Tra Pordenone e…Brooklyn

Venerdì 27 gennaio ho partecipato, al Palagurmé di Pordenone, alla degustazione dell'americana Brooklyn Brewery. Per gli appassionati di birre Usa non ha probabilmente bisogno di alcuna presentazione; per chi invece non la conoscesse, ricordo che è stata fondata nel 1987 a New York dal giornalista Steve Hindy e dal banchiere Tom Potter, a cui si è unito nel 1994 il birraio Garrett Oliver - che è tuttora l'"anima" del birrificio. Tra le curiosità va annoverato il fatto che il logo è stato disegnato da Milton Glaser, giunto alla celebrità per un altro logo, quello di "I love New York": un marchio d'autore, insomma, non solo per le birre ma anche per la grafica.L'incontro è stato interessante in primo luogo perché ha permesso, specie a chi come me non ha mai avuto modo di conoscere in prima persona il mondo birrario americano, di notare la differenza di approccio rispetto a quello a cui siamo abituati in patria. E non sto parlando solo di livello dimensionale (per la legislazione americana un birrificio può definirsi "craft" fino a 6 milioni di barili, oltre 7 milioni di ettolitri - Brooklyn ne produce 120 mila, un "nano" -, e se è controllato per non più del 25% da un'altra società), ma anche a livello di marketing e comunicativo. A presentare il birrificio è stato infatti il "brand ambassador" (una sorta di "rappresentante 2.0", definiamolo così) Tommaso "Tommi" Locatelli, che lavora appunto per Brooklyn e Carlsberg Italia, a cui è affidata la distribuzione. E già qui c'è la prima osservazione da fare, ossia che in quel di New York non giudicano evidentemente lesivo della propria immagine di birrificio artigianale farsi distribuire da un'industria. A ciascuno decidere se essere o meno d'accordo, però è da prenderne nota. In secondo luogo, mi ha colpita l'approccio alla presentazione dell'azienda: una serie di slide, foto e video, che ripercorevano la storia del movimento craft negli Usa prima e del birrificio poi con uno stile molto improntato all'intrattenimento, quasi alla spettacolarizzazione (intesa nel senso di "fare spettacolo", senza accezioni denigratorie), facendo parlare il birraio, il fondatore, e altri ancora in una frizzante sequenza di immagini e musica - in un esempio da manuale del tanto decantato "storytelling" d'azienda. Molto "all'americana" insomma, verrebbe da dire, come è naturale che sia; però mi ha fatto riflettere su quanti birrifici italiani - vuoi per la dimensione più piccola che non consente di destinare molte risorse a questo settore, vuoi per un diverso approccio al marketing a livello culturale - usino sistemi altrettanto in grado di "catturare" il pubblico. Ovvio che se poi la bontà del prodotto non c'è la cosa è aria fritta (e, almeno idealmente, non porterà alcun frutto), però senz'altro ampia la platea di potenziali acquirenti specie tra chi è agli inizi del suo idillio con la birra artigianale. Significativo, del resto, che si decida di usare la figura del "brand ambassador" per portare in giro per l'Italia il marchio: una versione