci, spiedino di carne mista con patate fritte e crostata alle albicocche. Un grazie all'Associazione Homebrewers Fvg e a tutto lo staff della Brasserie.

Ritorno sulle rive del Benaco

Pur con notevole ritardo, dedico qualche riga alla visita - ahimé a lungo rimandata - al brewpub del birrificio Benaco 70, aperto lo scorso luglio.Il luogo è semplice e arredato con gusto, riuscendo a sfruttare razionalmente gli spazi effettivamente non amplissimi; e una vetrata dà la possibilità di vedere l'impianto, così da far intuire che dai tank alle spine la distanza è di pochi metri. Nota di merito al personale dietro al bancone, che non solo ha saputo spillare a dovere le birre che abbiamo ordinato, ma si è anche dimostrato ben preparato sotto il profilo tecnico quando abbiamo chiesto ragguagli su quanto veniva servito. Oltre alle birre, il pub serve taglieri con gelatine alla birra, bruschette e toast di pane pugliese con farciture ben curate, e snack fritti.Venendo alle birre, ero particolarmente curiosa di provare la Helles e la Kolsch, entrambe fresche di primo posto nelle rispettive categorie a Birra dell'Anno. La Helles, per quanto non ci fosse assolutamente nulla da ridire sotto il profilo tecnico e l'abbia trovata molto gradevole - aroma pulito con il giusto leggero equilibrio tra cereale e luppolatura floreale, corpo snello ma non sfuggente, e chiusura secca e poco persistente -, in realtà non mi ha particolarmente colpita (anche se si potrebbe discutere su quanto facile sia fare una helles che esca fresca, pulita e senza fronzoli, dato che far gridare al miracolo non è ciò che si chiede ad una helles); maggiori entusiasmi li ho invece riservati alla Kolsch. Notevoli gli aromi tra l'erbaceo e il floreale - forti anche di un leggero dry hopping, unico scostamento dalla tradizione tedesca -, da sotto una schiuma che pareva panna montata. Corpo scorrevole ma di media robustezza, con qualche nota di dolcezza tendente al miele, ma che vira poi su un finale secco e pulito di un amaro erbaceo abbastanza netto - a mio avviso, la meglio riuscita tra le birre di Benaco 70 che ho assaggiato recentemente.Un grazie ad Erica, Riccado e tutto lo staff per la calorosa ospitalità.

Ritorno sulle rive del Benaco

Pur con notevole ritardo, dedico qualche riga alla visita - ahimé a lungo rimandata - al brewpub del birrificio Benaco 70, aperto lo scorso luglio.Il luogo è semplice e arredato con gusto, riuscendo a sfruttare razionalmente gli spazi effettivamente non amplissimi; e una vetrata dà la possibilità di vedere l'impianto, così da far intuire che dai tank alle spine la distanza è di pochi metri. Nota di merito al personale dietro al bancone, che non solo ha saputo spillare a dovere le birre che abbiamo ordinato, ma si è anche dimostrato ben preparato sotto il profilo tecnico quando abbiamo chiesto ragguagli su quanto veniva servito. Oltre alle birre, il pub serve taglieri con gelatine alla birra, bruschette e toast di pane pugliese con farciture ben curate, e snack fritti.Venendo alle birre, ero particolarmente curiosa di provare la Helles e la Kolsch, entrambe fresche di primo posto nelle rispettive categorie a Birra dell'Anno. La Helles, per quanto non ci fosse assolutamente nulla da ridire sotto il profilo tecnico e l'abbia trovata molto gradevole - aroma pulito con il giusto leggero equilibrio tra cereale e luppolatura floreale, corpo snello ma non sfuggente, e chiusura secca e poco persistente -, in realtà non mi ha particolarmente colpita (anche se si potrebbe discutere su quanto facile sia fare una helles che esca fresca, pulita e senza fronzoli, dato che far gridare al miracolo non è ciò che si chiede ad una helles); maggiori entusiasmi li ho invece riservati alla Kolsch. Notevoli gli aromi tra l'erbaceo e il floreale - forti anche di un leggero dry hopping, unico scostamento dalla tradizione tedesca -, da sotto una schiuma che pareva panna montata. Corpo scorrevole ma di media robustezza, con qualche nota di dolcezza tendente al miele, ma che vira poi su un finale secco e pulito di un amaro erbaceo abbastanza netto - a mio avviso, la meglio riuscita tra le birre di Benaco 70 che ho assaggiato recentemente.Un grazie ad Erica, Riccado e tutto lo staff per la calorosa ospitalità.