appunto più "evoluta" del classico rappresentante, occupandosi di far diventare ogni presentazione del prodotto un vero e proprio evento. Nulla che già non si faccia da qualche tempo, certo; però la cosa mi ha interpellato rispetto a quali vie i piccoli birrifici italiani intendano percorrere in questo senso.Detto ciò, torniamo a noi. Prima dell'evento ho avuto modo di fare una piacevole chiacchierata con Tommi, in merito alle vie che la promozione di Brooklyn intende percorrere: in particolare quella dell'abbinamento birra-cibo, per quanto un marchio così intrinsecamente americano come Brooklyn incontri non poche difficoltà nell'essere accostato a quelle che sono le tipicità culinarie nostrane. Sono due, per ora, le birre disponibili (su 57 referenze che ho contato nel listino attuale): la Brooklyn Lager e la Brooklyn East Ipa.La prima è definita "American Amber Lager": e in effetti l'anima americana compare già in prima battuta nella luppolatura (con tanto di dry hopping) che tuttavia unisce le due sponde dell'Atlantico (Ahtanum, Cascade, Saphir, Vanguard, Hallertauer Mittelfrueh), e rimane di un agrumato delicato. Ad amalgamarsi bene a livello aromatico ancor prima che gustativo è infatti la componente del malto Vienna, tra il caramellato e il biscotto, per un corpo di moderata intensità; e che dopo la sensazione di dolcezza al palato chiude però su un amaro delicato, con un finale meno secco e netto rispetto alle lager di stampo europeo. Mi sono trovata a commentare che, con una luppolatura un po' più carica, sarebbe quasi potuta passare per una apa, data la componente maltata abbastanza vigorosa - ma che non pregiudica la bevibilità. Nel complesso l'ho trovata gradevole e appunto facile a bersi, nonché originale nel panorama della lager.Siamo poi passati alla East Coast Ipa (da non confondere con le West Coast Ipa, mi raccomando, che gli americani se ne hanno a male: le East Coast hanno una luppolatura che richiama quelle "originarie" inglesi, più resinose, mentre le West Coast più fruttate, autenticamente "del Pacifico"). Sotto la schiuma notevolissima, che addentandola ha rivelato una potente sferzata di amaro resinoso (i luppoli usati sono Summit, Celeia, East Kent Golding, Centennial, Cascade, Amarillo) e fa il paio con l'aroma quasi di pino, si cela anche qui un corpo sui toni tostati e biscottati di intensità medio-alta, che chiude in maniera netta e secca - non gli si darebbero i sette gradi - con un amaro che è meno persistente di quanto la sua intensità potrebbe lasciar supporre. Ho trovato, a onor del vero, un certo retrogusto ferroso; non voglio chiaramente dare giudizi "con l'accetta" al primo assaggio, ma mi limito a constatare che in questo caso e a mio avviso è stato così.Chiudo citando una frase di Tommi che mi è sembrata racchiudere buona parte del senso della presentazione: "La birra deve dare emozioni: quella artigianale ne dà di più". E se si tratta di un "dare emozioni" non solo con il prodotto, ma anche con la maniera in cui lo si presenta, tanto di guadagnato.

Alla scoperta delle craft beers in Cina

La Cina, come buona parte dell’Asia in generale, non è sinonimo di craft beers. Ma in occasione di un mio viaggio in questo incredibile paese ho avuto l’opportunità di scoprire che anche qui esistono delle realtà, più o meno riuscite, di birre artigianali. Il mio viaggio, di piacere e di visita a vecchi amici dei tempi ...

Birrai, birre e birrifici dell’anno

Domenica 22 gennaio sono stati annunciati i vincitori del premio Birraio dell'Anno, promosso dal 2009 da Fermento Birra. Al di là delle dovute congratulazioni ai vincitori delle due categorie - Marco Valeriani del Birrificio Hammer per la categoria senior, e Connor Gallagher Deeks di Hilltop per gli emergenti - come per ogni premio sono da subito corse sui social, se non le polemiche, quantomeno le "osservazioni": cito qui, semplicemente per averla vista comparire sulla mia bacheca di Facebook, la discussione nata su Accademia delle Birre in risposta alla proposta del fondatore, Paolo Erne, di rivedere i meccanismi con cui il premio viene assegnato - così da compensare gli squilibri di rappresentatività che alcune regioni a suo avviso patiscono, e quelli che si creano tra birrifici molto piccoli e quelli più grandi.Non entro qui nel merito della discussione, che peraltro è stata costruttiva nella misura in cui ha stimolato una serie di proposte - dalla giuria popolare, ad una giuria di birrai, ad un sistema misto di voto popolare, dei birrai e di altri esperti; certo è che per tutti i concorsi, non solo per Birraio dell'Anno, si pone non solo l'esigenza di rimanere "al passo con i tempi" - un regolamento "disegnato" su quella che era le realtà birraria anni fa potrebbe non essere più adatto a quella attuale - ma anche di mantenere il giusto equilibrio tra l'essere una bella manifestazione che riunisce operatori ed appassionati nel segno di una buona bevuta - il "bevi e un rompe er cazzo" di cui alcuni hanno fatto la propria linea guida - e l'andare a scandagliare in maniera tecnica la produzione dei birrifici. Senza contare la serie di "stilettate" che sempre segue l'assegnazione di un premio (perché, si sa, essere tutti d'accordo è difficile): dal ritenere che avrebbe dovuto vincere un birraio (o un birrificio, o una birra) piuttosto che un altro, alle critiche rivolte ad alcuni premi di essere diventati fenomeni "di cassetta" e macchine da soldi, in cui si vince se e solo se si riesce ad investire sia nella partecipazione in senso stretto (alcuni concorsi hanno quote di iscrizione non proprio modiche) che in distribuzione e marketing, o se si hanno certe conoscenze. Di qui la domanda: ma vale davvero la pena "accapigliarsi" per questi concorsi? Un titolo è davvero in grado di fare la differenza per un birrificio?Ho avuto modo di parlarne con Simone Dal Cortivo de Il Birrone, Birraio dell'Anno 2014 (oltre che titolare di diversi altri riconoscimenti ottenuti per le singole birre). "Molto dipende da come l'azienda è posizionata - ha affermato Simone -. Nel mio caso, si può dire che è arrivato nel momento giusto: avevamo appena investito per rinnovare il birrificio, e questo ha dato una buona mano a spingere avanti e a consolidare la posizione. Certo è difficile dire quanto sia stato dovuto al premio e quanto alle innovazioni che abbiamo portato, però i risultati ci sono stati appunto perché il riconoscimento ha sostenuto il percorso che già avevamo avviato". Secondo Simone il premio è quindi uno strumento, e come tale dipende da come viene utilizzato: "La chiave è essere un minimo strutturati come azienda, sia sotto il profilo produttivo che distributivo, per essere presente sul mercato. Ho visto birrai vincere premi anche prestigiosi, e magari ritornare poco dopo ad un profilo più basso appunto per questo motivo". Insomma, benissimo i premi, ma quando arrivano bisogna essere pronti a cogliere l'opportunità che questi offrono; altrimenti costituiscono sì una gratificazione importante, ma con risvolti pratici limitati.Un altro habitué dei podi è Gino Perissutti di Foglie d'Erba, Birraio dell'Anno 2011, e presenza stabile nel medagliere di numerosi concorsi; che, interpellato sulla questione, ha dimostrato di avere una quantità di cose da dire inversamente proporzionale ai suoi peli sulla lingua (si sa, i montanari sono gente che non la manda dire). "Ogni concorso va preso per quello che è, con pregi e difetti - ha affermato -. Non val certo la pena di stracciarsi le vesti se non premiati, ma se iscriviamo le birre ai concorsi un motivo ci sarà: da un lato la volontà e curiosità di far valutare i propri prodotti da degustatori qualificati, dall'altro l'innegabile piacere di ricevere un premio". In quanto al caso specifico di Birraio