In quel di Milano

Ho avuto il piacere di essere coinvolta anche quest'anno da Beergate nell'organizzazione della St. Patrick Week, il tour in Italia di birrifici artigianali irlandesi che la società di importazione e distribuzione organizza ogni anno per la festa di San Patrizio: ho quindi partecipato all'evento di lancio a La Belle Alliance a Milano, conoscendo così di persona sia un locale di cui da tempo mi si favoleggiava e i birrai dei due birrifici ospiti - Kinnegar e The White Hag (tralasciando l'incontro con il ministro, anzi la ministra irlandese agli affari giovanili Katherine Zappone e l'ambasciatore d'Irlanda in Italia Colm O'Floinn, ma solo perché non sono brassicolicamente rilevanti).Al di là dei convenevoli e della presentazione degli eventi previsti per la settimana, l'occasione è stata naturalmente ghiotta per degustare le birre dei due birrifici in questione: volendone segnalare una per ciascun birrificio, giusto per par condicio, andrei su due scure (dato che paiono essere le più gettonate dai vari pub per festeggiare San Patrizio). Di Kinnegar ho provato la Black Bucket, versione scura della loro Rustbucket, una ale alle segale (unico birrificio in Irlanda a produrre stabilmente questa tipologia). Sia all'aroma che al palato la componente tostata, quasi abbrustolita, risalta in maniera notevole; potrebbe di primo acchito apparire quasi grezza, data anche la tendenza all'amaro, ma riserva poi una sorprendente virata verso una luppolatura fresca e fruttata (non a caso viene definita "black rye ipa") in quella che è una sorta di gioco al contrasto da parte del birraio. Interessante in abbinata con i crostini al salmone (offerti da Bord Bia, l'Ente per la promozione dei prodotti alimentari irlandesi, che ha collaborato all'evento) dato il corpo sufficientemente robusto da sostenere la forza del pesce affumicato e il finale quasi citrico che pulisce.Di The White Hag segnalo la imperial oatmeal stout Black Boar (che tengo in mano nella foto sopra), e quando ho detto imperial stout ho detto tutto: dieci gradi alcolici, profumi e sapori di cioccolato che dominano insieme a quelli del caffè, densa e dolce, quasi cremosa, e dal forte calore alcolico. Il finale non concede tuttavia troppo al dolce, rendendo giustizia alla compenente tostata e bilanciando l'insieme. Ametto di averla provata quasi per caso insieme allo stufato di manzo (ottimo, peraltro) preparato dal cuoco de La Belle Alliance, ma si è rivelato un abbinamento indovinato, dato che le due componenti si "fondevano" insieme in bocca in una maniera inaspettatamente armoniosa.Detto ciò, spendo due parole per una delle risposte datemi dai birrai durante l'intervista doppia che ho condotto. Rick Le Vert di Kinnegar (a sinistra nella foto sopra), quando ho chiesto quale fosse a loro modo di vedere la più grande opportunità che il mercato italiano presenta ad un birrificio estero, ha affermato: "Vedo nei publican una passione e una professionalità che in Irlanda, purtroppo, non vedo più. E questa professionalità e questa passione si riversano sul pubblico: il numero di intenditori, data anche la tradizione enogastronomica italiana, è probabilmente più alto qui che in qualsiasi altro Paese". La domanda, quindi, sorge spontanea: quanti sono i publican che sono consapevoli di avere un ruolo ancor più centrale di quello dei birrifici stessi nel promuovere la fantomatica "cultura della birra artigianale", dato che sono loro ad essere effettivamente sul territorio? Quanti i birrifici e i distributori che investono in formazione dei loro clienti? Naturalmente ce ne sono, dato che già da qualche tempo si è ravvisata questa necessità, ma non sono certo la maggioranza - e del resto non tutti avrebbero le risorse per farlo. Diventa una volta di più lecito però chiedersi se non valga la pena privilegiare questo canale rispetto ad altri, a fronte di ricadute potenzialmente più ampie.Ringrazio Bord Bia per le foto e La Belle Alliance per l'ospitalità.