dell'Anno, Gino lo definisce "un concorso a sé, atipico e con diverse contraddizioni. Non nego il piacere di aver ricevuto tale riconoscimento e tanto meno la gioia nel vivere un week-end coi colleghi (ed amici!) in occasione delle premiazioni. Ma prendiamolo con le molle: se vinci non significa che tu sia per forza il più bravo. Ci sono davvero molti birrai altrettanto capaci ed innovativi che non riescono ad emergere, magari perché lavorano in birrifici microscopici con scarsissima distribuzione e non li conosce nessuno. Diciamo che è inevitabilmente un concorso che scende a molti compromessi e che, se non fosse stato trasformato in un vero e proprio evento, sarebbe probabilmente nel dimenticatoio. La mia premiazione è avvenuta in un noto locale romano di fronte a sì e no 30 persone, metà delle quali continuavano a bere la propira birra incuranti del tutto. L'anno successivo arrivai quinto, e in un noto locale milanese gli astanti saranno stati un centinaio. Ora il tutto si è trasformato in evento, organizzato molto bene, al Teatro Obihall di Firenze, e la premiazione avviene davanti a migliaia di persone. Direi che rende l'idea".Se quindi gli organizzatori hanno avuto, onore a loro, la capacità di far crescere il premio, il vero problema a detta di Gino è "la solita dietrologia italica che spunta ogni volta: se non vendi a Roma o Milano non vinci, se non sei amico del tale blogger non ti fila nessuno, se non hai le birre al tal pub o al tal evento sei fuori. No, semplicemente o fai birre buone con una certa continuità o non le fai. O sei creativo o non lo sei, o hai un certo comportamento con colleghi, addetti ai lavori, pubblico, o non ce l'hai. Per il resto, se accetti i meccanismi che fanno il premio in sé, ok, altrimenti liberissimi di non darvi peso. E' anche un premio difficilmente migliorabile: è e sarà sempre inevitabile che publican, degustatori, blogger o quant'altro vengano influenzati dalle simpatie verso un birraio col quale negli anni si instaura un certo feeling o dallo scarso feeling con qualcun altro. Com'è pressoché impossibile che le birre della gran parte dei birrifici vengano assaggiate nei pub i cui gestori hanno diritto di voto per più volte nell'anno, e con buona diffusione sul territorio nazionale. Dunque, premio importante e gran bell'evento, ma non diamogli troppa importanza". Anche riguardo ad altri concorsi, tra cui Gino cita Birra dell'Anno, "bella atmosfera e bel concorso, anche qui con dei limiti. Se vinci non significa che la tua birra sia la migliore d'Italia: semplicemente lo è stata per quel lotto, per quella giuria, in quella settimana. Sarebbe bello e giusto che venissero valutati lotti diversi, prodotti in momenti diversi dell'anno. Macome si fa? Appunto: compromessi, tutto bello e tutto migliorabile. Sta al singolo accettarlo e partecipare o non darci peso. Basta non scadere in bassezze tipo quelle di chi sosteneva che lo scorso anno ha vinto un birrificio del centro Italia solo perchè la birraia è donna ed era giusto inalzare le quote rosa in un mondo comunque piuttosto maschile e maschilista, perchè davvero mi vien da ridere. Le birre parlano: che sia davanti al cliente "x" che non ne sa e non ne vuole sapere nulla, che sia al banco del miglior pub d'Italia, o che sia altavolo di un giudice ad un concorso, o la birra è buona e piace o non lo è. Tutto qui".Anche riguardo alle vendite, un premio "certo aiuta per qualche mese. Poi, è sempre il mercato a determinarle. Conosco publican che se ne fregano alla grande dei premi, e anzi ne diffidano forse giustamente. Come ne conosco altri che ti comprano solo per quello, convinti di non sbagliare. Opinioni, scelte, idee. Tutto rispettabile. Per me è e dev'essere sempre il prodotto a parlare, a prescindere da qualunque riconoscimento".Da ultimo, un invito (al quale accosto, a titolo di buon auspicio, una foto di Gino con altri due birrai, Severino Garlatti Costa del birrificio omonimo e Costantino Tosoratti di Antica Contea): "Ora più che mai, piuttosto che cercare complotti, fantomatiche caste o logge della birra artigianale, disegni atti a creare nuove galassie luppolate ed abbattere mostri sacri divenuti scomodi, porporrei piuttosto due cose: remiamo tutti verso il riconoscimento della vera birra italiana di qualità, che esiste ed è realtà concreta. Uniamoci, piuttosto che dividere il poco che abbiamo costruito in questi anni. Va bene Birraio dell'Anno, va bene Birra dell'anno, va benissimo Unionbirrai. Partiamo da qui e facciamo capire chi siamo e cosa facciamo. Di bello, etico e pulito. E, per finire, godiamoci le nostre birre italiane senza darci troppo peso o importanza. Relax, dont'worry and support you local (Italian) Brewery!".