In quel di Milano

Ho avuto il piacere di essere coinvolta anche quest'anno da Beergate nell'organizzazione della St. Patrick Week, il tour in Italia di birrifici artigianali irlandesi che la società di importazione e distribuzione organizza ogni anno per la festa di San Patrizio: ho quindi partecipato all'evento di lancio a La Belle Alliance a Milano, conoscendo così di persona sia un locale di cui da tempo mi si favoleggiava e i birrai dei due birrifici ospiti - Kinnegar e The White Hag (tralasciando l'incontro con il ministro, anzi la ministra irlandese agli affari giovanili Katherine Zappone e l'ambasciatore d'Irlanda in Italia Colm O'Floinn, ma solo perché non sono brassicolicamente rilevanti).Al di là dei convenevoli e della presentazione degli eventi previsti per la settimana, l'occasione è stata naturalmente ghiotta per degustare le birre dei due birrifici in questione: volendone segnalare una per ciascun birrificio, giusto per par condicio, andrei su due scure (dato che paiono essere le più gettonate dai vari pub per festeggiare San Patrizio). Di Kinnegar ho provato la Black Bucket, versione scura della loro Rustbucket, una ale alle segale (unico birrificio in Irlanda a produrre stabilmente questa tipologia). Sia all'aroma che al palato la componente tostata, quasi abbrustolita, risalta in maniera notevole; potrebbe di primo acchito apparire quasi grezza, data anche la tendenza all'amaro, ma riserva poi una sorprendente virata verso una luppolatura fresca e fruttata (non a caso viene definita "black rye ipa") in quella che è una sorta di gioco al contrasto da parte del birraio. Interessante in abbinata con i crostini al salmone (offerti da Bord Bia, l'Ente per la promozione dei prodotti alimentari irlandesi, che ha collaborato all'evento) dato il corpo sufficientemente robusto da sostenere la forza del pesce affumicato e il finale quasi citrico che pulisce.Di The White Hag segnalo la imperial oatmeal stout Black Boar (che tengo in mano nella foto sopra), e quando ho detto imperial stout ho detto tutto: dieci gradi alcolici, profumi e sapori di cioccolato che dominano insieme a quelli del caffè, densa e dolce, quasi cremosa, e dal forte calore alcolico. Il finale non concede tuttavia troppo al dolce, rendendo giustizia alla compenente tostata e bilanciando l'insieme. Ametto di averla provata quasi per caso insieme allo stufato di manzo (ottimo, peraltro) preparato dal cuoco de La Belle Alliance, ma si è rivelato un abbinamento indovinato, dato che le due componenti si "fondevano" insieme in bocca in una maniera inaspettatamente armoniosa.Detto ciò, spendo due parole per una delle risposte datemi dai birrai durante l'intervista doppia che ho condotto. Rick Le Vert di Kinnegar (a sinistra nella foto sopra), quando ho chiesto quale fosse a loro modo di vedere la più grande opportunità che il mercato italiano presenta ad un birrificio estero, ha affermato: "Vedo nei publican una passione e una professionalità che in Irlanda, purtroppo, non vedo più. E questa professionalità e questa passione si riversano sul pubblico: il numero di intenditori, data anche la tradizione enogastronomica italiana, è probabilmente più alto qui che in qualsiasi altro Paese". La domanda, quindi, sorge spontanea: quanti sono i publican che sono consapevoli di avere un ruolo ancor più centrale di quello dei birrifici stessi nel promuovere la fantomatica "cultura della birra artigianale", dato che sono loro ad essere effettivamente sul territorio? Quanti i birrifici e i distributori che investono in formazione dei loro clienti? Naturalmente ce ne sono, dato che già da qualche tempo si è ravvisata questa necessità, ma non sono certo la maggioranza - e del resto non tutti avrebbero le risorse per farlo. Diventa una volta di più lecito però chiedersi se non valga la pena privilegiare questo canale rispetto ad altri, a fronte di ricadute potenzialmente più ampie.Ringrazio Bord Bia per le foto e La Belle Alliance per l'ospitalità.

Tre novità al Cucinare

Pur con notevole ritardo, eccomi a scrivere qualche riga sulla mia esperienza al Cucinare di quest'anno. Come di consueto ho avuto il piacere di guidare le degustazioni di birra artigianale: quest'anno con (in ordine rigorosamente casuale) Birra di Naon, Couture, Birra di Meni, B2O, Birra Follina, Sognandobirra, Birra Galassia, Il Maglio e Birrificio dei Perugini (nuova conoscenza per me). Ad accompagnarli, gli abbinamenti gastronomici di Trota Blu, Alessio Brusadin, Adelia Di Fant, Danieli - Il Forno delle Puglie, Trattatibene, Il Cacio com'era, Pasticceria artigianale di Lenardo e Salumificio Billy Mio - che ringrazio per la disponibilità.Non andrò nel dettaglio di tutti e nove gli assaggi e abbinamenti, sia per non tediarvi che per non farvi venire inutilmente sete; mi permetto solo una nota, essendo un birrificio nuovo per me, sul curiosamente azzeccato abbinamento tra strudel di mele-porter (nella fattispecie lo strudel di Di Lenardo e la porter del Birrificio dei Perugini, più improntata sui toni del tostato "acre" che su quelli tendenti al cioccolato, che ha creato un interessante contrasto con il dolce e l'acidulo della mela a cui faceva da "ponte" l'uva passa). Mi soffermo piuttosto su tre novità trovate lì, di cui due presentate proprio per l'occasione.La prima è il barley wine de Il Maglio, "Inverno 1936", risultato di una cotta "sui generis" fatta nel 2016 - con un'importante luppolatura, mi è stato riferito, così da arrivare a bilanciare poi la dolcezza finale - maturata 10 mesi in botti di Amarone Superiore. In effetti l'Amarone risalta bene sin dall'aroma, tanto da caratterizzarlo subito come barley wine decisamente "veneto"; al palato è pieno e caldo, anche qui con note generose di frutta matura e legno che si fanno ben sentire sopra a quelle del malto; per chiudere poi in maniera calda ma senza lunghe persistenze dolci (come del resto mi era stato anticipato), aiutando così anche a mascherare la nota alcolica data dai 13 gradi. Per chi cerca sapori forti ma con un equilibrio d'insieme, e non disdegna il vino oltre alla birra.La seconda è la Apollo di Galassia, definita "American Kolsch": verrebbe da dire che, nel proliferare degli stili, forse non si sentiva il bisogno di crearne un'altro ancora, ma i ragazzi di Galassia hanno a più riprese dimostrato di saper essere sì creativi ma con giudizio - del resto non ho mai nascosto il mio apprezzamento per la loro "saison ipa" - e quindi glie lo si può perdonare. La dicitura "American" è dovuta ai toni agrumati all'aroma insoliti per una Kolsch, anche se in questo caso la nota caratteristica è data da un luppolo tedesco, il mandarina bavaria - usato peraltro fresco. E in effetti la luppolatura è insolitamente evidente per una Kolsch, pur rimanendo nei limiti dell'eleganza; al palato è fresca e snella, come si conviene allo stile, per chiudere poi su un amaro secco e netto in cui ritorna, in seconda battuta, il mandarina. Per chi apprezza sì la discrezione ed eleganza della tradizione tedesca, ma anche qualche nota di colore in più.Da ultimo la bitter che Meni produce per il Barile di Maniago, battezzata Pals, e definita "la bitter del nonno del birraio". E in effetti, come definizione è azzeccata, nella misura in cui vuole essere la bitter più semplice e tradizionale a cui si possa pensare: aroma tra l'erbaceo e il terroso di luppoli inglesi con una lievissima nota di tostato, corpo sfuggente ma non inconsistente sempre sugli stessi toni, e chiusura di un amaro secco e deciso ma non invadente, ad invogliare al sorso successivo.Non mi resta che concludere ringraziando di nuovo tutti, dallo staff del Cucinare, ai birrifici, agli altri espositori.