Birrai, birre e birrifici dell’anno

Domenica 22 gennaio sono stati annunciati i vincitori del premio Birraio dell'Anno, promosso dal 2009 da Fermento Birra. Al di là delle dovute congratulazioni ai vincitori delle due categorie - Marco Valeriani del Birrificio Hammer per la categoria senior, e Connor Gallagher Deeks di Hilltop per gli emergenti - come per ogni premio sono da subito corse sui social, se non le polemiche, quantomeno le "osservazioni": cito qui, semplicemente per averla vista comparire sulla mia bacheca di Facebook, la discussione nata su Accademia delle Birre in risposta alla proposta del fondatore, Paolo Erne, di rivedere i meccanismi con cui il premio viene assegnato - così da compensare gli squilibri di rappresentatività che alcune regioni a suo avviso patiscono, e quelli che si creano tra birrifici molto piccoli e quelli più grandi.Non entro qui nel merito della discussione, che peraltro è stata costruttiva nella misura in cui ha stimolato una serie di proposte - dalla giuria popolare, ad una giuria di birrai, ad un sistema misto di voto popolare, dei birrai e di altri esperti; certo è che per tutti i concorsi, non solo per Birraio dell'Anno, si pone non solo l'esigenza di rimanere "al passo con i tempi" - un regolamento "disegnato" su quella che era le realtà birraria anni fa potrebbe non essere più adatto a quella attuale - ma anche di mantenere il giusto equilibrio tra l'essere una bella manifestazione che riunisce operatori ed appassionati nel segno di una buona bevuta - il "bevi e un rompe er cazzo" di cui alcuni hanno fatto la propria linea guida - e l'andare a scandagliare in maniera tecnica la produzione dei birrifici. Senza contare la serie di "stilettate" che sempre segue l'assegnazione di un premio (perché, si sa, essere tutti d'accordo è difficile): dal ritenere che avrebbe dovuto vincere un birraio (o un birrificio, o una birra) piuttosto che un altro, alle critiche rivolte ad alcuni premi di essere diventati fenomeni "di cassetta" e macchine da soldi, in cui si vince se e solo se si riesce ad investire sia nella partecipazione in senso stretto (alcuni concorsi hanno quote di iscrizione non proprio modiche) che in distribuzione e marketing, o se si hanno certe conoscenze. Di qui la domanda: ma vale davvero la pena "accapigliarsi" per questi concorsi? Un titolo è davvero in grado di fare la differenza per un birrificio?Ho avuto modo di parlarne con Simone Dal Cortivo de Il Birrone, Birraio dell'Anno 2014 (oltre che titolare di diversi altri riconoscimenti ottenuti per le singole birre). "Molto dipende da come l'azienda è posizionata - ha affermato Simone -. Nel mio caso, si può dire che è arrivato nel momento giusto: avevamo appena investito per rinnovare il birrificio, e questo ha dato una buona mano a spingere avanti e a consolidare la posizione. Certo è difficile dire quanto sia stato dovuto al premio e quanto alle innovazioni che abbiamo portato, però i risultati ci sono stati appunto perché il riconoscimento ha sostenuto il percorso che già avevamo avviato". Secondo Simone il premio è quindi uno strumento, e come tale dipende da come viene utilizzato: "La chiave è essere un minimo strutturati come azienda, sia sotto il profilo produttivo che distributivo, per essere presente sul mercato. Ho visto birrai vincere premi anche prestigiosi, e magari ritornare poco dopo ad un profilo più basso appunto per questo motivo". Insomma, benissimo i premi, ma quando arrivano bisogna essere pronti a cogliere l'opportunità che questi offrono; altrimenti costituiscono sì una gratificazione importante, ma con risvolti pratici limitati.Un altro habitué dei podi è Gino Perissutti di Foglie d'Erba, Birraio dell'Anno 2011, e presenza stabile nel medagliere di numerosi concorsi; che, interpellato sulla questione, ha dimostrato di avere una quantità di cose da dire inversamente proporzionale ai suoi peli sulla lingua (si sa, i montanari sono gente che non la manda dire). "Ogni concorso va preso per quello che è, con pregi e difetti - ha affermato -. Non val certo la pena di stracciarsi le vesti se non premiati, ma se iscriviamo le birre ai concorsi un motivo ci sarà: da un lato la volontà e curiosità di far valutare i propri prodotti da degustatori qualificati, dall'altro l'innegabile piacere di ricevere un premio". In quanto al caso specifico di Birraio dell'Anno, Gino lo definisce "un concorso a sé, atipico e con diverse contraddizioni. Non nego il piacere di aver ricevuto tale riconoscimento e tanto meno la gioia nel vivere un