Tre novità al Cucinare

Pur con notevole ritardo, eccomi a scrivere qualche riga sulla mia esperienza al Cucinare di quest'anno. Come di consueto ho avuto il piacere di guidare le degustazioni di birra artigianale: quest'anno con (in ordine rigorosamente casuale) Birra di Naon, Couture, Birra di Meni, B2O, Birra Follina, Sognandobirra, Birra Galassia, Il Maglio e Birrificio dei Perugini (nuova conoscenza per me). Ad accompagnarli, gli abbinamenti gastronomici di Trota Blu, Alessio Brusadin, Adelia Di Fant, Danieli - Il Forno delle Puglie, Trattatibene, Il Cacio com'era, Pasticceria artigianale di Lenardo e Salumificio Billy Mio - che ringrazio per la disponibilità.Non andrò nel dettaglio di tutti e nove gli assaggi e abbinamenti, sia per non tediarvi che per non farvi venire inutilmente sete; mi permetto solo una nota, essendo un birrificio nuovo per me, sul curiosamente azzeccato abbinamento tra strudel di mele-porter (nella fattispecie lo strudel di Di Lenardo e la porter del Birrificio dei Perugini, più improntata sui toni del tostato "acre" che su quelli tendenti al cioccolato, che ha creato un interessante contrasto con il dolce e l'acidulo della mela a cui faceva da "ponte" l'uva passa). Mi soffermo piuttosto su tre novità trovate lì, di cui due presentate proprio per l'occasione.La prima è il barley wine de Il Maglio, "Inverno 1936", risultato di una cotta "sui generis" fatta nel 2016 - con un'importante luppolatura, mi è stato riferito, così da arrivare a bilanciare poi la dolcezza finale - maturata 10 mesi in botti di Amarone Superiore. In effetti l'Amarone risalta bene sin dall'aroma, tanto da caratterizzarlo subito come barley wine decisamente "veneto"; al palato è pieno e caldo, anche qui con note generose di frutta matura e legno che si fanno ben sentire sopra a quelle del malto; per chiudere poi in maniera calda ma senza lunghe persistenze dolci (come del resto mi era stato anticipato), aiutando così anche a mascherare la nota alcolica data dai 13 gradi. Per chi cerca sapori forti ma con un equilibrio d'insieme, e non disdegna il vino oltre alla birra.La seconda è la Apollo di Galassia, definita "American Kolsch": verrebbe da dire che, nel proliferare degli stili, forse non si sentiva il bisogno di crearne un'altro ancora, ma i ragazzi di Galassia hanno a più riprese dimostrato di saper essere sì creativi ma con giudizio - del resto non ho mai nascosto il mio apprezzamento per la loro "saison ipa" - e quindi glie lo si può perdonare. La dicitura "American" è dovuta ai toni agrumati all'aroma insoliti per una Kolsch, anche se in questo caso la nota caratteristica è data da un luppolo tedesco, il mandarina bavaria - usato peraltro fresco. E in effetti la luppolatura è insolitamente evidente per una Kolsch, pur rimanendo nei limiti dell'eleganza; al palato è fresca e snella, come si conviene allo stile, per chiudere poi su un amaro secco e netto in cui ritorna, in seconda battuta, il mandarina. Per chi apprezza sì la discrezione ed eleganza della tradizione tedesca, ma anche qualche nota di colore in più.Da ultimo la bitter che Meni produce per il Barile di Maniago, battezzata Pals, e definita "la bitter del nonno del birraio". E in effetti, come definizione è azzeccata, nella misura in cui vuole essere la bitter più semplice e tradizionale a cui si possa pensare: aroma tra l'erbaceo e il terroso di luppoli inglesi con una lievissima nota di tostato, corpo sfuggente ma non inconsistente sempre sugli stessi toni, e chiusura di un amaro secco e deciso ma non invadente, ad invogliare al sorso successivo.Non mi resta che concludere ringraziando di nuovo tutti, dallo staff del Cucinare, ai birrifici, agli altri espositori.

In pausa per bebè

Prendendo tutti di sorpresa, la piccola futura biersommelière (spero) ha deciso di arrivare prima delle feste invece che dopo per brindare con noi. Naturalmente mi prenderò un doveroso momento di pausa, ma poi conto di tornare in forze. Buon Natale e buon anno nuovo a tutti!

In pausa per bebè

Prendendo tutti di sorpresa, la piccola futura biersommelière (spero) ha deciso di arrivare prima delle feste invece che dopo per brindare con noi. Naturalmente mi prenderò un doveroso momento di pausa, ma poi conto di tornare in forze. Buon Natale e buon anno nuovo a tutti!

Peroni rilancia il marchio Dormisch

Per quanto mi occupi in maniera pressoché esclusiva di birra artigianale, vivendo a Udine non ho potuto non presenziare, per onore di cronaca, alla conferenza stampa con cui Peroni (parte della Asahi) ha annunciato il 12 dicembre il rilancio dello storico marchio cittadino. Va detto che Peroni non è nuova a simili iniziative: già un paio d'anni fa ha fatto lo stesso a Padova (dove l'azienda ha uno stabilimento) con Itala Pilsen. Ora è la volta di Udine, dove l'orgoglio locale per nomi come Moretti e - appunto - Dormisch non si è mai sopito.In realtà la birra non verrà prodotta a Udine data l'assenza di un birrificio, bensì nello stabilimento di Padova; il legame con il Friuli sta nel fatto di utilizzare l'orzo friulano (anche Dormisch usava in parte orzo locale, maltato nella Malteria Adriatica di Marghera chiusa a fine anni 70) fornito da Asprom, rete di aziende agricole che producono orzo distico. Sono un'ottantina - numero in crescita, ha assicurato il presidente Alido Gigante - le realtà coinvolte, per una produzione di circa 1000 tonnellate su 370 ettari; e la previsione è quella di arrivare a 1500 tonnellate già il prossimo anno. L'orzo viene poi maltato nella malteria Saplo, di proprietà della Peroni, a Pomezia (Roma). Non una birra "made in Friuli" dunque, ma comunque quanto di meglio si potesse realisticamente pensare di fare data l'assenza in regione di una malteria e di uno stabilimento di proprietà.Venendo alla birra in questione, trattasi di una lager chiara di 5 gradi alcolici, 11,3 gradi plato e 20 Ibu. Personalmente mi ha lasciata perplessa la dicitura "Originale processo produttivo ad infusione" riportata in etichetta: ma come, mi sono detta, l'infusione è il processo più comunemente utilizzato, in cosa consiste la peculiarità? Purtroppo non ha potuto essere presente alla conferenza stampa il mastro birraio Raffaele Sbuelz (friulano, così come il direttore di produzione), così non ho potuto ricevere direttamente da lui ragguagli in proposito; mi è comunque stato spiegato che Sbuelz, che già aveva lavorato alla Dormisch prima della chiusura nel 1989, ha recuperato l'antica ricetta e metodo di lavorazione (ho comunque chiesto di essere messa in contatto con lui, e aggiornerò con ulteriori informazioni non appena gli avrò parlato). Un chiarimento che personalmente trovo utile, dato che questa dicitura potrebbe altrimenti risultare ambigua nei confronti del consumatore - che potrebbe intendere che l'infusione in sé sia un processo "originale" nel fare la birra, quando l'aggettivo "originale" va invece riferito alla ricetta e procedura di ammostamento. Venendo ai volumi di produzione, Federico Sannella, direttore delle relazioni esterne della Peroni, ha affermato che la cosa è in via di definizione: al momento ne è stato prodotto un primo lotto di 200 ettolitri per testare le reazioni del mercato, e poi si prenderanno decisioni più precise. Stando alle affermazioni di Gigante, Asprom è in grado di fornire orzo (e malto di conseguenza) per volumi nell'ordine di centinaia di migliaia di ettolitri, ma la volontà espressa dalla Peroni al momento è di rimanere su livelli più contenuti.Nonostante la gravidanza ormai avanzata, un sorso giusto per curiosità me lo sono concessa: si tratta di una birra in stile, aromi di luppoli nobili e di cereale (senza sbavature peraltro) come d'ordinanza, corpo più pieno e rotondo (per quanto comunque leggero e snello) di quanto ci si sarebbe potuti aspettare da una birra da 11 plato , finale fresco e secco di un amaro leggero e non persistente. Una birra che, nel parco birre una multinazionale come può essere Asahi, è sufficientemente "neutra" da andare incontro ai gusti di un vasto pubblico, ma allo stesso tempo più caratterizzata rispetto alla classica international lager per mirare ad una nicchia di mercato più specifica. Certo il fattore marketing è presente in maniera importante e studiata, e del resto non può essere diversamente: se Peroni investe su queste linee chiaramente ne deve e ne vuole avere un ritorno, e lo fa puntando sull'elemento della territorialità che - come ha illustrato lo stesso Sannella - ha assunto oggi un'importanza cruciale e ha dato una spinta alla crescita della filiera produttiva regionale. Certo potremmo andare a discutere su che cosa significhi "birra friulana" - basta l'orzo? O servono tutte le materie prime? O deve anche essere prodotta in Friuli, anche a costo di appaltare la produzione a uno o più birrifici locali e andare incontro ad una limitazione dei volumi? - ma è altrettanto vero che mai Dormisch viene definita "birra friulana". Né si può etichettare come crafty, dato che non è stata legata ad un'idea di artigianalità. Vedremo come gli udinesi più o meno nostalgici e il resto del pubblico accoglieranno la novità: certo il rilancio di Dormisch è un'ulteriore conferma di come i grandi marchi stiano sempre più cercando vie alternative rispetto al passato, che sia il fattore territorio o il fattore "crafty".