week-end coi colleghi (ed amici!) in occasione delle premiazioni. Ma prendiamolo con le molle: se vinci non significa che tu sia per forza il più bravo. Ci sono davvero molti birrai altrettanto capaci ed innovativi che non riescono ad emergere, magari perché lavorano in birrifici microscopici con scarsissima distribuzione e non li conosce nessuno. Diciamo che è inevitabilmente un concorso che scende a molti compromessi e che, se non fosse stato trasformato in un vero e proprio evento, sarebbe probabilmente nel dimenticatoio. La mia premiazione è avvenuta in un noto locale romano di fronte a sì e no 30 persone, metà delle quali continuavano a bere la propira birra incuranti del tutto. L'anno successivo arrivai quinto, e in un noto locale milanese gli astanti saranno stati un centinaio. Ora il tutto si è trasformato in evento, organizzato molto bene, al Teatro Obihall di Firenze, e la premiazione avviene davanti a migliaia di persone. Direi che rende l'idea".Se quindi gli organizzatori hanno avuto, onore a loro, la capacità di far crescere il premio, il vero problema a detta di Gino è "la solita dietrologia italica che spunta ogni volta: se non vendi a Roma o Milano non vinci, se non sei amico del tale blogger non ti fila nessuno, se non hai le birre al tal pub o al tal evento sei fuori. No, semplicemente o fai birre buone con una certa continuità o non le fai. O sei creativo o non lo sei, o hai un certo comportamento con colleghi, addetti ai lavori, pubblico, o non ce l'hai. Per il resto, se accetti i meccanismi che fanno il premio in sé, ok, altrimenti liberissimi di non darvi peso. E' anche un premio difficilmente migliorabile: è e sarà sempre inevitabile che publican, degustatori, blogger o quant'altro vengano influenzati dalle simpatie verso un birraio col quale negli anni si instaura un certo feeling o dallo scarso feeling con qualcun altro. Com'è pressoché impossibile che le birre della gran parte dei birrifici vengano assaggiate nei pub i cui gestori hanno diritto di voto per più volte nell'anno, e con buona diffusione sul territorio nazionale. Dunque, premio importante e gran bell'evento, ma non diamogli troppa importanza". Anche riguardo ad altri concorsi, tra cui Gino cita Birra dell'Anno, "bella atmosfera e bel concorso, anche qui con dei limiti. Se vinci non significa che la tua birra sia la migliore d'Italia: semplicemente lo è stata per quel lotto, per quella giuria, in quella settimana. Sarebbe bello e giusto che venissero valutati lotti diversi, prodotti in momenti diversi dell'anno. Macome si fa? Appunto: compromessi, tutto bello e tutto migliorabile. Sta al singolo accettarlo e partecipare o non darci peso. Basta non scadere in bassezze tipo quelle di chi sosteneva che lo scorso anno ha vinto un birrificio del centro Italia solo perchè la birraia è donna ed era giusto inalzare le quote rosa in un mondo comunque piuttosto maschile e maschilista, perchè davvero mi vien da ridere. Le birre parlano: che sia davanti al cliente "x" che non ne sa e non ne vuole sapere nulla, che sia al banco del miglior pub d'Italia, o che sia altavolo di un giudice ad un concorso, o la birra è buona e piace o non lo è. Tutto qui".Anche riguardo alle vendite, un premio "certo aiuta per qualche mese. Poi, è sempre il mercato a determinarle. Conosco publican che se ne fregano alla grande dei premi, e anzi ne diffidano forse giustamente. Come ne conosco altri che ti comprano solo per quello, convinti di non sbagliare. Opinioni, scelte, idee. Tutto rispettabile. Per me è e dev'essere sempre il prodotto a parlare, a prescindere da qualunque riconoscimento".Da ultimo, un invito (al quale accosto, a titolo di buon auspicio, una foto di Gino con altri due birrai, Severino Garlatti Costa del birrificio omonimo e Costantino Tosoratti di Antica Contea): "Ora più che mai, piuttosto che cercare complotti, fantomatiche caste o logge della birra artigianale, disegni atti a creare nuove galassie luppolate ed abbattere mostri sacri divenuti scomodi, porporrei piuttosto due cose: remiamo tutti verso il riconoscimento della vera birra italiana di qualità, che esiste ed è realtà concreta. Uniamoci, piuttosto che dividere il poco che abbiamo costruito in questi anni. Va bene Birraio dell'Anno, va bene Birra dell'anno, va benissimo Unionbirrai. Partiamo da qui e facciamo capire chi siamo e cosa facciamo. Di bello, etico e pulito. E, per finire, godiamoci le nostre birre italiane senza darci troppo peso o importanza. Relax, dont'worry and support you local (Italian) Brewery!".

Nuove birre da Ritual Lab + Rebel’s, Crak, Ebers, ECB, Svevo e Peuceti

Quello di oggi è l’ultimo post della settimana che scriverò su Cronache di Birra, perché da domani partirò alla volta della Slovenia per partecipare a un viaggio stampa dedicato alla scena brassicola locale. La mia assenza sarà compensata dagli articoli dei collaboratori del blog, nel frattempo sfrutto quest’ultimo spazio a disposizione per smarcare alcune segnalazioni ...

A marzo torna la Settimana della Birra Artigianale: aperte ufficialmente le adesioni

È ormai tradizione cominciare l’anno nuovo con un’anteprima della Settimana della Birra Artigianale, il più esteso evento sulla birra artigianale che possiamo vantare nel nostro paese. Manca ancora più di un mese al suo inizio, ma, in attesa che si definisca il solito sconfinato programma di iniziative e promozioni, possiamo iniziare a lanciare qualche informazione ...

Marco Valeriani (Hammer) vince Birraio dell’anno 2016. Premiato anche Hilltop

Con una cerimonia di premiazione che ha rappresentato il momento più atteso dello scorso fine settimana, ieri è stato svelato il vincitore dell’edizione 2016 di Birraio dell’anno. Ad aggiudicarsi il premio di Fermento Birra è stato Marco Valeriani del birrificio Hammer di Villa D’Adda (BG), che ha prevalso tra gli altri 20 finalisti rispettando il ...

Eventi per fine gennaio: Le Birre della Merla e Camunia Beer Festival

Come sempre il mese di gennaio è abbastanza avido di eventi birrari, complice il freddo che quest’anno si sta abbattendo sul nostro paese con particolare violenza. Ma è proprio sul freddo che gioca Le Birre della Merla, il primo delle due manifestazioni di cui parliamo oggi e che nel 2017 arriva al suo decimo anniversario. ...

Birrificio campano vende il 50% delle quote societarie

Vendo quota pari al 50% di un birrificio artigianale sito in un piccolo e grazioso comune del Vesuviano, realtà già esistente da anni, attività ormai avviata, da dicembre 2012, con clienti e profitti in attivo. Nel birrificio e già presente un mastrobirraio, che si occupa in toto della produzione ed è titolare della restante quota,ad ...